domenica 12 dicembre 2010

Entriamo a Nurata dietro un camion carico di blocchi di marmo delle dimensioni di refrigeratori industriali. Il pianale è aperto sul retro e il parabrezza dell'UzDaewoo si incipria di polvere bianca.
I marmi vengono dalle montagne della catena che porta lo stesso nome della città e che comincia qui, con una rocca che parte dal centro, tagliando una fetta di torta nel perimetro della città.
Parcheggiamo in doppia fila e mezza, in uno spiano ai piedi della rocca. C'è un mercatino e un arco in stile arabo che apre la via verso le prime pendici della catena montuosa.
Come ovunque, in Uzbekistan la tariffa d'accesso ai monumenti è più alta per i turisti che per i locali, ma qui almeno nessuno lo nasconde o si preoccupa di nasconderci il fatto che pagheremo dieci volte quello che pagano gli autoctoni. Per loro è normale, e forse potrebbe esserlo anche per noi.
Non è per accedere alla catena montuosa che si paga, quello è gratis ovunque, forse perfino negli Stati Uniti, ma perché ai piedi di questa prima pendice si trova una sorgente d'acqua benedetta, stretta fra una moschea, alcune tombe di "uomini che conobbero Maometto" e l'inizio della via che porta alla fortezza, fatta costruire da Alessandro Magno dopo un sogno nel quale gli era stato consigliato di edificarla nella forma della costellazione dell'orsa maggiore.
Sono informazioni che ci vengono lanciate contro in inglese da due ragazzi che ci pedinano e cerchiamo di scrollarci di dosso in modo amichevole. Però a un certo punto essere amichevoli non basta ed è bene mostrarsi infastiditi quanto veramente siamo. I ragazzi sembrano aver capito e il più vecchio di loro, 16 anni e una voce pacata e tranquilla, quasi radiofonica, ci spiega che non gli interessano i soldi, ma solo esercitare il suo inglese.
Così, intimiditi dai sensi di colpa, come ci capiterà spesso in Uzbekistan, dove la gente che sembra fingere buone intenzioni spesso ha davvero buone intenzioni, ci presentiamo e ci apriamo al dialogo. Sono fratelli, il più grande studia al liceo e l'altro è più giovane di quattro o cinque anni, ci spiegano il sistema scolastico locale, che non riusciamo comunque a capire, nonostante il loro inglese sia preciso e molto corretto. Hanno un cellulare con file mp3 di musica russa, ma anche occidentale. Bon Jovi e roba da radio, fossero stati europei sarei inorridito, ma visto da est tutto assume una prospettiva più innocente. Saliamo sulla rocca alessandrina da scalinate con venditori di giocattolini da autogrill, poi la scala finisce e ci inerpichiamo sulla roccia e siamo ufficialmente all'inizio della catena montuosa di Nurata.
Fazzoletti colorati sono legati attorno ai pochi sterpi d'erba dura in cima alla rocca. Prima che io abbia il tempo di aprire la bocca per chiederlo, i ragazzi ci spiegano, con tono di disapprovazione, che si tratta di superstiziosi che seguono la moda e sporcano la loro fede islamica con elementi buddisti. È divertente, perché chissà quante volte ho preso in giro quegli olandesi di mezza età che si imbottiscono di ioga, ciacra e marigianna per fare i buddisti a modo loro. Anche l'Islam, a quanto pare, è insidiato dal relativismo. Per il resto, il loro rimane l'unico riferimento forte alla religione che sentiremo in questo paese dove i veli sono meno che ad Amsterdam o Trento.
Alessandro Magno, una sorgente miracolosa, l'islam e il buddismo ci ricordano che in queste terre di mercanti si sono incrociate in pace tutte le religioni: turchi, persiani, mongoli, ebrei, russi, cinesi, islamici, nestoriani, Ahura Mazda, Mani, Buddha. Religioni forzate a convivere con le trote nel ruscello benedetto d'acqua blu.
Dalla cima del promontorio vediamo tutto il centro abitato, con una buca quadrata proprio ai piedi della collina. I ragazzi ci spiegano che è il punto da dove i macedoni avevano scavato il materiale per costruire la rocca. Ora sul fondo sono state piantate due porte da calcio a distanza regolamentare, e nell'avvallamento sono stati ricavati gradoni per il pubblico. Tra tutte queste religioni, c'è un tempio anche per il Pallone.
Le montagne rimangono dietro la nostra schiena, come la coda di una cometa, all'apparenza accessibili facilmente, ma si sa che la montagna inganna. Al di fuori della città invece solo steppa, in leggerissima salita solo da lontano.
Scendiamo e i ragazzi ci portano al canaletto dove possiamo bere l'acqua santa. È fresca e nel mezzogiorno uzbeco è un sollievo miracoloso. Gli uzbechi attorno, compresi i nostri accompagnatori, sorridono orgogliosi della loro acqua freschissima e non credo a nessuno importi che quelli che hanno appena violato la fonte del Profeta sono infedeli europei. Salutiamo ed è un peccato non ricordare i loro nomi, complicati come la maggior parte dei nomi uzbechi.
L'autista (altro nome troppo complicato da comprendere) è contento di rivederci dopo due ore e ci trascina attraverso valli invisibili dal punto dove avevamo dominato la valle, con gialli che degradano in verdi, grigi, rossi, verso un'area sempre più rigogliosa e rinfrescata dal vento che scende dal Pamir. Anche la nostra carovana compatta si dirige verso Samarcanda.

