lunedì 5 ottobre 2009

Quattro settembre

Quando quella sera, nel loro scompartimento, parliamo con le ragazze tedesche, pensiamo di continuo ad Irkutsk, perché l’inverno, là, beh, abbiamo come un presentimento.

Noi ci staremo solo un giorno e mezzo, alla fine troveremo interessante aver visto la Parigi della Siberia, ma ad essere onesti, ci sentiamo leggeri all’idea di non doverci trattenere.

Così come ci sentiamo leggeri appena scesi dal treno, anche con lo zaino in spalla, camminando dalla stazione verso la città, sul ponte sull’Angara. Muoversi fa piacere e l’aria è dolce come le caramelle al pino silvestre. Arriviamo al tramonto, col vento che spazza via il sole. L’alloggio lo abbiamo già, Oleg lo ha dovuto prenotare in anticipo, altrimenti non avrebbe potuto ottenere il visto per entrare in Russia. All’ambasciata non glielo volevano dare senza prove della sua permanenza e lui non ha capito che all’ambasciata russa, forse gli sarebbe bastato tornarci il giorno dopo e trovare un altro impiegato.

Ma ad Irkutsk, l’alloggio, è buona cosa averlo già. Ostelli pare che non ce ne siano molti, tutti stanno in famiglia. Anche noi in teoria, ma la signora, quando suoniamo alla porta, scende e ci porta ad un appartamento tutto per noi e a noi, a dire il vero, presi così e in quel momento, la cosa non dispiace di certo. Dopo quattro giorni sul treno sembra strano avere spazio per aprire le valigie.

La prima cosa da fare è la doccia. La prima da giorni, ma non ci è mancato per nulla, il quadrato di ceramica con la pioggia artificiale sopra. Nel treno la temperatura era perfetta per stare bene senza sudare. Le provodnizze gestivano l’aria da artiste del PH.

Poi Tomas e io mangiamo un pacchetto a testa di pasta cinese in brodo, mentre Oleg non butta giù cibo da giorni, ancora in preda all’avvelenamento moscovita. Usciamo a cercare lo spirito della città e un internet cafè. Ci è venuto in mente che forse, ora che mancano due giorni, è tempo di organizzare il viaggio in Mongolia e per farlo abbiamo bisogno di un collegamento con l’etere. All’improvviso sentiamo il bisogno di internet come non lo abbiamo sentito da giorni. Inoltre non mi dispiacerebbe avere notizie di K, che, con il silenzio dei telefonini, deve per forza avermi scritto un’e-mail.

Nonostante il vento, l’aria della sera sembra quella del mio paese ad ottobre, anche se un paio d’ore dopo è già novembre inoltrato. La notte è fredda, ma l’aria corre asciutta come il borotalco e l’odore delle piante non è uno stanco decotto estivo, ma sa di linfa, viva e balsamica. Profumo. Aria frizzante, dicono, che ci mette le bollicine in corpo.

Ma le bollicine si sgasano presto. All’angolo fra Ulizza Lenina e Ulizza Karla Marxa, zona universitaria, la via dei locali e della vita notturna, è tutto chiuso. È venerdì sera. I ristoranti sembrano tetri, vuoti e gli internet cafè segnalati sulla Lonely Planet danno l’idea di non esistere.

Andiamo a finire nella hall di un hotel a diverse stelle. Vogliamo chiedere di usare uno dei loro computer, ma all’interno, per caso, troviamo una sala attrezzatissima, dove si nasconde la gioventù della città a giocare a poker in rete. Inviamo dieci e-mail identiche a tutti gli operatori turistici di Ulaanbaatar indicati sulle guide e speriamo di mietere bene la sera successiva. K non ha ancora risposto, il che mi stupisce, ma le scrivo di rispondermi e conto che il giorno dopo lo farà.

Torniamo a casa e ci buttiamo a letto. Quella notte, senza il tuc tuc in sei ottavi del metronomo su rotaia, dormo fuori tempo e senza armonia, nel matrimoniale nero, con lenzuola scure e coperta nera a fiori viola.

Ma il giorno dopo si va sul lago Baikal e l’entusiasmo zittisce la stanchezza. Listvianka è a 70 chilometri da Irkutsk e il modo migliore per arrivarci è in autobus. Abbiamo provato ad organizzarci, ma la cosa sembra difficile: pare che ci siano due o tre corriere “ufficiali”, che partono la mattina presto. “Presto” in questo caso significa alle 9, ma le 9 di Irkutsk sono le 4 di Mosca. Dopo la colazione, la signora che ci ospita ci indica la strada per arrivare alla stazione delle corriere. Ovviamente Oleg vorrebbe andarci in taxi, ma sa che quando Tomas e io non lo ascoltiamo non c’è niente da fare e non insiste mai più di tanto. Però l’idea la butta sempre là, anche se sa che la risposta è no.

