sabato 16 gennaio 2010

Dodici settembre

Il viaggio fra Ulan Bator e Pechino è il contrario. Non c’è un singolo mongolo, un singolo cinese, che viaggi verso la Cina. Alla faccia dei prodotti cinesi e dei loro prezzi, i mongoli la spesa la fanno ancora in Russia.
Non è altissimo, il numero di quelli che viaggiano senza necessità, per vedere, provare, cambiare, conoscere, scoprire, dimostrare, ma il numero dei treni fra la Mongolia e la Cina è ancora inferiore. Per questo il binario 1 della stazione di Ulan Bator alle 8 di mattina del sabato è l’unico vero ritrovo per chi la Mongolia la tiene come tappa intermedia.

La mattina, troppo presto, troppo freddo, c’è la coppia svedese, la stessa che da Mosca attraverso Irkutsk e il Baikal sta cercando di comunicare indirettamente ai miei amici quanto poco originale sia la nostra idea transiberiana. C’è un gruppo di ragazzi vestiti da skater, chiaramente tedeschi, gli unici in grado di viaggiare organizzati in gruppi di più di quattro persone. C’è una famiglia. Con bambino biondo di due o tre anni. Devono essere olandesi o scandinavi, per l’idea di portare il bambino, più che per la biondezza. Portare un bambino di tre anni sulla Transiberiana significa mutilarlo perennemente del senso della meraviglia. Quando avrà 18 anni, il ragazzo non si stupirà neanche se metterà piede sulla luna. Come quella gente che ti parla del suo viaggio in Viet Nam o in Sudafrica come se fosse la cosa più normale al mondo.
L’unica mongola nell’intero vagone, la troviamo nel nostro scompartimento. Oghi veste all’occidentale, in modo sobrio, ma elegante, un’eleganza che sicuramente non la potrebbe far passare per americana, ma non è mai stata più lontana di Pechino. Studia giornalismo ad Ulan Bator, come Ciuca. Come piace il giornalismo in questo paese dove non succede niente!
Dopo 10 minuti ci racconta della sua amica che abita in Svezia, di lavoro fa la ladra e si trova in prigione, rischiando di essere rispedita nella sua ger natale se non trova qualcuno da sposare entro pochi mesi. Il tutto con lo stesso candore col quale un’ora dopo ci mostra filmati pornografici sul suo cellulare, descrivendoci le sue scene preferite e parlandoci della sua predilezione per li filmati giapponesi e il kung fu porn. Il tutto con massima naturalezza, zero malizia e chiaramente nessuna intenzione di portare la cosa più avanti di così.

Nel frattempo la pace viene sconvolta da un colosso di carne ben compatta, seno e denti bianchi sorridenti. Linda viene dalla Svezia, attraverso diverse tappe intermedie, geografiche e psicologiche. Fragilità imballata dentro la protezione di un corpo da valchiria. Dice di avere davanti a sé una vita da scrivere ricopiando quella trascorsa e correggendone i refusi. Viaggia sola e ha l’energia e l’irruenza di chi non ha parlato con nessuno da giorni. Dice di voler sondare la situazione geografica nel vagone. Il nostro scompartimento è il primo e le chiediamo di tornare al termine del rilevamento, con i risultati.
E dopo venti minuti è di nuovo da noi, ci spiega che è proprio la Svezia a conquistare la maggioranza, davanti ai Paesi Bassi e ai quattro skater, che non sono tedeschi e da soli conquistano il terzo posto per la Svizzera. Da rilevare il signore americano, che in seguito qualcuno giurerà essere a turno tedesco o finlandese, nel vagone accanto al nostro, in grado di lamentarsi per qualsiasi cosa abbia visto nei suoi lunghi viaggi. Probabilmente anche lui era già stato messo su di un treno quando aveva tre anni. Mentre mi passa davanti col broncio mi chiedo cosa ci faccia, gente del genere, sul vagone per Pechino, invece che a Pattaya a godere di tredicenni illibate/i. Carenza di bhat?
In effetti, lo stesso signore verrà più tardi udito lamentarsi della scarsa disponibilità delle ragazze mongole rispetto a quelle thailandesi.