venerdì 26 novembre 2010


L'ultimo pomeriggio a Bukhara il calore ci mette addosso una febbre artificiale. Il sole non lascia secondi di pace, non c'è rifugio nel forno.
Compriamo acqua da bere e da versarci in testa e sfidiamo la malattia indotta per ficcare il naso fra le vie disorganizzate dei quartieri residenziali, sicuri che questa città non possa essere fatta solo di monumenti. Non lo è, ma anche tra l'ombra incandescente della periferia emergono tracce di tempi passati. Edifici di cemento grigiobianco con portoni di legno intarsiato, logge con travi istoriate negli androni popolari, mentre ci trasciniamo quasi al limite delle forze, per poi collassare sul letto dell'albergo per due ore di sonno che ci ridaranno forza giusto per l'ultimo shashlik attorno a Lyab-i-Hauz.


E poi ci si alza presto la mattina, per farsi portare verso nord. La notte ha piovuto, una pioggia che sembrava impossibile nei giorni precedenti, ma che è là, per terra, a stendere un nuovo manto satinato su questa città che conoscevamo a colori e di sfuggita, proprio mentre partiamo, ci appare diversa.

Prenotare un taxi tutto per noi era l'unico modo per arrivare al lago Aydar Kul, un enorme bacino d'acqua dolce nel nord del paese, quasi al confine col Cazachistan, in mezzo al deserto. Un luogo dove qualsiasi uzbeco non avrebbe avuto modo di voler andare.

E fra il deserto di Bukhara e quello della nostra destinazione passiamo attraverso le montagne di Nurata, in una steppa a tratti perfino coltivata a cereali, campi che dipingono di giallo il paesaggio di verdi, grigi e marroni opachi. Il cielo è coperto e mentre ci avviciniamo alle montagne la temperatura si abbassa, per rialzarsi di colpo quando l'asfalto finisce e la UzDaewoo si incanala in sentieri tracciati sul dorso di dune che domani potrebbero essere in un altro luogo. Ci fermiamo in una valle arancione, coperta di yurte bianche che sembrano uova di dinosauro in un cratere di sabbia. Il campo è tutto per noi, l'autista e il russo che lo gestisce, un uomo di un umorismo russo: fatto di esagerazioni e parabole, ma mai sbracato a perdere la dignità. Piccole prese in giro in tono di sfida bonaria lo rendono ancora più mascolino. Un umorismo facile da trasmettere a gesti,anche senza parlare la stessa lingua.

"Varan", ci dice, quando ci serve la carne, che per fortuna ha un aroma caprino mai così rassicurante, che sventa subito l'ipotesi che davvero si tratti di fette di lucertola di grosso calibro.
Poi ci presenta la Kyzyl Kum Pizza, uno sformato di patate. E il tavolone di legno punteggiato di ciotole con piccole tapas russe di erbe, verdure, frutta secca e fresca che non posso mangiare per via dei problemi intestinali causati dalla calura. Sono scettico, ma provo la vodka che mi offre per risolvere il problema. E funziona. Spirito che dona spirito.
E poi finalmente il lago, perché sono giorni che desideriamo sentirci attorno l'acqua, anche se questa è sapida e tiepida come quella di un tè cinese. Invoglia ad avvicinarsi, stringersi e lasciarsi andare soli, nonostante l'autista che passeggia non troppo lontano.


E chissà cosa pensa l'autista, chissà cos'è che gli fa dimenticare una strada che conosce bene e ci fa perdere nel deserto, fino ad incagliare lo scafo della UzDaewoo in una duna di sabbia, come le navi di Moynaq.
Mentre io e lui cerchiamo di riportarla a galla, con gli stessi metodi che si usano da me per liberare i fuoristrada dal fango, fa battute sui varani, i lucertoloni del deserto di cui qui tutti parlano, ma che lui dichiara di aver visto solo una volta, senza vita, sul ciglio della strada.

Ci vuole più di un'ora per liberare la macchina e cercare la via per tornare al campo, esausti di voglia di addormentarci, cullati dalle ninnenanne punk delle morbide buche sabbiose delle strade desertiche, ma costretti a stare svegli per cercare la via. È Lilù, con la sua memoria fotografica, a condurci sulla strada giusta, riconoscendo la successione di virate a destra o sinistra sui bivi della pista fra le dune.

