lunedì 20 settembre 2010

L'impresa non sembrava essere arrivare a Bukhara, ma trovare qualcuno che ci portasse fin là.
In Europa si chiama "car sharing", qui più che altro "necessità", o almeno "arrotondare lo stipendio". Da Khiva ti devi alzare presto, chiedere dove si fermano le macchine per fuori città, trovarne una che vada a Urganch e due persone dirette nella stessa direzione. Da là poi devi sperare di trovare un'altra macchina e altre due persone dirette a Bukhara. Poi attraversare il deserto rosso e attraccare davanti ad un bazar di periferia. Ciascuna di queste operazioni può richiedere cinque minuti, ma più spesso due ore.

Allora ci postiamo fuori dalla porta nord e non abbiamo neanche il tempo di cominciare a pensare. Subito si fa avanti un autista. Contrattare sul prezzo serve a poco; i prezzi, così come le tappe, sono ufficiali e definiti come quelli dei mezzi pubblici. E lo sono, pubblici, o quasi, solo più informali. Una coppia si unisce quasi subito e dopo cinque minuti siamo già sulla via, io davanti e Lilù dietro a spartire il sedile con il culo procace di una signora in un vestito rosso e quello più magro del marito. La signora è chiaramente curiosa e spezza subito l'impasse: "Amerika?" La risposta, con sdegno, ce la metto io: "Niet! No Amerika: Italya, Fransia".
Alché l'abbronzatura della signora si illumina di diversi watt: "Fransya? Parisi!" "Yes, Paris", risponde Lilù e la signora si emoziona. Come se qualcuno ti buttasse là con nonchalance e anche un po' di vergogna di venire da Beverly Hills. "Fransya, Italya, but live Gollandia" non sortisce alcuna reazione. La signora è immobile e fissa la ragazza di Parigi. Che poi Saint-Leu-la-Forêt non sia proprio il centro di Parigi è difficile spiegarlo, quindi si rinuncia, anche per non negarle il piacere di raccontare alla famiglia di aver viaggiato con una parigina di quelle vere, come Brigitte Bardot e Carla Bruni.
Come sempre, la Val di Non non sembra sortire lo stesso effetto. Chissà perché.

A Urganch ci arriviamo presto e per Bukhara c'è una fila di macchine. Gli autisti litigano per prenderci a bordo e così possiamo contattare. Riusciamo a spuntarla con 25.000 sum, 25.000 lire a testa. L'autista che si è svenduto viene ostracizzato dagli altri, ma niente danno per gli affari: probabilmente non li rivedrà mai più. ognuno di loro no è là per lavoro, ma perché deve effettivamente andare a Bukhara.
Stavolta il viaggio è lungo e controlliamo la macchina. Ormai ho imparato che dai finestrini di un'utilitaria ci si rosola come un kebab. Anche qui siamo fortunati, due ragazzi giovani si uniscono a noi immediatamente. Mezz'ora dopo la partenza da Khiva siamo già sulla strada, su di una UzDaewoo bordò, con la mia mappa aperta sulle gambe.

Khiva e Urganch sono su di una striscia sottile di erba verde, ma intorno spunta solo deserto. Ci entriamo da una rotonda sul confine col Turkmenistan, noi andiamo a nord, fra le dune e l'acqua del fiume, che affiancheremo ripetutamente e ogni volta, a turno, uno dei tre uzbechi sulla macchina ne declamerà il nome: "Amu Darya", osservandoci con sguardo soddisfatto, mentre fotografiamo il fiume che scorre nel deserto.

Oltre all'autista, viaggiamo con due studenti universitari. Uno vuole diventare "stomatolog" e ci vorranno ancora giorni prima di realizzare che lo stomaco non c'entra. In russo (e quasi anche in italiano, scopro mentre scrivo), lo stomatologo è il dentista. Noi invece siamo il gesto di un palmo rivolto verso l'alto con l'altra mano che ci scrive con una penna invisibile, e poi si sposta su di un'altra pagina: "Angliski, italianski, angliski, franski". Di solito la gente capisce quasi subito. E ci vorranno ancora altri giorni prima di trovare un dizionario, non inglese, ma francese: "traducteur", "perevòdnischi".

Studiano a Bukhara e sono orgogliosi di vederci fotografare il deserto, le dune rosse, il fiume, i monumentali camion Kamaz e la strada. Altro non c'è, ma è bello che sia così.