Nel vagone, l’atmosfera è da gita scolastica. Nulla di esotico. Niente contrabbandieri, niente famiglie locali, solo viaggiatori occidentali, per lo più giovani, chiusi un una scatola di biscotti come topi e lanciati in una pista da biglie nella sabbia del deserto del Gobi, visibile attraverso fori praticati sulle pareti dal ragazzino cattivo che li ha catturati. Ma le finestre potrebbero essere megaschermi televisivi, fissi su immagini di sabbia. I paesi sono accumuli di case che sembrano scatoloni mezzi rotti, abbandonati dopo un trasloco. La statua argentata del cosmonauta mongolo, in una posizione da manga, mentre brandisce un razzo di forma fallica che sembra una scultura di Takashi Murakami, è l’unico oggetto luminoso in questa pianura di sabbia. Nemmeno il vetro, nemmeno la lamiera, satinati da ruggine e sabbia.

Oghi è l’unica traccia di Mongolia, una traccia vestita all’occidentale, ma con un imprinting decisamente diverso da quello al quale siamo abituati. Viaggia con una borsa piena di piccoli souvenir, oggetti da regalare. Minimo prezzo, minimo ingombro, massimo significato. Tutti oggetti legati alla sua terra: stoffa con motivi di cavalli e cammelli, immagini di ger. Per noi ha banconote rossicce da 5 tugrik. Valore 5 lire, ma nuove, belle, con scene di natura e una riproduzione di qualche Khan. In tutte le guide sta scritto di portare piccoli oggetti, souvenir da regalare ai locali quando li si incontra. Questa storia non mi aveva mai convinto, ma mi ha rassicurato notare che è una cosa reciproca: i locali hanno regali anche per noi. Significa che non è una cosa imperialista e unilaterale, ma uno scambio di oggetti che possono essere trovati in un luogo solo. E allora ci adeguiamo, ci sottoponiamo a questi regali, senza nulla per ricambiare, perché occorre viaggiare leggeri, si sa. Quando abbiamo fame, Oghi apre la sua zuppa cinese, ne mangia solo un cucchiaio e lascia tutto il resto a noi.

Lo spazio meno occidentale sul treno è il vagone ristorante. Decorato interamente di volte in legno scolpito, con volute di serpenti e uno degli strumenti tradizionali che suonava il musicista tre notti prima. Ci si trova di tutto, soprattutto la vodka Chinggis, ché le ferrovie mongole sanno bene che i turisti devono finire i tugrik prima di entrare in Cina. È quasi la prima vodka che beviamo da quando siamo partiti, ma ci facciamo rispettare. È il tardo pomeriggio.

A questo punto la coscienza mi abbandona per tornare di colpo verso mezzanotte, appena cerco di darmi un contegno per parlare con l'unica altra persona ancora sveglia sul vagone. Siamo al confine, versante mongolo, fermi da tempo e Mia avrebbe diverse storie da raccontare, storie che per me suonano interessanti, ma per lei sono traumi. Nata in Australia, sua madre apparteneva ad una delle ultime famiglie ebree ortodosse dell’Iraq, ma aveva rinnegato origini e tradizione per scappare in Australia con un ragazzo olandese. Il ragazzo olandese l'aveva piantata pochi anni dopo la nascita di Mia, e ora Mia è qui con me a raccontarmi la sua storia. È passata mezzanotte e lei è una ragazza dolce, ha un inglese lento e vellutato da hippy, fa la hippy e dopo essere cresciuta a Londra, vuole tornare in Australia in treno per scoprire le sue radici e farsi delle idee su un futuro che per ora pare confuso ("vorrei vivere della mia arte"). Mia è bella, con il suo profilo arabo europeizzato, e mi ha preso in simpatia. Con lei fumo una delle 15 sigarette della mia vita, una sigaretta mongola, rauca e con un nome dissonante, qualcosa come “alba felice”. Mia quel pacchetto di sigarette l’ha ovviamente comprato per il nome. Dal corridoio lanciamo un’occhiata al panorama surreale all’esterno. Siamo in un deposito e una fitta folla di operai sta cambiando le ruote dei vagoni, una ad una, perché lo scartamento delle ferrovie cinesi è diverso da quello russo e mongolo. Non sarà una situazione romantica, ma di sicuro è piena di significato. Chissà se gli operai si sentono osservati, se pensano a questi occidentali svegli a quest’ora anche se non hanno di meglio da fare che ridersela allegramente mentre loro lavorano. La situazione si sta facendo ambigua. La mia forza di volontà è sottoposta ad attriti industriali, ma per fortuna anche Tomas peregrina per il vagone. Scopriamo di essere rimasti entrambi chiusi fuori dallo scompartimento. Dopo un’altra ora la porta si apre, non osiamo neanche cominciare a discutere la situazione: ci precipitiamo nel letto senza dire una parola.