Al campo il sole si sta già abbassando in uno dei lunghi tramonti dell'Est. Camminiamo fra le dune arancioni, coperte da macchie di cespugli verdegrigi con fiori che sono globi di chiodini spinosi. È l'ora in cui escono gli animali: una tartaruga compatta in mezzo alla strada, un grosso ramarro blu con la coda arancione, quasi un oggetto estraneo fra i colori del deserto, come potrebbe essere una lattina di birra o un qualunque altro oggetto abbandonato da qualche turista. Niente varani. Intanto è notte e gli asini si radunano sulle cime delle colline, mentre noi ci sdraiamo in silenzio sui materassini dentro la yurta, subito dopo una cena di Kyzyl Kum Pizza e vodka. Il silenzio, la solitudine, la yurta di tipo kirghiso, più stretta, alta e meno raffinata nella struttura di quelle mongole, ma ugualmente confortevole, si va a letto molto presto per un sonno santo di molte ore, nel silenzio e nell'oscurità totali, per rinfrescarsi prima del giorno di Samarcanda.


domenica 17 ottobre 2010





Bukhara è una città calma di caldo. La temperatura blocca i movimenti, costringe a tacere, moltiplica le distanze. Il centro sembra immenso: il mezzo chilometro fra l'hotel e la fortezza, sotto il sole diventa una distanza eroica.

L'unica soluzione è tenersi al riparo dei portici in pietra, delle tettoie lungo la via come si farebbe in una giornata di pioggia, mentre invece il sole fa soffriggere i capelli.

Dall'hotel sul bacino aperto di Lyab-i-Hauz si infila il primo arco per entrare nel medioevo. Poi è tutta una successione di madrasse, moschee e caravanserragli, senza veicoli motorizzati a spezzare l'illusione. Bazar che vendono forbici a forma di becco di pellicano, costruite sotto i tuoi occhi ad un tavolino di legno leggero, artisti calligrafi che spiegano come aggirare con simboli il divieto islamico di rappresentare immagini, samovar sopravvissuti a Stalin e Gorbaciov, che ora cercano di doppiare anche Karimov, vestiti da donna in cotone e seta, i due tessuti che si fanno concorrenza qui, dove il primo viene coltivato e il secondo smistato. Un negozio di spezie, grande come il cucinino di un appartamento popolare, irradia sentori di cumino e cardamomo.

Ognuno dei tanti corridoi sotto gli archi, i posti più freschi in città, è occupato, più che da veri mercatini, da gente che vende quello che sa produrre.

Il minareto Kalon, che assomiglia ad un macinapepe di legno, tiene d'occhio una piazza resa maestosa dagli ingressi immensi della moschea e della madrassa con lo stesso nome. Ci arriviamo al tramonto, con le pareti della città colorate di rosa. Sulla piazza solo un gruppo di bambini che mi circondano per chiedermi caramelle che non ho, mentre cerco goffamente di convincerli a lasciarmi in pace, parlandogli in italiano in tono sempre più concitato e a voce sempre più alta. Lilù dice che sembro un Benigni dolomitico, mentre accelero il passo per scappare, poi mi fermo a spiegare a gesti che non è bello rompere le palle e infine mimo mosse di karate quando provano a tirarmi qualche calcio. Sottile imbarazzo: non sai se quei calci col sorriso ti fanno tenerezza o incazzare.

La gente si sveglia la sera, attorno a Lyab-i-Hauz. Ai bordi del bacino d'acqua con fontane e zampilli, l'aria è leggermente più fresca e si ordinano le carni migliori, che per gli uzbechi sono quelle più nutrienti, quelle coperte di grasso. Girano famiglie benestanti, coppie e qualche raro turista russo. Lilù ordina del vino uzbeco e poi vorrebbe farselo cambiare perché dal sapore si direbbe che la bottiglia è rimasta aperta troppo a lungo. Il cameriere la guarda con uno sguardo che non comprende: la bottiglia era sigillata fino a pochi minuti prima. Il vino uzbeco sarà un esperimento che non ritenteremo.

Attorno a Lyab-i-Hauz, in poche ore serali, si riassume tutto il movimento che era in pausa durante il giorno. Famiglie benestanti con bambini si stravaccano sui tapshan e ordinano tutto quello che il menu ha da offrire. I piccoli scappano a giocare sul cammello di vetroresina e quando i genitori si alzano per ritirarli, è il gatto della casa a saltare sui tavoli e ripulire gli spiedi degli shashlik di manzo e agnello. È importante sedersi il più vicino possibile agli zampilli che smuovono l'acqua del grande bacino centrale. L'acqua spruzzata in aria rinfresca quel poco che basta per sopportare la calura. Al resto ci pensano i succhi Sochnaia Dolina, che berremo di continuo durante il viaggio. Scopro che l'acqua, da sola, non mi disseta. Ho bisogno di sapori.

Gli uzbechi bevono il tè, con effetto sauna: prima fa sudare tutte le impurità rimaste in corpo, poi rinfresca del contrasto fra il calore ingerito e quello esterno. Soprattutto verde, dicono che il nero non abbia gli stessi effetti. Ovunque girano queste teiere bianche decorate di blu, tutte uguali, tranne alcuni modelli identici, ma con il blu sottolineato di linee dorate. La versione deluxe.

A Bukhara mi sveglio una mattina per prelevare qualche dollaro da convertire in sum per escursioni fuori città. Solo arrivato all'Asia hotel, la banca più affidabile della città, quando mi accorgo di aver perso la carta di credito. Torno in hotel, ma non la trovo. Alla fine scendo nel cortile. "Lost! Visa!" Visa si capisce, per il "lost" basta un segno di taglio con la mano. "Telefon, hotel, Khiva".