Offriamo frutta e biscotti, comprati al bazar di Khiva. Le piccole albicocche uzbeche sono dolci e di stagione. Ne mangio un paio e appena apro la bottiglia dell'acqua per aiutarle a scendere, vedo gli occhi stupiti dei ragazzi uzbechi puntarsi su di me.

Niet, niet!
Come no? Col caldo che fa, devo risparmiare l'acqua?
Niet, niet!
Se proprio insisti...

Cercano di spiegare, lo stomatologo si tiene la pancia. Bere acqua porta sfiga? Se ci tengono posso anche aspettare altri 10 minuti.
Intanto loro ci guardano con gli stessi occhi di commiserazione che hanno da noi i contadini quando spiegano le cose delle campagne e dei boschi a qualche cittadino.

Fra Urganch e Bukhara c'è un solo posto di ristoro. Un'autogrill fatta in casa con lunghi tavoloni di legno sotto una tettoia, una canna d'acqua per mettere al fresco le nostre bottiglie d'acqua e più mosche dell'intera popolazione umana di questa grande nazione. La loro origine sono forse i due cessi là in disparte, tenuti a distanza di sicurezza per non contaminare l'aria. Sulla via verso questi baracchini di legno troviamo un bozzolo di baco da seta, solo e isolato in un sentiero di sabbia rossa. Chissà come ci è arrivato, fin là. E lui si chiederà come ci siamo arrivati noi: fransky, italiansky, but live Gollandia.

Intanto ai tavoli il ragazzo che in macchina siede sul sedile anteriore, quello più silenzioso, ha comprato una bottiglia di Sarbast, che ci offre con un sorriso complice. La birra sotto il sole di mezzogiorno colpisce subito e crea un torpore di soddisfazione, dà forza ai nostri pensieri. Credo di avere una risposta alla grande domanda:
Cosa ci facciamo qui? Niente, diamo un'occhiata.

Torpore, non ubriachezza, abbastanza per capire subito che quello che sta succedendo non è un miraggio. Là, a centinaia di chilometri da qualsiasi centro abitato, nella solitudine del silenzio, si ferma un pullman da cui esce un gruppo di anziani turisti francesi.
Il ragazzo che offre birra invita la guida uzbeca al nostro tavolo e così per la prima volta abbiamo un interprete per spiegare che sì, hanno capito bene, non siamo sposati, ma stiamo insieme ugualmente e sì, anche questo, veniamo da due paesi diversi e abitiamo in un altro ancora.
Loro in cambio gli chiedono di dirci che non bisogna mai bere acqua dopo aver mangiato albicocche o prugne. Solo tè. Si fanno due risate, davanti a questi occidentali che non conoscono simili ovvietà. Noi ci crediamo, non osiamo contraddire quattro persone che sembrano prendere la cosa come ovvia, uno dei quali è uno stomatologo.

Chissà se la birra va bene, bevuta sulle albicocche. Lui ne compra diverse bottiglie, anche per il resto del viaggio. Io dopo tre bicchieri mi fermo e guardo la sua espressione beata mentre si addormenta nella macchina che rimbalza fra le buche.

E poi Bukhara esce direttamente dal deserto, dopo che il caldo ha fatto assopire anche noi. E la prima vista è scioccante. L'autista del taxi che dal bazar ci porta verso il centro parla inglese e ascolta alla radio dei mix che riescono addirittura a peggiorare la più infima musica discotecara europea. E in centro, attorno al bacino d'acqua preziosa di Lyab-i-Hauz, veniamo attaccati con costanza e insistenza da chi vorrebbe portarci nel suo albergo. Noi invece preferiamo infilarci da Nazira e Azizbek.



martedì 14 settembre 2010

E ci spingiamo sempre più spesso fuori dalle mura.

È splendida, la città antica di Khiva. Ma è solo il bello che vale la pena di vedere? La curiosità è priva di gusto, completamente indipendente dal bello. Ci sono cose brutte che vale la pena vedere.

