sabato 27 marzo 2010

Diciannove settembre: epilogo

È solo l’inizio perché è qui che cominciano a succedere le cose. Non cose grandi, impressionanti, ma in fondo messe da conto da mesi. Qui cominciano gli imprevisti, proprio mentre cali le difese immunitarie in vista della fine.
Succede per cominciare che quella ventata di aria condizionata accesa da Olof due giorni prima, che mi aveva sorpreso all’uscita dalla doccia, mi torna in mente l’ultima notte, prima della partenza. Mi torna in mente mentre mi contorco nelle lenzuola rosa, gelando e poi sudando, come non ho mai fatto prima. La maglietta è completamente bagnata e a metà notte mi tocca cambiarla. Mi torna in mente con un senso di malessere, la mattina dopo, proprio mentre di nuovo esco dalla doccia per vestirmi e stipare in valigia gli oggetti con scritte in alfabeti esotici che ho raccattato fra Russia, Mongolia e Cina.

Un taxi per l’aeroporto costa i miei ultimi yuan. In macchina mi sento debole, ho brividi di gelo. Sono troppo spompato per idee romantiche come dire addio all’Asia e al nostro viaggio durato 9 mesi e mezzo, contando anche e soprattutto la preparazione. Troppo debole per pensare a casa. Penso all’imbarco, nell’illusione che un sedile bombato e una dormita possano farmi bene.

È il periodo in cui la leggenda urbana della febbre suina imperversa in Europa. L’idea di essere malato, e non solo stanco, mi viene in mente solo al gate, poco prima di attraversare un sensore che promette di rilevare la temperatura corporea al volo, garantendo sonori bip in caso di febbre. Non suona, dubbio fugato. Tra l’altro già da un po’ mi sento meglio.

Dall’aereo si vede la Siberia come non l’abbiamo ancora vista, dall’alto: oltre alle foreste verdi, laghi che appaiono perfettamente rotondi. L’aria condizionata è una tortura, in breve torno a stare male, peggio di prima e bere birra è gratis, ma non aiuta. Fra l’altro, a differenza di Tomas, non riesco a chiudere occhio. Siamo già abbondantemente in Europa quando realizzo che potrei davvero avere l’influenza. La hostess mi dà un tè di menta e una coperta, manco un'aspirina.

Mi sento leggermente meglio all’aeroporto di Vienna, per il cambio d’aereo. All’edicola, per rendermi conto di essere tornato in Europa, compro per la prima volta nella mia vita la Gazzetta dello Sport. Da Pechino ai tifosi napoletani arrestati per detenzione di materiali pericolosi, passando per i guai di Ronaldinho.
Nell’aeroporto, cartelli in diverse lingue consigliano di rivolgersi al personale sanitario in caso di sintomi quali brividi, mal di gola e febbre. Potrebbe trattarsi di febbre suina. Fra tutti questi sintomi, a me manca solo la febbre, ma questo non significa che abbia il tempo e soprattutto la forza di cercare il servizio sanitario.

Sull’aereo per Amsterdam, avvolto in una coperta e ancora imbottito di tè alla menta, sto molto meglio. Mentre sudo i nemici dei miei anticorpi in una coperta dell’Austrian Airways, ho il tempo di rendermi conto di star tornando a casa e pianificare di conseguenza. Tomas resterà per la notte, la mattina dopo avrò modo di incontrare la sua nuovissima ragazza, una storia iniziata poche settimane prima del viaggio. Per precauzione, in viaggio l’abbiamo chiamata tutti solo “Dutch Girl”.

Sul treno fra l’aeroporto e casa chiamo K. È sabato sera, scopro che Markus, il suo amico del paesino, si è autoinvitato per il fine settimana e hanno programmato di uscire con amici suoi e altri che K ha conosciuto durante la mia assenza. Dice che ci incontreremo solo la notte tardi, verso le 3, quando torneranno a casa. La cosa non mi fa piacere, ma mi trattengo: in fondo io sono stato via per tre settimane, lei solo una serata.

A questo punto ricordo solo il crollo fra le coperte, l’espiazione tramite sonno, la porta di casa che si apre quando potrebbero essere proprio le 3.

Sarà la sveglia dopo tre ore, saranno le circostanze, ma mi sento male di nuovo. Stavolta K mi offre il suo termometro e mi rendo conto per la prima volta di avere davvero la febbre alta. Si parla della mia malattia e della loro serata. Non una parola sul viaggio. Sarà che dopo tre settimane "com'è andata?” sembra una domanda fuori posto, sarà un’altra cosa che so io.

Con la scusa che sono malato, K dorme su di un materasso sul pavimento, così come ha fatto per le tre settimane precedenti. In effetti il materasso del matrimoniale è il meno caro che l’IKEA aveva da offrire. Ogni volta che uno si muove, anche l'altro si sposta per via di un'onda tellurica di moto incalcolabile. Prima di chiudere gli occhi arriva diretto un riferimento alla tematica più cara a K: ho fatto qualcosa con altre ragazze? Non che mi aspetti una domanda sul viaggio. Sarà la questione del “com’è andata?”, sarà più che altro la famosa altra cosa che so io: K aveva odiato l’idea del viaggio fin da quando avevo comprato il biglietto (prima no, perché non credeva che lo avrei fatto davvero). So comunque per certo che non le interessa sapere cosa abbiamo visto. Da quando anni fa è venuta a sapere che avevo baciato un’altra ragazza, ha smesso di fidarsi di me, si è gradualmente allontanata per tornare ai gusti e alle abitudini della sua famiglia. E le vacanze della sua famiglia erano in camper, nei campeggi, spostandosi su biciclette portate da casa per preparare il fondo per la Bitburger della sera. Sport, esercizio fisico, natura. Meditazione ed espiazione. In Germania è tradizione, anche nelle famiglie cattoliche.