La signora (Nazira di Nazira e Azizbek in persona?) chiama l'albergo di Khiva e in un attimo torna allo scoperto la maledizione di Moynaq. Pare che la carta mi sia uscita dalle tasche delle braghe corte mentre dormivo appallottolato sul sedile frontale della Daewoo uzbeca, di ritorno dal lago che non c'è più. E pensare che avevo controllato di non aver perso nulla.

Per fortuna la carta me la possono inviare due giorni dopo, via taxi, previa pagamento di un posto in taxi per lei, stessa tariffa di un passeggero di 80 chili. Taccio e acconsento.

Lilù è incazzata. Non le va di perdere tempo. Rimarrà incazzata nella periferia, mentre ci orientiamo con le stelle fra le vie per cercare la madrassa di Chor Minor, una sedia rovesciata (mi viene da chiamarla "chair minor"), che cresce sottolineata dal contrasto con le abitazioni bianche.

Si riaccenderà di entusiasmo alla vista della sedia rovesciata e si renderà conto che valeva la pena di restare più a lungo, camminare fra muri di cemento grezzo con porte di legno istoriate, arrivare fin chissà dove e trovare la via del ritorno quasi a caso, con i bambini che si girano a guardare due turisti così fuori contesto. Valeva la pena soprattutto di camminare verso il parco, seguire i murales di propaganda biancazzurroverde come la bandiera uzbeca, sedersi all'ombra di un monumento alle vittime della seconda guerra mondiale e mostrare le fotografie della nostra guida ad un poliziotto curioso e pieno d'orgoglio biancazzurroverde, come il distintivo sul suo cappello. E continuare lungo le strade del parco, anche se esposte e torride, per arrivare al mausoleo di Ismael Samani, l'edificio più antico della città, conservato così, in mezzo ad un'aiuola verde, una roccia friabile e friata, porosa come un tartufo, scolpita e istoriata a motivi geometrici. E poi oltre, una pozza d'acqua marrone solcata dai pedalò, appena alla base dell'ultimo pezzo di mura della città, e poi il bazar principale. Niente del fascino dei bazar storici, ma oggetti d'uso quotidiano: cappelli quadrati, attrezzi per il giardinaggio, magliette che non sembrerebbero tarocche, se non fosse per la scritta "FC Barselona".

Compriamo il melone che sarà il nostro pranzo e torniamo di corsa all'albergo, dove il tassista uzbeco ci aspetta con la mia carta di credito.

Abbiamo riacquistato la libertà. Ultima cena a Lyab-i-Hauz e poi basta con la vita di città, pur senza traffico: domani mattina si va nel deserto.


lunedì 20 settembre 2010

L'impresa non sembrava essere arrivare a Bukhara, ma trovare qualcuno che ci portasse fin là.
In Europa si chiama "car sharing", qui più che altro "necessità", o almeno "arrotondare lo stipendio". Da Khiva ti devi alzare presto, chiedere dove si fermano le macchine per fuori città, trovarne una che vada a Urganch e due persone dirette nella stessa direzione. Da là poi devi sperare di trovare un'altra macchina e altre due persone dirette a Bukhara. Poi attraversare il deserto rosso e attraccare davanti ad un bazar di periferia. Ciascuna di queste operazioni può richiedere cinque minuti, ma più spesso due ore.

Allora ci postiamo fuori dalla porta nord e non abbiamo neanche il tempo di cominciare a pensare. Subito si fa avanti un autista. Contrattare sul prezzo serve a poco; i prezzi, così come le tappe, sono ufficiali e definiti come quelli dei mezzi pubblici. E lo sono, pubblici, o quasi, solo più informali. Una coppia si unisce quasi subito e dopo cinque minuti siamo già sulla via, io davanti e Lilù dietro a spartire il sedile con il culo procace di una signora in un vestito rosso e quello più magro del marito. La signora è chiaramente curiosa e spezza subito l'impasse: "Amerika?" La risposta, con sdegno, ce la metto io: "Niet! No Amerika: Italya, Fransia".
Alché l'abbronzatura della signora si illumina di diversi watt: "Fransya? Parisi!" "Yes, Paris", risponde Lilù e la signora si emoziona. Come se qualcuno ti buttasse là con nonchalance e anche un po' di vergogna di venire da Beverly Hills. "Fransya, Italya, but live Gollandia" non sortisce alcuna reazione. La signora è immobile e fissa la ragazza di Parigi. Che poi Saint-Leu-la-Forêt non sia proprio il centro di Parigi è difficile spiegarlo, quindi si rinuncia, anche per non negarle il piacere di raccontare alla famiglia di aver viaggiato con una parigina di quelle vere, come Brigitte Bardot e Carla Bruni.
Come sempre, la Val di Non non sembra sortire lo stesso effetto. Chissà perché.

A Urganch ci arriviamo presto e per Bukhara c'è una fila di macchine. Gli autisti litigano per prenderci a bordo e così possiamo contattare. Riusciamo a spuntarla con 25.000 sum, 25.000 lire a testa. L'autista che si è svenduto viene ostracizzato dagli altri, ma niente danno per gli affari: probabilmente non li rivedrà mai più. ognuno di loro no è là per lavoro, ma perché deve effettivamente andare a Bukhara.
Stavolta il viaggio è lungo e controlliamo la macchina. Ormai ho imparato che dai finestrini di un'utilitaria ci si rosola come un kebab. Anche qui siamo fortunati, due ragazzi giovani si uniscono a noi immediatamente. Mezz'ora dopo la partenza da Khiva siamo già sulla strada, su di una UzDaewoo bordò, con la mia mappa aperta sulle gambe.

