venerdì 26 novembre 2010


L'ultimo pomeriggio a Bukhara il calore ci mette addosso una febbre artificiale. Il sole non lascia secondi di pace, non c'è rifugio nel forno.
Compriamo acqua da bere e da versarci in testa e sfidiamo la malattia indotta per ficcare il naso fra le vie disorganizzate dei quartieri residenziali, sicuri che questa città non possa essere fatta solo di monumenti. Non lo è, ma anche tra l'ombra incandescente della periferia emergono tracce di tempi passati. Edifici di cemento grigiobianco con portoni di legno intarsiato, logge con travi istoriate negli androni popolari, mentre ci trasciniamo quasi al limite delle forze, per poi collassare sul letto dell'albergo per due ore di sonno che ci ridaranno forza giusto per l'ultimo shashlik attorno a Lyab-i-Hauz.


E poi ci si alza presto la mattina, per farsi portare verso nord. La notte ha piovuto, una pioggia che sembrava impossibile nei giorni precedenti, ma che è là, per terra, a stendere un nuovo manto satinato su questa città che conoscevamo a colori e di sfuggita, proprio mentre partiamo, ci appare diversa.

Prenotare un taxi tutto per noi era l'unico modo per arrivare al lago Aydar Kul, un enorme bacino d'acqua dolce nel nord del paese, quasi al confine col Cazachistan, in mezzo al deserto. Un luogo dove qualsiasi uzbeco non avrebbe avuto modo di voler andare.

E fra il deserto di Bukhara e quello della nostra destinazione passiamo attraverso le montagne di Nurata, in una steppa a tratti perfino coltivata a cereali, campi che dipingono di giallo il paesaggio di verdi, grigi e marroni opachi. Il cielo è coperto e mentre ci avviciniamo alle montagne la temperatura si abbassa, per rialzarsi di colpo quando l'asfalto finisce e la UzDaewoo si incanala in sentieri tracciati sul dorso di dune che domani potrebbero essere in un altro luogo. Ci fermiamo in una valle arancione, coperta di yurte bianche che sembrano uova di dinosauro in un cratere di sabbia. Il campo è tutto per noi, l'autista e il russo che lo gestisce, un uomo di un umorismo russo: fatto di esagerazioni e parabole, ma mai sbracato a perdere la dignità. Piccole prese in giro in tono di sfida bonaria lo rendono ancora più mascolino. Un umorismo facile da trasmettere a gesti,anche senza parlare la stessa lingua.

"Varan", ci dice, quando ci serve la carne, che per fortuna ha un aroma caprino mai così rassicurante, che sventa subito l'ipotesi che davvero si tratti di fette di lucertola di grosso calibro.
Poi ci presenta la Kyzyl Kum Pizza, uno sformato di patate. E il tavolone di legno punteggiato di ciotole con piccole tapas russe di erbe, verdure, frutta secca e fresca che non posso mangiare per via dei problemi intestinali causati dalla calura. Sono scettico, ma provo la vodka che mi offre per risolvere il problema. E funziona. Spirito che dona spirito.
E poi finalmente il lago, perché sono giorni che desideriamo sentirci attorno l'acqua, anche se questa è sapida e tiepida come quella di un tè cinese. Invoglia ad avvicinarsi, stringersi e lasciarsi andare soli, nonostante l'autista che passeggia non troppo lontano.


E chissà cosa pensa l'autista, chissà cos'è che gli fa dimenticare una strada che conosce bene e ci fa perdere nel deserto, fino ad incagliare lo scafo della UzDaewoo in una duna di sabbia, come le navi di Moynaq.
Mentre io e lui cerchiamo di riportarla a galla, con gli stessi metodi che si usano da me per liberare i fuoristrada dal fango, fa battute sui varani, i lucertoloni del deserto di cui qui tutti parlano, ma che lui dichiara di aver visto solo una volta, senza vita, sul ciglio della strada.

Ci vuole più di un'ora per liberare la macchina e cercare la via per tornare al campo, esausti di voglia di addormentarci, cullati dalle ninnenanne punk delle morbide buche sabbiose delle strade desertiche, ma costretti a stare svegli per cercare la via. È Lilù, con la sua memoria fotografica, a condurci sulla strada giusta, riconoscendo la successione di virate a destra o sinistra sui bivi della pista fra le dune.

Al campo il sole si sta già abbassando in uno dei lunghi tramonti dell'Est. Camminiamo fra le dune arancioni, coperte da macchie di cespugli verdegrigi con fiori che sono globi di chiodini spinosi. È l'ora in cui escono gli animali: una tartaruga compatta in mezzo alla strada, un grosso ramarro blu con la coda arancione, quasi un oggetto estraneo fra i colori del deserto, come potrebbe essere una lattina di birra o un qualunque altro oggetto abbandonato da qualche turista. Niente varani. Intanto è notte e gli asini si radunano sulle cime delle colline, mentre noi ci sdraiamo in silenzio sui materassini dentro la yurta, subito dopo una cena di Kyzyl Kum Pizza e vodka. Il silenzio, la solitudine, la yurta di tipo kirghiso, più stretta, alta e meno raffinata nella struttura di quelle mongole, ma ugualmente confortevole, si va a letto molto presto per un sonno santo di molte ore, nel silenzio e nell'oscurità totali, per rinfrescarsi prima del giorno di Samarcanda.