La domanda sulle ragazze me la aspetto, ma non subito, non a freddo. Le rispondo che no, non è successo niente, poi sottoposto a terzo grado le confesso che se avessi voluto avrei potuto e comincio a parlare di U sul treno fra Mosca e Irkutsk. K vuole sapere tutto di lei. Le interessa sapere il tipo di ragazza interessata a me. Poi va a dormire non convinta, ma tutto sommato rassicurata. Il fatto che io sia tornato è comunque una prova che non ho intenzione di abbandonarla. Io invece mi seppellisco sotto il piumone, respirando per annientare i brividi con il calore.

La mattina seguente il termometro non perdona. Rinuncio all’idea di conoscere Dutch Girl e mi butto a letto. Tomas parte e ci salutiamo così, in un abbraccio di flanella contro cotone temprato da viaggio e valigia, barbe non ancora rasate, dopo tre settimane. Finisce il viaggio, ricomincia la vita. Una vita di espiazione, perché ora non sono decisamente in grado di muovermi, con i brividi che mi azzerano.

K diventa dolcissima. Appena Tomas parte, lei, solitamente malata di ipocondria in seguito ad esposizione prolungata a stress da studio e lavoro, salta sul letto dove sono sfasciato e mi abbraccia in silenzio per diversi minuti, senza parlare. Poi si prende cura di me, mi compra tachipirina e Strepsils e mi fa un tè prima di partire per un lungo giro in centro con Markus.

Rimango invertebrato per i primi due giorni della settimana. Niente lavoro, la barba che continua a crescere, ispida e grigia come un cespuglio di ginepro e mi manca la forza anche solo per aprire un libro, ascoltare musica o accendere il computer. Mi rigiro fra le coperte in preda a spasmi di caldo e freddo, lasciandomi prendere dalla nausea ad ogni pensiero rivolto verso l‘aria condizionata dell’aereo, o Pechino in generale.

K va a lavorare e quando torna rimanda di continuo la visione delle fotografie del viaggio. A dire il vero non mi chiede nulla. Per il resto la vita si stabilizza al livello di prima della partenza. Mercoledì torno in ufficio, ancora troppo debole, faccio un errore dietro l’altro, dimentico date di consegna. Il giovedì sera siamo in soggiorno, io seduto sul divano a leggere, sfinito, lei poco distante da me, alla sua scrivania nell’angolo vicino alla finestra, quella da dove sto scrivendo ora.

Di solito le sue sedute informatiche sono silenziose. Lei è sempre stata silenziosa, comunque. A casa le hanno insegnato che se una cosa non è importante, è meglio non dirla per niente. Ad un certo punto la sento parlare: “Credo di essermi innamorata”, così, ex abrupto, senza un “sai” o uno schiarimento di gola. Una risata sforzata fa credere che la cosa non sia seria, ma K non fa battute, soprattutto quando si parla di sentimenti. Anzi, si arrabbia quando lo faccio io. Rimango completamente spiazzato, anche se all’inizio mi sembra che la cosa più logica sia che stia parlando di me. Poi, ancora mentre ride in modo scomposto, quasi sadico, mi racconta la storia.

È un suo collega del quale mi aveva già parlato prima di partire. Lavora in un altro edificio, ma si sono conosciuti ad una delle feste che l’azienda organizza ogni mese un venerdì dopo lavoro. Si sono conosciuti parlando di musica, poi si sono promessi di rivedersi per concerti e discoteche alternative. Come molti olandesi ha un nome alquanto cazzuto: si chiama Dignus.

Pare che dopo due settimane di truce solitudine in mia assenza, K sia stata soccorsa dai colleghi che l’hanno vista piangere dopo la mia telefonata dalla ger in Mongolia. La hanno portata fuori, a divertirsi con loro, lei si è accorta di poter star bene e forse meglio senza di me. Alla fine, mentre ero a Pechino, la sua vita è ricominciata, ha iniziato ad uscire, divertirsi. Io intanto visitavo la Città proibita. Alla fine non era poi così difficile, la vita senza di me.

Così K, che ha una visione inflessibile dell’etica, mi avvisa prima di commettere il danno, perché le cose si fanno bene o non si fanno. Fatto sta che il sabato successivo, quando lei esce con Degno, lui non ci sta neanche. Ma il dado è tratto. I pezzi del puzzle sono gli stessi di prima, ma la colla non attacca più. K cerca casa da sola, dopo pochi mesi scopro di piacere ad una collega che fin dall’inizio non mi è mai stata completamente indifferente. Poche settimane dopo lei va a visitare gli amici dell’università per 10 giorni e io scopro cosa K aveva sofferto in mia assenza, cosa intendeva quando temeva la mia partenza. E nonostante tutto non riesco a stare completamente male, dopo aver visto i lunghi tramonti della Mongolia, l’hotel dell’Intourist di fronte alla stazione di Novosibirsk, gli attrezzi da ginnastica affondati nel cemento davanti alle case e ai pisciatoi degli hutong di Pechino. È un mistero, il mistero del viaggio, come tre settimane possano valere il sacrificio di cinque anni di vita.