Khiva e Urganch sono su di una striscia sottile di erba verde, ma intorno spunta solo deserto. Ci entriamo da una rotonda sul confine col Turkmenistan, noi andiamo a nord, fra le dune e l'acqua del fiume, che affiancheremo ripetutamente e ogni volta, a turno, uno dei tre uzbechi sulla macchina ne declamerà il nome: "Amu Darya", osservandoci con sguardo soddisfatto, mentre fotografiamo il fiume che scorre nel deserto.

Oltre all'autista, viaggiamo con due studenti universitari. Uno vuole diventare "stomatolog" e ci vorranno ancora giorni prima di realizzare che lo stomaco non c'entra. In russo (e quasi anche in italiano, scopro mentre scrivo), lo stomatologo è il dentista. Noi invece siamo il gesto di un palmo rivolto verso l'alto con l'altra mano che ci scrive con una penna invisibile, e poi si sposta su di un'altra pagina: "Angliski, italianski, angliski, franski". Di solito la gente capisce quasi subito. E ci vorranno ancora altri giorni prima di trovare un dizionario, non inglese, ma francese: "traducteur", "perevòdnischi".

Studiano a Bukhara e sono orgogliosi di vederci fotografare il deserto, le dune rosse, il fiume, i monumentali camion Kamaz e la strada. Altro non c'è, ma è bello che sia così.

Offriamo frutta e biscotti, comprati al bazar di Khiva. Le piccole albicocche uzbeche sono dolci e di stagione. Ne mangio un paio e appena apro la bottiglia dell'acqua per aiutarle a scendere, vedo gli occhi stupiti dei ragazzi uzbechi puntarsi su di me.

Niet, niet!
Come no? Col caldo che fa, devo risparmiare l'acqua?
Niet, niet!
Se proprio insisti...

Cercano di spiegare, lo stomatologo si tiene la pancia. Bere acqua porta sfiga? Se ci tengono posso anche aspettare altri 10 minuti.
Intanto loro ci guardano con gli stessi occhi di commiserazione che hanno da noi i contadini quando spiegano le cose delle campagne e dei boschi a qualche cittadino.

Fra Urganch e Bukhara c'è un solo posto di ristoro. Un'autogrill fatta in casa con lunghi tavoloni di legno sotto una tettoia, una canna d'acqua per mettere al fresco le nostre bottiglie d'acqua e più mosche dell'intera popolazione umana di questa grande nazione. La loro origine sono forse i due cessi là in disparte, tenuti a distanza di sicurezza per non contaminare l'aria. Sulla via verso questi baracchini di legno troviamo un bozzolo di baco da seta, solo e isolato in un sentiero di sabbia rossa. Chissà come ci è arrivato, fin là. E lui si chiederà come ci siamo arrivati noi: fransky, italiansky, but live Gollandia.

Intanto ai tavoli il ragazzo che in macchina siede sul sedile anteriore, quello più silenzioso, ha comprato una bottiglia di Sarbast, che ci offre con un sorriso complice. La birra sotto il sole di mezzogiorno colpisce subito e crea un torpore di soddisfazione, dà forza ai nostri pensieri. Credo di avere una risposta alla grande domanda:
Cosa ci facciamo qui? Niente, diamo un'occhiata.

Torpore, non ubriachezza, abbastanza per capire subito che quello che sta succedendo non è un miraggio. Là, a centinaia di chilometri da qualsiasi centro abitato, nella solitudine del silenzio, si ferma un pullman da cui esce un gruppo di anziani turisti francesi.
Il ragazzo che offre birra invita la guida uzbeca al nostro tavolo e così per la prima volta abbiamo un interprete per spiegare che sì, hanno capito bene, non siamo sposati, ma stiamo insieme ugualmente e sì, anche questo, veniamo da due paesi diversi e abitiamo in un altro ancora.
Loro in cambio gli chiedono di dirci che non bisogna mai bere acqua dopo aver mangiato albicocche o prugne. Solo tè. Si fanno due risate, davanti a questi occidentali che non conoscono simili ovvietà. Noi ci crediamo, non osiamo contraddire quattro persone che sembrano prendere la cosa come ovvia, uno dei quali è uno stomatologo.

Chissà se la birra va bene, bevuta sulle albicocche. Lui ne compra diverse bottiglie, anche per il resto del viaggio. Io dopo tre bicchieri mi fermo e guardo la sua espressione beata mentre si addormenta nella macchina che rimbalza fra le buche.

E poi Bukhara esce direttamente dal deserto, dopo che il caldo ha fatto assopire anche noi. E la prima vista è scioccante. L'autista del taxi che dal bazar ci porta verso il centro parla inglese e ascolta alla radio dei mix che riescono addirittura a peggiorare la più infima musica discotecara europea. E in centro, attorno al bacino d'acqua preziosa di Lyab-i-Hauz, veniamo attaccati con costanza e insistenza da chi vorrebbe portarci nel suo albergo. Noi invece preferiamo infilarci da Nazira e Azizbek.



martedì 14 settembre 2010

E ci spingiamo sempre più spesso fuori dalle mura.

