martedì 20 luglio 2010


Quando uno arriva a Moynaq, sul molo, guarda le navi e si chiede “Ma che cazzo ci faccio qui?” È automatico. Non mi andrebbe di cominciare con una parolaccia, e neanche con una banalità. Però è così. Da Khiva sono otto ore di macchina, con il mercurio che si dilata oltre i 40, la macchina che scavalca buche sopra i 100, il sole che non riesci a tenere fuori dal finestrino aperto, con l’aria che entra sì, ma ha la temperatura che ti aspetteresti da un asciugacapelli.
E c’è il kum, questo deserto da scenografia teatrale, grigio sabbia, ciocche da chemio d’erba ispida e secca, che non prendi sul serio, perché in mezzo ci trovi chiazze verdi, lagune, bestiame immerso a metà zampa, ragazzini abbronzati che si tuffano e ti aspetti che sia là, sto mare, ma è un falso allarme. Il deserto ricomincia e ti porta, appunto, a Moynaq. Cosa c’è a Moynaq? A Moynaq c’è quello che c’era: un porto sul Lago d’Aral. Solo che in sessant’anni, il mare l’hanno ciucciato le piante di cotone e te lo devi andare a prendere cento chilometri più in su, quasi in Kazachistan. La gente di mare, anziana finché riesce a vivere, porta in faccia le malattie della pelle di un sole che ha capito di aver vinto. La macchina rimbalza in mezzo a una periferia che non serve più, perché il porto più importante del quinto lago più grande del mondo è diventato un molo su di un deserto di conchiglie frantumate.

Ci arrivi, al molo. Guardi in basso il deserto, scendi la scalinata, arrancando, perché il sole ti calca la mano sulla testa per schiacciarti, ispezioni i relitti di nave arrugginiti e capisci che aveva ragione il signore sul treno. Non c’è niente, a Moynaq. È un niente importante, pieno di significato, ma non c’è niente da vedere. Puoi salire sugli scheletri delle barche, decifrare i graffiti per scoprire chi ha avuto la tua stessa idea, puoi vedere se quello che imbianca la terra è davvero sale, puoi guardare le facce della gente, la porta del conservificio. Chiuso. Ma mezz’ora dopo essere arrivato non ti resta che tornare verso la semiciviltà. Altre otto ore, senza parlare, perché l’autista è già sfinito, e comunque non gli va di interpretare i gesti che vorrebbero compensare la tua ignoranza della lingua russa. Perché Lilù è seduta dietro, allungata sui sedili, stanca e nervosa e il vento è troppo rumoroso per conversare. E comunque Moynaq ha messo malumore anche a me. Giocarsi più di metà delle ferie del 2010, cercando un mare quando sai che c'è solo sabbia, vuol dire andarsele a cercare.

Scemi noi. In Uzbekistan per scherzo. Arrivati tre giorni fa, abbiamo già raggiunto il culo sporco della nazione.

E infatti questo è il momento più basso. Un momento che serve, perché i monumenti sono solo una parte, e in Uzbekistan le parti sono tante. Il centro dell’Asia è una rotonda dove hanno messo la freccia carovane cinesi con bastoni di bambù alti due metri con una coda di cavallo all’estremità, arabi armati di khanjar ricurvi, persiani, zoroastriani, mongoli, veneti, spie inglesi, turchi e turcomanni, soldati macedoni col sole sugli scudi e carri corazzati sovietici sulla rotta per l’Afghanistan. C’è la gloria della storia e il deserto del presente, o con un po’ d’ottimismo, del passato sovietico. Tempi macistici, di laghi da ridurre a pozze per trasformare le sabbie in campi di cotone. Pakhta: cotone, tuttora onnipresente in un simbolo stilizzato al centro di stelle islamiche a otto punte sulle pareti dei kolkhoz. Orgoglio dei governi e rovina della gente. Dove c’era la seta, impiantare il cotone.

E la UzDaewoo bianca rotola, rimbalza, inforca doline nell’asfalto, sorpassa centinaia di carretti di legno trainati da asini, trattori immensi intrampolati su tre ruote, bestiame, sabbie, case di fango, tubature idriche esposte, sempre con lo zampillo, che sembra bucato di proposito, forse per dimostrare che l’acqua c’è, basta usarla. Quasi un motto sovietico, se ogni proletario apre un buco nelle tubature, prosciugare un lago non è impossibile. L’uomo che fa sua la natura.
Ma l’uomo è altro, a patto di saperlo nascondere. L’uomo si riconosce a Nukus, il rifugio di Igor Savitsky, collezionista d’arte contemporanea, che era riuscito a salvare dai gulag le opere dei pittori che il regime voleva imbiancare. In tempi in cui la trasparenza cambia fuoco, le opere degli autori di Savitsky hanno modo di uscire a galla e portare fama ad un museo nella steppa del Karakalpakstan.
È un segreto, come tanti qui. L’Uzbekistan è una concentrazione impressionante di bellezza nel mezzo di un deserto di sabbia grigiognola. Risalta. Come le cupole ricoperte di maiolica blu, turchese e verde in cima a minareti di terra brulla, in città di terra brulla, con pareti semplici e grigie come la terra, ma con dettagli scolpiti e decorati di geometria. Devi andare a cercarla, la bellezza, ma non è difficile trovarla, basta osservare, sondare la steppa. Come stare fermi in mezzo alla prateria, soli, e scoprirsi circondati da migliaia di roditori terricoli. Quasi. Ci si può capitare solo per caso.