Camminando verso la stazione incontriamo la città, che, forse proprio perché è in mezzo alla via attraverso la Siberia, è lei stessa una via di mezzo. Si incontrano buriati dai tratti mongoleggianti e russi europei, ci si scontra con gli stili architettonici. Irkutsk è la prova della reale utilità dei piani regolatori urbanistici. Case di legno di sghimbescio, con pareti con angoli mai retti, di assi vecchie, non verniciate, ma con porte e finestre rifinite con cura, colorate e scolpite, intarsiate, come se l'esteriorità non valesse niente, ma la vita all'interno dovesse essere incorniciata nelle finestre. Le case di legno sono tutte diverse, darebbero un’atmosfera particolare alla città, se non fossero isolate, fra palazzoni sovietici, case in mattoni di stile sudeuropeo, imitazioni basate su di un’idea errata di funzionalismo. Stili mescolati, spesso compenetranti, mai in armonia. Passiamo per prima cosa per la piazza centrale, una spianata sovietica, che con il sole timido dell’est a mezza vigogna è una cartolina degli anni Settanta trasformata in realtà. Un’apertura verde, con panche e aiuole rosa, circondata da una strada enorme, impenetrabile, se solo il traffico fosse mai sufficiente a riempirla anche in parte. Tutto attorno, case di un giallo che vorrebbe essere asburgico, ma vira verso il canarino. In fondo si staglia quadrato, rigido, cinereo, sovietico, il palazzo del municipio, separato dalla piazza dalle strisce pedonali più lunghe che abbia mai visto, così lunghe che il semaforo per i pedoni diventa rosso a metà. Il palazzo copre il quartiere delle chiese, quelle ortodosse a pianta rettangolare con due cupole di altezza diversa alle estremità, sormontate da pennoni d’oro, una semplice, bianca con il tetto rosso e un’altra quasi identica, ma completamente affrescata all’esterno. C’è anche una cattolica, la prima in giorni di cammino su rotaia, per i polacchi. In mezzo alla piazza, da un pannello di metallo, raccogliamo il monito del simbolo della città: una pantera nera, con una volpe morta in bocca. Non è un posto facile, questo, ma la domanda è: “ci sono pantere nere in Siberia?” E infatti poi si scopre che è una tigre siberiana con problemi di pigmentazione, mentre la volpe è uno zibellino.

La stazione degli autobus è un piazzale di asfalto ritorto, pieno di minibus tipo Vanette di produzione autarchica. Dalla corriera ufficiale scende una ragazza inglese, che ci racconta che sta aspettando di partire da tre ore e comunque il mezzo è pieno e chissà quando ci si schioda. Meglio provare uno dei minibus, maxitaxi privati che partono quando sono pieni. Molti dei pochi mezzi che circolano in città sono minibus. Chi può permettersi un veicolo lo mette a disposizione della comunità per ripagarlo.

Sulla corriera incontriamo una coppia svedese, che avevamo già notato sul treno verso Irkutsk e incontreremo di nuovo a Listvianka, poi sul treno verso la Mongolia, a Ulaanbaatar in un ostello e in un negozio e sul treno verso la Cina. Sempre più scuri in volto appena ci individuano. Credevano, loro, di essere diversi dagli altri.

E il tratto di strada fra Irkutsk e il lago, dopo l’aeroporto dal quale spuntano le code dei MiG, è uno spettacolo di colori primari. Qui è autunno già da un po’, il bianco della corteccia delle betulle rende il rosso e il giallo delle foglie ancora più lucido, mentre il blu del cielo con il sole issato li completa e li llumina. Il sottobosco è rosso mattone come i licheni e i cespugli, verde scuro come erba che beve di continuo e grigio oleoso come l’acqua dei rivi che scorrono qua e là. La strada è dritta, ma sale e scende su colline che si chiamano montagne. In Russia tutto è più grande, ma le montagne, lasciamo perdere.

I passeggeri fanno cenni volutamente svogliati all’autista, per indicargli di fermarsi ai lati della strada per farli scendere. Questo non risponde mai, ma si ferma, roba che ti chiedi come si fa a sapere che ha capito la richiesta. Nessun ringraziamento viene speso nel corso dell’operazione: è importante mostrarsi sprezzanti. Magari vorresti dirlo, grazie, ma non si usa e poi l’altro potrebbe prenderlo come un segno di debolezza o sottomissione. Noi intanto osserviamo la foce dell’Angara, grigio perla come solo il blu più intenso sa essere. E poi il lago, che sembra un mare, che comincia direttamente ai piedi delle colline rotonde.