È splendida, la città antica di Khiva. Ma è solo il bello che vale la pena di vedere? La curiosità è priva di gusto, completamente indipendente dal bello. Ci sono cose brutte che vale la pena vedere.

Arriviamo fino a Moynaq, dove questa storia è partita. Volevo cominciare dal punto più basso, e poi osservare in senso logico, non cronologico, come in una nuova terra con l'esperienza arriva prima la confidenza e poi anche la conoscenza. Perché queste rive in differita, abbandonate dall'acqua, sono per forza di cose una vista triste. Ma sarà a partire da qui, dal punto verso cui arrancano i due fiumi che racchiudono il paese, dalla sua foce stentata, che cominceremo davvero a risalire la corrente per capire un po' alla volta le ragioni di questa nazione.

Dopo Moynaq, tutto sembrerà più bello. Già il giorno dopo, quando chiamiamo un taxi, partiamo in macchina. Senza un'infarinatura storica, senza sapere bene cosa o dove, andiamo alla ricerca delle fortezze nel deserto.

Avevo visto Ayaz kala in fotografia, e mi era venuta voglia di vederlo dal vero. In mezzo al deserto, una fortezza in cima ad una rocca. Ma i kala sono molti. Per lo più cumuli di muri spaccati, ma è la posizione a colpire. L'immagine nascosta di quello che potevano sembrare, uno per ogni punto rialzato fra la Corasmia e il Karakalpakstan.

Così passiamo una giornata a fare la spola fra i kala, con un autista che conosce i turisti. Ovviamente parla solo russo: credo di capire che sia un ingegnere petrolifero che, in attesa di nuovi incarichi mette volentieri a disposizione la sua minuscola Daewoo vulnerabile al sole per chi può pagare in dollari. Fransia? Brigitte Bardot, Zidane, Sofia Loren. Italya? Mafia, Michele Placido.

Ci si adatta a questo linguaggio smozzicato e verso fine giornata si arriva a parlare di religione "Islam, niet Moslim". Capisco cosa intende, adìn Bog, Moamàd, Jesu, fratelli, Stalin, Sibir, gulag, cattivo. Mastroianni, Italya, Aznavùr, Fransia.

Così, internazionalizzando parole si arriva a Toprak kala. Muri, fondamenta dove nidificano gli uccelli. Domina la pianura nei pressi di Boston, Karakalpakstan. Sulla cima di ciascuno dei pochi altri colli in lontananza, altre rocche sbrecciate.

È terra dura, la stessa di cui qui sono fatte anche le case moderne. Terra che spunta fra l'erba e le condotte d'acqua bucate. Poi comincia il deserto. Sabbia giallo limoncello. Poi un colle isolato, che ne copre parzialmente alla vista uno più grande. In cima Ayaz kala. Maestoso, in una macchia di deserto. Due complessi, uno per ciascun colle. Il primo circolare come il maschio di un castello, o più come le teiere di roccia del deserto americano, il secondo molto più grande, una torta nella quale hanno tuffato il naso i cani. La si scala sotto il sole di mezzogiorno e per la prima volta in vita mia temo un colpo di sole. Sarà la temperatura, saranno i capelli che ho rasato a zero prima di partire. Qualcosa va lasciato sempre dietro. Stavolta i capelli. Vogliamo comunque scalare le pareti ripide e prive di sentieri, fino alla cima.

E ne vale la pena. Dal colmo del colle di Ayaz kala si osserva la straordinaria eterogeneità della natura uzbeca. Macchie di vegetazione di un verde giallastro crescono intervallate da aiuole di sterpi secchi fra la sabbia del deserto. Oasi nel mezzo di un deserto screziato di sabbia gialla, rossa, grigia. Dune isolate, pianura con un'acne di colli sormontati da fortezze. Solo dopo esserci spinti ai limiti del lato più a nord, vediamo un lago dalle rive salate con un accampamento di yurte che sembrano muffin. E a sud, forse il Turkmenistan, con confini invisibili fisicalmente, tracciati nel deserto dai geometri di Stalin che avevano dato ad uzbechi, tagichi, turcomanni, cazachi e chirghisi delle nazioni col loro nome, ma avevano scelto di mantenere per ognuna di esse una composizione il più possibile eterogenea, in modo da evitare che la coscienza etnica diventasse coscienza nazionale e minacciasse i confini sovietici.

L'intero panorama solo per noi, rotto solo a valle dalle macchine del nostro autista e di suo figlio, che conduce un gruppo di ragazzi polacchi che incontreremo poi di nuovo anche a Bukhara e Samarcanda. Non è un caso. Saranno diversi i viaggiatori che incroceremo ripetutamente. I turisti nell'Uzbekistan sono pochi e Khiva, Bukhara e Samarcanda sono tappe fisse, quindi si finisce sempre per incontrarsi di nuovo.

Fransia: Piàf, Catrìn Denòf, Depardié. Italya: coloseum, Pavarroti, piovra, Michele Placido.