Arriviamo fino a Moynaq, dove questa storia è partita. Volevo cominciare dal punto più basso, e poi osservare in senso logico, non cronologico, come in una nuova terra con l'esperienza arriva prima la confidenza e poi anche la conoscenza. Perché queste rive in differita, abbandonate dall'acqua, sono per forza di cose una vista triste. Ma sarà a partire da qui, dal punto verso cui arrancano i due fiumi che racchiudono il paese, dalla sua foce stentata, che cominceremo davvero a risalire la corrente per capire un po' alla volta le ragioni di questa nazione.

Dopo Moynaq, tutto sembrerà più bello. Già il giorno dopo, quando chiamiamo un taxi, partiamo in macchina. Senza un'infarinatura storica, senza sapere bene cosa o dove, andiamo alla ricerca delle fortezze nel deserto.

Avevo visto Ayaz kala in fotografia, e mi era venuta voglia di vederlo dal vero. In mezzo al deserto, una fortezza in cima ad una rocca. Ma i kala sono molti. Per lo più cumuli di muri spaccati, ma è la posizione a colpire. L'immagine nascosta di quello che potevano sembrare, uno per ogni punto rialzato fra la Corasmia e il Karakalpakstan.

Così passiamo una giornata a fare la spola fra i kala, con un autista che conosce i turisti. Ovviamente parla solo russo: credo di capire che sia un ingegnere petrolifero che, in attesa di nuovi incarichi mette volentieri a disposizione la sua minuscola Daewoo vulnerabile al sole per chi può pagare in dollari. Fransia? Brigitte Bardot, Zidane, Sofia Loren. Italya? Mafia, Michele Placido.

Ci si adatta a questo linguaggio smozzicato e verso fine giornata si arriva a parlare di religione "Islam, niet Moslim". Capisco cosa intende, adìn Bog, Moamàd, Jesu, fratelli, Stalin, Sibir, gulag, cattivo. Mastroianni, Italya, Aznavùr, Fransia.

Così, internazionalizzando parole si arriva a Toprak kala. Muri, fondamenta dove nidificano gli uccelli. Domina la pianura nei pressi di Boston, Karakalpakstan. Sulla cima di ciascuno dei pochi altri colli in lontananza, altre rocche sbrecciate.

È terra dura, la stessa di cui qui sono fatte anche le case moderne. Terra che spunta fra l'erba e le condotte d'acqua bucate. Poi comincia il deserto. Sabbia giallo limoncello. Poi un colle isolato, che ne copre parzialmente alla vista uno più grande. In cima Ayaz kala. Maestoso, in una macchia di deserto. Due complessi, uno per ciascun colle. Il primo circolare come il maschio di un castello, o più come le teiere di roccia del deserto americano, il secondo molto più grande, una torta nella quale hanno tuffato il naso i cani. La si scala sotto il sole di mezzogiorno e per la prima volta in vita mia temo un colpo di sole. Sarà la temperatura, saranno i capelli che ho rasato a zero prima di partire. Qualcosa va lasciato sempre dietro. Stavolta i capelli. Vogliamo comunque scalare le pareti ripide e prive di sentieri, fino alla cima.

E ne vale la pena. Dal colmo del colle di Ayaz kala si osserva la straordinaria eterogeneità della natura uzbeca. Macchie di vegetazione di un verde giallastro crescono intervallate da aiuole di sterpi secchi fra la sabbia del deserto. Oasi nel mezzo di un deserto screziato di sabbia gialla, rossa, grigia. Dune isolate, pianura con un'acne di colli sormontati da fortezze. Solo dopo esserci spinti ai limiti del lato più a nord, vediamo un lago dalle rive salate con un accampamento di yurte che sembrano muffin. E a sud, forse il Turkmenistan, con confini invisibili fisicalmente, tracciati nel deserto dai geometri di Stalin che avevano dato ad uzbechi, tagichi, turcomanni, cazachi e chirghisi delle nazioni col loro nome, ma avevano scelto di mantenere per ognuna di esse una composizione il più possibile eterogenea, in modo da evitare che la coscienza etnica diventasse coscienza nazionale e minacciasse i confini sovietici.

L'intero panorama solo per noi, rotto solo a valle dalle macchine del nostro autista e di suo figlio, che conduce un gruppo di ragazzi polacchi che incontreremo poi di nuovo anche a Bukhara e Samarcanda. Non è un caso. Saranno diversi i viaggiatori che incroceremo ripetutamente. I turisti nell'Uzbekistan sono pochi e Khiva, Bukhara e Samarcanda sono tappe fisse, quindi si finisce sempre per incontrarsi di nuovo.