Scendiamo, ringraziamo l’autista e il vento ci sorprende subito. Erano mesi che non sentivamo un freddo così. Oleg si fermerebbe in un bar dopo l’altro, invece gli facciamo bastare quello di un negozietto di alimentari, con una veranda sul lago e bicchieri di cartone. Il caffè fa schifo, dice, mentre Tomas e io ci chiediamo cosa si fosse aspettato di trovare. Troviamo un mercato, dove compriamo l’omul, un pesce simile a una piccola trota che vive solo nel Baikal e che viene affumicato e consumato sul posto. Sarà la fame, ma è uno dei pesci più buoni che abbiamo mai mangiato.

Camminiamo lungo la riva, oltre il villaggio. Fuori dalle dacie di legno, spesso dipinte di blu, la gente affumica altro omul, offrendocelo in vendita. Ma noi abbiamo già avuto e ci arrampichiamo su una collina e sulle sue pendici di pini marittimi e funghi ci allontaniamo lungo il lago. Per il nostro ragazzo di città, che ovviamente ha le vertigini, è una tortura. Non lo abbiamo mai sentito invocare così tante volte l’idea di prendere invece un battello. Ma non si lamenta apertamente, propone solamente, e stavolta Tomas non ha intenzione di fermarsi.

Qua e là si trovano rive di ciottoli nascoste, piene di immondizia e resti di falò. Meglio stare verso l’alto, con pini isolati che sulle sommità resistono al vento. Al riparo dalle folate si sta bene, osservando i disegni che l’aria fa sull’acqua in basso, come se gli dei avessero deciso di soffiare per raffreddare il loro tè caldo.

Tomas è una di quelle persone che hanno in mente una lista di cose da fare assolutamete. Una è il bagno nel Baikal. Ma se già l’idea di privarsi di due strati di giacche fa paura, figuriamoci spogliarsi completamente e tuffarsi nell’acqua. Ma Tomas, come si diceva, è un uomo di solidi principi. Mi affida il suo telefonino con telecamera e si lancia. Sembra uno di quegli insetti con le zampe lunghe che si posano sul pelo dell’acqua. Salta in preda al terrore, cercando un punto con acqua abbastanza alta da immergersi, si butta, immerge anche la testa, poi libera un gemito e si fionda verso riva. Il tutto in meno di cinque secondi. Nel giro di due minuti è già vestito. Sopravvivere all’acqua gelata gli consentirà di non soffrire più il vento freddo per il resto della giornata.

Io immergo solo i piedi. Dicono che farlo regali cinque anni di vita. Il bagno intero ne darebbe 25, ma io mi accontento. In più faccio una pisciata: che gioia i riti pagani. Dopo la cerimonia dell’acqua ci incamminiamo verso il punto dove partono i minibus, fermandoci di nuovo al mercato ad immolare un omul a testa per merenda.

Poco prima di partire ci giriamo di nuovo verso il lago e ci accorgiamo di colpo delle montagne innevate che spuntano oltre il lago, lungo tutto il suo perimetro. Non riusciamo a capire come abbiamo potuto non accorgercene prima. Più tardi, anche nelle fotografie, le montagne saranno invisibili, forse confuse con le nuvole e l’acqua. E pensare che quando le notiamo sono così nitide.

Il programma per la serata è semplice: trovare un internet cafè per controllare le risposte dalla Mongolia e mangiare da qualche parte. Oleg vorrebbe vivere la vita notturna, ma il giorno successivo dovremo alzarci alle 4 per prendere il treno per Ulaanbaatar.

Ma i due semplici punti del nostro programma non sono così semplici, perché non si trovano internet café aperti, né ristoranti dall’aria interessante. Giriamo per ore senza meta, nel vuoto del sabato sera siberiano, citando spesso e volentieri le povere ragazze tedesche, che ci aspettiamo di trovarci di fronte da un momento all’altro. Il concetto di “ristorante russo” non esiste e dopo aver scartato fast food e ristoranti giapponesi, non senza proteste da parte di uno di noi, andiamo a finire dall’italiano.

Poi torniamo all’internet cafè del giorno prima. È mezzanotte. K non ha risposto, ma mi viene in mente che mi aveva annunciato che nel fine settimana sarebbe andata a Francoforte a trovare alcuni amici, quindi più che preoccuparmi, mi rallegro della fortunata soluzione del problema escursione in Mongolia, grazie ad un’e-mail ricevuta all’ultimo minuto.

Dormiamo le nostre tre ore, andiamo in stazione, saliamo sul treno e piombiamo nel sonno più profondo fino all'ora di pranzo. Ci svegliamo che le foreste si diradano, e l’autunno è arretrato di nuovo.

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