E poi perdiamo il conto dei nomi dei kala. Non solo noi, ma anche l'autista sembra confonderli dopo un po'. Ma tutti hanno un segno distintivo. Uno è completamente ricoperto di fiori gialli, un altro è in pianura, sorge in mezzo a cretti grigiobianchi di argilla secca. Poi uno con mura quadrate, che proteggono un avvallamento che è diventato uno stagno enorme pieno di giunchi verdi. Alla fine, avanti e indietro da Boston, Karakalpakstan, ci spiegano, "bonus": un kala che non è nemmeno sulla carta, cresce in un campo e per vederlo dobbiamo trasgredire la proprietà privata di un contadino che si lava le mani in una pozza di acqua marrone e poi raccoglie per noi pugni di more da gelso. Dolcissime, un sapore che ricordavo dall'infanzia, dall'unico gelso che avessi visto prima di allora, che cresceva debole e a forma di attaccapanni nel giardino dei miei. Nessuno di noi starà male, segno che le mamme europee che rimproverano i figli quando si mettono le mani sporche in bocca e credono che tutto sia cancerogeno devono inventarsi i problemi, in assenza di ragioni valide per stare in pensiero. Il contadino ha un asino, un carro, un forno a betoniera per cuocere i samsa incollati alle sue pareti e diversi bozzoli di baco da seta, quelli risparmiati per la riproduzione.

Al ritorno l'autista decanta "Amu Darya", vediamo una distesa d'acqua, che sembra impossibile immaginare che si inabisserà nei prossimi 200 chilometri, e passiamo su di un ponte provvisorio, fatto di lastre di ferro saldate insieme, tenute in bilico su scafi di barche o un materiali galleggianti improvvisati. A fianco sorge il ponte vero e proprio, in costruzione. La guida Petit Futé di Lilù dice che il termine stimato per i lavori è il 2008, ma sembra che ci sia ancora molto da fare. Anche perché sembra che gli operai stiano lavorando più che altro a riparare il ponte provvisorio.

Abbiamo ancora una serata a Khiva. Ne approfitteremo per uscire ancora dalle mura, sempre con più coraggio. Domani mattina ci si alza presto, si cerca un taxi condiviso per Urganch, sperando che ce ne sia uno, poi se tutto va bene, se ne cerca un altro per Bukhara.


giovedì 9 settembre 2010

Dentro le mura è un mondo diverso. Dentro le mura è un'isola. Silenzio, gelsi, ciliegi, poche capre legate nei giardini e case di polvere, dello stesso colore della strada e delle pareti della città. Ci aspettiamo un'area turistica, come siamo abituati a vederne in Europa. Invece, a parte pochi cartelli che indicano gli alberghi, troviamo abitazioni comuni, perfino modeste, con cucine all'aperto, coperte da alberi che crescono fra quattro muri. Anche il bed and breakfast che scegliamo ha la struttura di un'abitazione locale, con le stanze che si aprono attorno ad una corte centrale quadrata. La stessa struttura delle decine di moschee e madrasse sull'isola e oltre.
Il centro antico di Khiva è tutto all'interno delle mura, protetto dalle onde di traffico che dall'esterno si sbattono contro i contrafforti di sabbia. Ma non è una divisione fra monumenti e vita quotidiana: la gente continua a vivere fra i minareti, i sepolcri e le antiche scuole coraniche. Basta prendersi la briga di cercare il retro delle moschee per trovarsi davanti a gelsi, forni all'aperto e qualche macchina sovietica che non si capisce da dove possa essersi infilata, considerando quanto sono strette le vie della città. Le strade sono piste da biglie squadrate, canali scavati fra pareti di fango secco, piene di scalinate, salite e discese, pavimentate dagli stessi mattoni giallastri di cui sono fatte le pareti.
Lungo le strade, o meglio, i sentieri, poche bancarelle, e centinaia di porte. Le porte piccole delle case private, quelle istoriate dei laboratori d'artigianato. E falsi ingressi, archi enormi per accedere alle madrasse, affiancati da modelli identici in scala ridotta per le stanze degli studenti del Corano. Niente finestre, solo porte. Istoriate di motivi geometrici. L'Islam proibisce di rappresentare figure riconoscibili e serve quindi aggirare la legge con l'ingegno, assegnare significato ai grafemi, alla loro foggia, lunghezza, altezza, posizione. Tutto può avere un significato, o più di uno.