Fransia: Piàf, Catrìn Denòf, Depardié. Italya: coloseum, Pavarroti, piovra, Michele Placido.

E poi perdiamo il conto dei nomi dei kala. Non solo noi, ma anche l'autista sembra confonderli dopo un po'. Ma tutti hanno un segno distintivo. Uno è completamente ricoperto di fiori gialli, un altro è in pianura, sorge in mezzo a cretti grigiobianchi di argilla secca. Poi uno con mura quadrate, che proteggono un avvallamento che è diventato uno stagno enorme pieno di giunchi verdi. Alla fine, avanti e indietro da Boston, Karakalpakstan, ci spiegano, "bonus": un kala che non è nemmeno sulla carta, cresce in un campo e per vederlo dobbiamo trasgredire la proprietà privata di un contadino che si lava le mani in una pozza di acqua marrone e poi raccoglie per noi pugni di more da gelso. Dolcissime, un sapore che ricordavo dall'infanzia, dall'unico gelso che avessi visto prima di allora, che cresceva debole e a forma di attaccapanni nel giardino dei miei. Nessuno di noi starà male, segno che le mamme europee che rimproverano i figli quando si mettono le mani sporche in bocca e credono che tutto sia cancerogeno devono inventarsi i problemi, in assenza di ragioni valide per stare in pensiero. Il contadino ha un asino, un carro, un forno a betoniera per cuocere i samsa incollati alle sue pareti e diversi bozzoli di baco da seta, quelli risparmiati per la riproduzione.

Al ritorno l'autista decanta "Amu Darya", vediamo una distesa d'acqua, che sembra impossibile immaginare che si inabisserà nei prossimi 200 chilometri, e passiamo su di un ponte provvisorio, fatto di lastre di ferro saldate insieme, tenute in bilico su scafi di barche o un materiali galleggianti improvvisati. A fianco sorge il ponte vero e proprio, in costruzione. La guida Petit Futé di Lilù dice che il termine stimato per i lavori è il 2008, ma sembra che ci sia ancora molto da fare. Anche perché sembra che gli operai stiano lavorando più che altro a riparare il ponte provvisorio.

Abbiamo ancora una serata a Khiva. Ne approfitteremo per uscire ancora dalle mura, sempre con più coraggio. Domani mattina ci si alza presto, si cerca un taxi condiviso per Urganch, sperando che ce ne sia uno, poi se tutto va bene, se ne cerca un altro per Bukhara.


giovedì 9 settembre 2010

Dentro le mura è un mondo diverso. Dentro le mura è un'isola. Silenzio, gelsi, ciliegi, poche capre legate nei giardini e case di polvere, dello stesso colore della strada e delle pareti della città. Ci aspettiamo un'area turistica, come siamo abituati a vederne in Europa. Invece, a parte pochi cartelli che indicano gli alberghi, troviamo abitazioni comuni, perfino modeste, con cucine all'aperto, coperte da alberi che crescono fra quattro muri. Anche il bed and breakfast che scegliamo ha la struttura di un'abitazione locale, con le stanze che si aprono attorno ad una corte centrale quadrata. La stessa struttura delle decine di moschee e madrasse sull'isola e oltre.
Il centro antico di Khiva è tutto all'interno delle mura, protetto dalle onde di traffico che dall'esterno si sbattono contro i contrafforti di sabbia. Ma non è una divisione fra monumenti e vita quotidiana: la gente continua a vivere fra i minareti, i sepolcri e le antiche scuole coraniche. Basta prendersi la briga di cercare il retro delle moschee per trovarsi davanti a gelsi, forni all'aperto e qualche macchina sovietica che non si capisce da dove possa essersi infilata, considerando quanto sono strette le vie della città. Le strade sono piste da biglie squadrate, canali scavati fra pareti di fango secco, piene di scalinate, salite e discese, pavimentate dagli stessi mattoni giallastri di cui sono fatte le pareti.
Lungo le strade, o meglio, i sentieri, poche bancarelle, e centinaia di porte. Le porte piccole delle case private, quelle istoriate dei laboratori d'artigianato. E falsi ingressi, archi enormi per accedere alle madrasse, affiancati da modelli identici in scala ridotta per le stanze degli studenti del Corano. Niente finestre, solo porte. Istoriate di motivi geometrici. L'Islam proibisce di rappresentare figure riconoscibili e serve quindi aggirare la legge con l'ingegno, assegnare significato ai grafemi, alla loro foggia, lunghezza, altezza, posizione. Tutto può avere un significato, o più di uno.