La mattina arriva tardi, sa di montagne attraversate. Montagne polverose e friabili, color sabbia con ciuffi di un verde più sicuro. Nulla sa di politica, dittatura, repressione, comunismo. Mi torna addirittura in mente l’Italia: pareti intonacate e tetti di cotto con tegole rosse. Ci siamo lasciati dietro la Mongolia interiore cinese e troviamo acqua e ninfee, risaie, strade in costruzione. Comuni agricole, una città minuscola di appena un milioncino di abitanti. Le montagne sono tagliate, sfigurate, squadrate in uno sforzo verso la geometria che genera gradoni atti all’arrampicata ortofrutticola.

Siamo seduti nello scompartimento di Linda e delle hippy angloaustraliane mentre passa il bambino che avevamo già visto in stazione ad Ulan Bator e mi chiede in olandese se ho un biscotto per lui. Stavolta ti è andata di culo, bimbo, eccoti il tuo hapje, ma non credere che in tutto il mondo si parli la tua lingua frusciante.
Mentre parte il conto alla rovescia verso Pechino (solo 4 ore, manco 500 chilometri!) ricostruiamo le ore di oblio della sera prima, col prezioso supporto del telefono videocamera di Tomas, l’unica fonte disponibile di verità fisse e inconfutabili.

Birre Baltika da mezzo litro e spari di Chinggis Vodka ci hanno condotti all’oblio in dieci minuti. Nelle fotografie i gesti di Oghi e Linda si fanno sempre più ammiccanti. Tomas trova un video con le ragazze che si baciano e si toccano, mentre il cameraman le incita con voce decadente. Poi, mentre me lo raccontano, sbroglio dalla mente altri dettagli, un signore mongolo, spuntato da chissà dove, critica Oghi per l’immagine del loro paese che dà agli occidentali. La parte che segue non è molto chiara, ricordo me e altri a consolarla mentre piange, poi un taglio nesso sulla solita discussione calcistica con i ragazzi svizzeri. Giorni dopo, a Pechino, un fazzoletto sporco mi ricorderà tabacco da naso svizzero di ottima qualità e Tomas confesserà di aver sfilato il vestito copritutto rosso sbiadito di Linda, per poi fermarsi come sembra essere costante del viaggio pochi momenti prima dell’impatto. Poi continuerà a spiegarmi che non solo ero presente durante la scena, ma ero stato io stesso a farlo desistere. Di come sono finito abbracciato a Mia, a pochi passi da un bacio che forse lei credeva inevitabile, ricordo solo le ultime fasi.

Ma quel giorno il protagonista è Cass. Tutti attendiamo che si svegli e ci racconti la sua parte della storia, ma lui dorme ancora, abbracciato ad Oghi, dimostrando che le cuccette dei treni non sono troppo strette per due persone.

Cass è un uomo timido e modesto, la storia ce la racconterà come l’omul del Baikal, a piccoli tranci, nel corso dei sei giorni a Pechino, mollando i dettagli più scabrosi solo negli ultimi istanti.

Con la sua faccia innocente e il suo accento sincopato, mentre la geometria edilizia buca la cupola grigia dello smog di Pechino, Tomas ci rivela di non aver mai visto tanta promiscuità in vita sua.