domenica 17 ottobre 2010





Bukhara è una città calma di caldo. La temperatura blocca i movimenti, costringe a tacere, moltiplica le distanze. Il centro sembra immenso: il mezzo chilometro fra l'hotel e la fortezza, sotto il sole diventa una distanza eroica.

L'unica soluzione è tenersi al riparo dei portici in pietra, delle tettoie lungo la via come si farebbe in una giornata di pioggia, mentre invece il sole fa soffriggere i capelli.

Dall'hotel sul bacino aperto di Lyab-i-Hauz si infila il primo arco per entrare nel medioevo. Poi è tutta una successione di madrasse, moschee e caravanserragli, senza veicoli motorizzati a spezzare l'illusione. Bazar che vendono forbici a forma di becco di pellicano, costruite sotto i tuoi occhi ad un tavolino di legno leggero, artisti calligrafi che spiegano come aggirare con simboli il divieto islamico di rappresentare immagini, samovar sopravvissuti a Stalin e Gorbaciov, che ora cercano di doppiare anche Karimov, vestiti da donna in cotone e seta, i due tessuti che si fanno concorrenza qui, dove il primo viene coltivato e il secondo smistato. Un negozio di spezie, grande come il cucinino di un appartamento popolare, irradia sentori di cumino e cardamomo.

Ognuno dei tanti corridoi sotto gli archi, i posti più freschi in città, è occupato, più che da veri mercatini, da gente che vende quello che sa produrre.

Il minareto Kalon, che assomiglia ad un macinapepe di legno, tiene d'occhio una piazza resa maestosa dagli ingressi immensi della moschea e della madrassa con lo stesso nome. Ci arriviamo al tramonto, con le pareti della città colorate di rosa. Sulla piazza solo un gruppo di bambini che mi circondano per chiedermi caramelle che non ho, mentre cerco goffamente di convincerli a lasciarmi in pace, parlandogli in italiano in tono sempre più concitato e a voce sempre più alta. Lilù dice che sembro un Benigni dolomitico, mentre accelero il passo per scappare, poi mi fermo a spiegare a gesti che non è bello rompere le palle e infine mimo mosse di karate quando provano a tirarmi qualche calcio. Sottile imbarazzo: non sai se quei calci col sorriso ti fanno tenerezza o incazzare.

La gente si sveglia la sera, attorno a Lyab-i-Hauz. Ai bordi del bacino d'acqua con fontane e zampilli, l'aria è leggermente più fresca e si ordinano le carni migliori, che per gli uzbechi sono quelle più nutrienti, quelle coperte di grasso. Girano famiglie benestanti, coppie e qualche raro turista russo. Lilù ordina del vino uzbeco e poi vorrebbe farselo cambiare perché dal sapore si direbbe che la bottiglia è rimasta aperta troppo a lungo. Il cameriere la guarda con uno sguardo che non comprende: la bottiglia era sigillata fino a pochi minuti prima. Il vino uzbeco sarà un esperimento che non ritenteremo.

Attorno a Lyab-i-Hauz, in poche ore serali, si riassume tutto il movimento che era in pausa durante il giorno. Famiglie benestanti con bambini si stravaccano sui tapshan e ordinano tutto quello che il menu ha da offrire. I piccoli scappano a giocare sul cammello di vetroresina e quando i genitori si alzano per ritirarli, è il gatto della casa a saltare sui tavoli e ripulire gli spiedi degli shashlik di manzo e agnello. È importante sedersi il più vicino possibile agli zampilli che smuovono l'acqua del grande bacino centrale. L'acqua spruzzata in aria rinfresca quel poco che basta per sopportare la calura. Al resto ci pensano i succhi Sochnaia Dolina, che berremo di continuo durante il viaggio. Scopro che l'acqua, da sola, non mi disseta. Ho bisogno di sapori.

Gli uzbechi bevono il tè, con effetto sauna: prima fa sudare tutte le impurità rimaste in corpo, poi rinfresca del contrasto fra il calore ingerito e quello esterno. Soprattutto verde, dicono che il nero non abbia gli stessi effetti. Ovunque girano queste teiere bianche decorate di blu, tutte uguali, tranne alcuni modelli identici, ma con il blu sottolineato di linee dorate. La versione deluxe.

A Bukhara mi sveglio una mattina per prelevare qualche dollaro da convertire in sum per escursioni fuori città. Solo arrivato all'Asia hotel, la banca più affidabile della città, quando mi accorgo di aver perso la carta di credito. Torno in hotel, ma non la trovo. Alla fine scendo nel cortile. "Lost! Visa!" Visa si capisce, per il "lost" basta un segno di taglio con la mano. "Telefon, hotel, Khiva".

La signora (Nazira di Nazira e Azizbek in persona?) chiama l'albergo di Khiva e in un attimo torna allo scoperto la maledizione di Moynaq. Pare che la carta mi sia uscita dalle tasche delle braghe corte mentre dormivo appallottolato sul sedile frontale della Daewoo uzbeca, di ritorno dal lago che non c'è più. E pensare che avevo controllato di non aver perso nulla.

Per fortuna la carta me la possono inviare due giorni dopo, via taxi, previa pagamento di un posto in taxi per lei, stessa tariffa di un passeggero di 80 chili. Taccio e acconsento.

Lilù è incazzata. Non le va di perdere tempo. Rimarrà incazzata nella periferia, mentre ci orientiamo con le stelle fra le vie per cercare la madrassa di Chor Minor, una sedia rovesciata (mi viene da chiamarla "chair minor"), che cresce sottolineata dal contrasto con le abitazioni bianche.

Si riaccenderà di entusiasmo alla vista della sedia rovesciata e si renderà conto che valeva la pena di restare più a lungo, camminare fra muri di cemento grezzo con porte di legno istoriate, arrivare fin chissà dove e trovare la via del ritorno quasi a caso, con i bambini che si girano a guardare due turisti così fuori contesto. Valeva la pena soprattutto di camminare verso il parco, seguire i murales di propaganda biancazzurroverde come la bandiera uzbeca, sedersi all'ombra di un monumento alle vittime della seconda guerra mondiale e mostrare le fotografie della nostra guida ad un poliziotto curioso e pieno d'orgoglio biancazzurroverde, come il distintivo sul suo cappello. E continuare lungo le strade del parco, anche se esposte e torride, per arrivare al mausoleo di Ismael Samani, l'edificio più antico della città, conservato così, in mezzo ad un'aiuola verde, una roccia friabile e friata, porosa come un tartufo, scolpita e istoriata a motivi geometrici. E poi oltre, una pozza d'acqua marrone solcata dai pedalò, appena alla base dell'ultimo pezzo di mura della città, e poi il bazar principale. Niente del fascino dei bazar storici, ma oggetti d'uso quotidiano: cappelli quadrati, attrezzi per il giardinaggio, magliette che non sembrerebbero tarocche, se non fosse per la scritta "FC Barselona".

Compriamo il melone che sarà il nostro pranzo e torniamo di corsa all'albergo, dove il tassista uzbeco ci aspetta con la mia carta di credito.

Abbiamo riacquistato la libertà. Ultima cena a Lyab-i-Hauz e poi basta con la vita di città, pur senza traffico: domani mattina si va nel deserto.