mercoledì 16 febbraio 2011

All’aperto è un sonno rumoroso, duro, freddo e polveroso, ma la scomodità rende meno fastidiosa l’idea di alzarsi. Yan è già partito, prima che i colori tornassero a riempire di giorno questa parte del mondo. Lo abbiamo salutato la sera prima, un altro compagno di viaggio che se ne va senza scambio di recapiti. Forse le sue storie avventurose non erano sempre credibili, ma era da ammirare se non altro per la naturalezza nell’interagire con chi gli stava intorno.
Noi partiamo dopo una colazione al rosa dell’alba, con il giovane pastore e la scia degli occhi sospettosi di sua moglie Zilola, una ragazza poco più che adolescente, che ha lasciato la famiglia di etnia tagìca (ceppo persiano) per vivere qui, adattandosi a parlare solo uzbeco, una lingua turca e molto diversa dalla sua. Forse è gelosa di noi, che ci portiamo via il suo unico legame con questo posto.

E non ha nessuna ragione di temere, perché trattiamo suo marito come un principe, mentre lui ridacchia per tutta la via con suoni di saliva aspirata, chiedendosi perché mai questi stranieri abbiano deciso di lasciargli l’onore di fare tutta la strada a dorso d’asino, nonostante le sue ripetute offerte di chilometri a sbafo su zampe altrui.
Ha addosso vestiti troppo larghi per il suo corpo magri, che lo fanno sembrare un rappista di periferia. Non intenzionalmente, ma perché sua madre i vestiti li ha scelti a caso al mercato, o forse li ha presi fra quelli smessi da suo padre. Tanto qui non serve apparire meglio di quello che si è, perché comunque tutti ti conoscono già molto bene per quello che sei davvero.

In cima ad un monte giallo vediamo finalmente la piana desertica, libera davanti ai nostri piedi e in fondo emerge un nastro d’alluminio, quello del lago Aydar Kul, largo e stretto, un fossato che protegge il Cazachistan.
E noi ci avviamo verso il lato opposto, verso una parete protetta, che fa da paravento alla destinazione dell’ultima tappa.

C’è un ruscello più ampio di quello del giorno prima, che scende in una valle con pendenze appena più dolci. Un mulino dovrebbe pompare l’acqua verso le case stese sulla parete, ma la ruota è rotta, in attesa che qualcuno trovi il tempo per ripararla. I campi sono piccoli, raccolti in un riquadro, sul versante opposto rispetto a quello abitato. Nel fondovalle, davanti al mulino, c’è posto anche per una strada, quella da cui la mattina successiva prenderemo l’autobus verso Forish e Jizzax.

La fattoria dove ci fermiamo è un altro prato disseminato di alberi sparsi, con un tapshan livellato sul pendio inclinato. Stavolta il capofamiglia ha un’aria cittadina. Sembra una persona istruita e ha modi che, in combinazione con la sua tunica ricamata, lasciano intuire un passato urbano. È sicuramente la persona più elegante che vediamo da diversi giorni. Ha un’aria saggia, ma la conversazione è difficile come sempre e lui sembra trovare il dialogo per segni ed intuizione troppo superficiale. Ci rivolge uno sguardo che sembra severo, poi fa una battuta che fa ridere tutti quelli che comprendono la sua lingua e se ne va verso i suoi appartamenti.

Questo ultimo giorno lo passiamo a leggere, scrivere e dormire sul tapshan, mentre la famiglia, che non ci viene neanche presentata, rimane a distanza, immersa nella vera vita. Il cibo ce lo portano dei bambini che scappano immediatamente e anche se un ragazzo si offre di mostrarci la zona, ad iniziare dal mulino, il giro dura meno di mezz’ora. La situazione mette a disagio, ma stavolta non faccio nulla di attivo per cambiarla, perché sono stanco morto e una mezza giornata di riposo non è una prospettiva cattiva.

È un giorno di decompressione, per fermarsi e assimilare i dettagli di quello che abbiamo fatto finora. Serve per lisciarsi le penne prima del viaggio verso Tashkent, che comincerà prima dell’alba, con l’unica corriera per Forish e poi Jizzax.

È una corriera che si riempie un po’ alla volta, si ferma ad ogni villaggio o casa isolata, e ancora ai bordi della strada quando qualcuno alza il braccio, e si riempie di signore coperte di foulard e signori con il cappello quadrato, che in questa zona è nero con un motivo bianco a forma d'ala.

Le ruote rotolano giù da quella che per i nostri piedi era stata una salita, rimescolando la polvere della strada in terra battuta. Dalla nuvola di terra escono due gruccioni di un azzurro elettrico, con le ali arancioni, e mi risveglio fra il traffico di Jizzax.

martedì 8 febbraio 2011

Da questa valle verde sembra impossibile immaginare i saliscendi ruvidi che ci assalgono appena fuori dal villaggio. Il verde, con alberi ed erba alta, è tutto nei punti che rimangono perennemente in ombra, come una foresta di peli in un’ascella di proporzioni bibliche. Le zone esposte al sole invece sono di un giallo epatico. Peli verdi nell’ascella di un alcolizzato. Un paragone cattivo, perché in mezzo alla pelle opaca, questi peli hanno il colore di smeraldo dell’erba e degli alberi sparsi e disorganizzati di quelli che vorrebbero essere frutteti, ma sembrano più giardini all’inglese. Privi della regolarità dei filari dell’agricoltura estensiva, gli alberi sono piantati con gli spazi di un giardino.