Siamo chiusi in una scatola di giocattoli, fra minareti che sembrano della Thun, ricoperti di piastre turchesi. Uno, che sarebbe dovuto diventare il più grande al mondo, è mozzo, incompleto, sembra il reattore di una centrale nucleare, smaltato d'azzurro. È l'elemento che rende riconoscibile una città che nella storia forse non ha avuto modo di distinguersi, ma ci è mancato davvero poco.
È un'isola fantasma. Gli abitanti ci sono, ma si percepiscono appena, persi dietro alle moschee. Anche i turisti ci sono, ma è raro sentirli, pullman ordinati di pensionati francesi che girano dispersi, meravigliandosi prima a destra, e poi a sinistra. Forse si rinchiudono nelle corti aperte delle due ciaicane turistiche, dall'atmosfera artefatta per il loro sollievo, per non tradire proprio completamente le loro aspettative. Forse si godono l'hotel-madrassa, mimetico anche lui, volutamente senza insegna, per non fare rumore. Di sicuro non sono all'entrata ovest, dove si radunano gli autoctoni. A pochi metri dal minareto nucleare c'è una ciaicana e i gestori si stupiscono a vederci sedere sui loro taphsan, non avvezzi alle morbide natiche europee.
E dall'esterno delle mura, il sabato, risuona l'odore della carne arrostita. Così, come in Europa al tempo delle grandi scoperte, dopo un po' la curiosità ci spinge oltre l'isola murata. Usciamo dal nostro scatolone pieno di giocattoli, incontro alla vera vita, che qui come da noi è fatta di carne al fuoco e lunghe tavolate con tovaglie cerate. C'è un matrimonio all'aperto e gente che balla. Ma non dura a lungo. Prima che scenda la notte la festa è già finita, o forse proseguirà più lontano, in qualche arcipelago al riparo degli occhi degli stranieri, davanti ai quali è necessario mostrare il proprio lato migliore e sobrio. Allora ci spostiamo anche noi, alla scoperta dei sette mari interni in questo paese allergico all'acqua, che si è già bevuto il lago d'Aral.

Il fatto è che, da quando siamo arrivati, fra Tashkent e Urgench, al di fuori del viaggio in treno e della cassetta dei giocattoli di Khiva, il mare sembra parecchio mosso. A parte l'ardua giornata di Tashkent, questa sensazione non ha una motivazione. È più un istinto da marinaio dolomitico.

O forse sono le visioni familiari, perfino accoglienti, ma in fondo sempre inquietanti.
Come il ristorante al largo della porta nord di Khiva, al bordo di un bacino d'acqua stagnante, sotto un padiglione circolare aperto. L'odore è di palude, ma il cibo è fra i migliori che troviamo sulla via. Sapori forti ma di ristoro. Carne grassa, tanta sostanza, senza spazio per la presentazione.
Forse è questo. Come una bellezza violenta spunti dagli oggetti del passato e venga conservata come unica bellezza possibile, dopo che la funzionalità industriale sovietica ha reso peccaminosa l'estetica applicata alla modernità.

Anche al passato, invero, qualora non coperto dall'Unesco. Una bruttezza attraente, come nelle scene dei film di Kusturica, anche se qui lo slavo è d'importazione.
Lo scopriamo camminando ancora un po' oltre le mura. L'ingresso di quella che prima dei tempi del Turkestan sovietico doveva essere stata una moschea, ora con gli archi in stile arabo bordati da tubi di luci colorate. È divenatta una discoteca, con musica turca, russa e forse iraniana o uzbeca ad alto volume. E poi scopriamo, senza sapere della sua esistenza, il palazzo dei khan, lasciato a secco dai fondi dell'Unesco, confinato in un parco per soli autoctoni. Stavolta gli archi sono flaccidi. Fra grossi alberi, un luna park e la notte che scende, l'atmosfera è vagamente tetra. Ne usciamo presto e torniamo al sicuro fra le mura, fra le luci rosse, verdi e blu che illuminano gli archi di notte. Ma perversamente decisi ad uscirne presto.