Il fatto è che la canicola risparmia solo chi riesce a nascondersi, rifugiarsi nei punti più remoti delle valli, ripararsi come in trincea. Rifugi come questi sono i punti di partenza e arrivo delle nostre camminate, ma fra uno e l’altro passiamo attraverso pendii dolci, ma esposti, nudi.

La mattina si parte presto, dopo una colazione nutriente di mandorle, uva passa glassata, pane, tè e marmellata d’abicocca. Rubiamo due mele in miniatura per la camminata e ce le infiliamo in tasca. Queste mele, di stagione a giugno, sembrano essere uno dei frutti preferiti degli uzbechi. Il sapore è quello di una mela delle proporzioni che conosciamo, ma la consistenza è più farinosa, simile a quella di una renetta. Buone, ma i frutti che preferisco, i più dolci fra tutti, sono le more dei gelsi, molto diffuse, perché si raccolgono dall'albero che produce le foglie più adatte per ingrassare i bachi da seta.

Il mio zaino è il più pesante e mi tiene schiacciato contro il terreno. È pieno di vestiti lunghi che in tre settimane non userò mai. Niente jeans, sempre e solo l’unico paio di pantaloncini corti, che di sera lavo a rate, in modo da poterlo trovare asciutto la mattina seguente.

La giacca a vento sepolta sul fondale dello zaino è un oggetto decisamente estraneo. Quando mi capita fra le mani, mentre disfo lo zaino, mi fa rendere conto delle distanze. Da quassù, un mondo dove servono le giacche a vento sembra impossibile.

Procediamo in colonna, fra capre senza pastore e macchie di cespugli resistenti, di struttura stopposa. Chilometri senza vedere un albero, ma dove ce n’è uno, c’è anche un villaggio, vita. In testa alla colonna c’èla nostra guida, un ragazzo magro con un sorriso largo e onesto, protetto dalla cappa di un paio di baffi neri. Avrà trentacinque anni, orgoglioso nel suo cappellino con il simbolo dei blaugrana e la scritta Barselona.

Io e lo zaino stiamo in fondo, anche perché non sono qui per fare esercizio fisico, ma per guardare, e se mi va bene, vedere. E sono fortunato, perché il passaggio degli altri davanti a me spaventa un’upupa, una sagoma colorata di rame e nero, che mi taglia quasi la strada e sparisce in un secondo dietro le curve dei colli. Un colore vivo che è irreale, stona fra queste tinte bruciate. Quando parlo del mio avvistamento, nessuno sembra particolarmente impressionato. E li capisco, perché se fossi nato in città come loro, probabilmente anch’io considererei la gioia di vedere per pochi secondi un animale selvatico un'emozione per puri nerd. Una cosa come quella che ho letto con orrore nell’autobiografia di Jonathan Franzen, un catalogo di avvistamenti. "Ho avvistato 326 specie nella mia carriera di birdwatcher”.

Sorprendere un animale selvatico è una soddisfazione che non ha spiegazioni. Forse è pura curiosità, forse addirittura voyeurismo, inteso come passione per il vedere cose. Ma se non fosse per queste due cose, che senso avrebbe partire da casa?

Ci fermiamo davanti ad un edificio senza infissi, all’ombra di una parete rocciosa, pieno di rami coperti di foglie che alimentano come frutti migliaia di bachi da seta bianchi e grossi, e poi, dopo altri chilometri di salita e discesa in un panorama sempre più cotto, ci fermiamo in paradiso: una valle scavata in profondità dalla pazienza di un ruscello, con alcune case con le pareti di terra secca appoggiate sulle pendici. In fondo alla valle ripida, il ruscello rallenta in una pozza fresca dove i piedi gelano di sollievo davanti ad un riparo con una tettoia e un tapshan all’aperto, costruito come un ponte sul ruscello.

Questa è la nostra tappa per oggi. Passiamo il tempo a parlare a gesti con Yan, la guida e la famiglia che ci ospita. Abbiamo affinato l’arte, stavolta la conversazione è quasi fluida, riusciamo a comprendere e farci comprendere, anche grazie alle poche parole russe memorizzate da un dizionario che abbiamo trovato il giorno prima. “Montagna”, “traduttore”, “Olanda”, “pianura”, "canali", "pastore", "agricoltore", poco altro.

Ci raccontano di loro, ci portano addirittura a vedere le loro stanze, che a quanto pare è un onore riservato a pochi. Vivono bene. Le stanze sono pulite, accoglienti, con le pareti coperte di tappeti e arazzi. È in posti come questi che capisci che chi è considerato povero non deve per forza vivere male.

Le donne ci insegnano a cucinare il plov all’aperto, su di un focolare in terra. Riso, carote gialle tagliate a scaglie, uva passa e cumino, un sapore dolce da abbinare alla carne di capra.

E visto come viene regolata la fiamma, qual’è la differenza con un fornello a gas? Forse solo il tempo d’accensione.

Lilù e io dormiamo all’aperto, fra il suono costante dell’attività degli insetti che copre quello dell’acqua e le incursioni in ricognizione di un pipistrello che si muove come un volano bruno e nero e ha scelto come base le travi del soffitto della tettoia di fronte al nostro tapshan.