Siamo chiusi in una scatola di giocattoli, fra minareti che sembrano della Thun, ricoperti di piastre turchesi. Uno, che sarebbe dovuto diventare il più grande al mondo, è mozzo, incompleto, sembra il reattore di una centrale nucleare, smaltato d'azzurro. È l'elemento che rende riconoscibile una città che nella storia forse non ha avuto modo di distinguersi, ma ci è mancato davvero poco.
È un'isola fantasma. Gli abitanti ci sono, ma si percepiscono appena, persi dietro alle moschee. Anche i turisti ci sono, ma è raro sentirli, pullman ordinati di pensionati francesi che girano dispersi, meravigliandosi prima a destra, e poi a sinistra. Forse si rinchiudono nelle corti aperte delle due ciaicane turistiche, dall'atmosfera artefatta per il loro sollievo, per non tradire proprio completamente le loro aspettative. Forse si godono l'hotel-madrassa, mimetico anche lui, volutamente senza insegna, per non fare rumore. Di sicuro non sono all'entrata ovest, dove si radunano gli autoctoni. A pochi metri dal minareto nucleare c'è una ciaicana e i gestori si stupiscono a vederci sedere sui loro taphsan, non avvezzi alle morbide natiche europee.
E dall'esterno delle mura, il sabato, risuona l'odore della carne arrostita. Così, come in Europa al tempo delle grandi scoperte, dopo un po' la curiosità ci spinge oltre l'isola murata. Usciamo dal nostro scatolone pieno di giocattoli, incontro alla vera vita, che qui come da noi è fatta di carne al fuoco e lunghe tavolate con tovaglie cerate. C'è un matrimonio all'aperto e gente che balla. Ma non dura a lungo. Prima che scenda la notte la festa è già finita, o forse proseguirà più lontano, in qualche arcipelago al riparo degli occhi degli stranieri, davanti ai quali è necessario mostrare il proprio lato migliore e sobrio. Allora ci spostiamo anche noi, alla scoperta dei sette mari interni in questo paese allergico all'acqua, che si è già bevuto il lago d'Aral.

Il fatto è che, da quando siamo arrivati, fra Tashkent e Urgench, al di fuori del viaggio in treno e della cassetta dei giocattoli di Khiva, il mare sembra parecchio mosso. A parte l'ardua giornata di Tashkent, questa sensazione non ha una motivazione. È più un istinto da marinaio dolomitico.

O forse sono le visioni familiari, perfino accoglienti, ma in fondo sempre inquietanti.
Come il ristorante al largo della porta nord di Khiva, al bordo di un bacino d'acqua stagnante, sotto un padiglione circolare aperto. L'odore è di palude, ma il cibo è fra i migliori che troviamo sulla via. Sapori forti ma di ristoro. Carne grassa, tanta sostanza, senza spazio per la presentazione.
Forse è questo. Come una bellezza violenta spunti dagli oggetti del passato e venga conservata come unica bellezza possibile, dopo che la funzionalità industriale sovietica ha reso peccaminosa l'estetica applicata alla modernità.

Anche al passato, invero, qualora non coperto dall'Unesco. Una bruttezza attraente, come nelle scene dei film di Kusturica, anche se qui lo slavo è d'importazione.
Lo scopriamo camminando ancora un po' oltre le mura. L'ingresso di quella che prima dei tempi del Turkestan sovietico doveva essere stata una moschea, ora con gli archi in stile arabo bordati da tubi di luci colorate. È divenatta una discoteca, con musica turca, russa e forse iraniana o uzbeca ad alto volume. E poi scopriamo, senza sapere della sua esistenza, il palazzo dei khan, lasciato a secco dai fondi dell'Unesco, confinato in un parco per soli autoctoni. Stavolta gli archi sono flaccidi. Fra grossi alberi, un luna park e la notte che scende, l'atmosfera è vagamente tetra. Ne usciamo presto e torniamo al sicuro fra le mura, fra le luci rosse, verdi e blu che illuminano gli archi di notte. Ma perversamente decisi ad uscirne presto.

domenica 29 agosto 2010


Appena saliti sul treno, dopo una giornata di chili e chilometri e sonno da scontare, siamo quantomeno spaesati. È tutto il giorno che siamo spaesati, ma dal treno non ce lo aspettavamo. Ci saremmo attesi un rifugio, una pausa di solitudine dopo ore a contatto con gente dagli zigomi molto diversi dai nostri, che parla una lingua di cui non abbiamo idea. Invece non c'è privatezza, un vagone con forse cento persone, tutti gli occhi mirati su di noi. Agorafobi e claustrofobici allo stesso tempo, puntiamo le braccia sulle panche che diventeranno letti, tenendo la schiena rigida. Cerchiamo di scambiarci le prime opinioni, ma non funziona, con tutti che ci guardano parlare.

Sono i capifamiglia a farsi coraggio per primi:

“Gavarizie pa ruschi?” E fin qui ci arrivo

“No”, faccia spremuta come se avessi un limone in bocca, braccia a W verso l’alto, come una Kalì senza malformazioni

“Amerika?”

“No, Italya, Fransia”, puntando col dito verso i titolari delle rispettive nazionalità

“Aha!”, e finisce qui.

È una famiglia? Due? Tre? Fratelli, sorelle, gente che non si è mai incontrata prima?

Denti d’oro, donne dai vestiti lunghi a fiori, come quelli che mette mia nonna per lavorare in campagna. Bambini calmi, concentrati, coccolati senza quell’orgoglio di molte donne occidentali, che ti esibiscono il pupo per dimostrare di essersi realizzate. Canottiere, catene, ciabatte di pelle su calzetti bianchi. Gli uomini si passano coltelli di mano in mano, tastano l’affilatura, soppesano, bilanciano con un dito fra la lama e l'attacco dell’impugnatura. Il coltello qui conta. Non per niente nella valle del Ferghana è diventato un oggetto d'arte, con manici intagliati e lame istoriate.

Poi parte un giro di nomi indistinguibili, quanto i nostri per loro. Per spiegare il mio, non sono ancora arrivato all’idea di citare Polo e dubito che qui si conosca van Basten. Poi silenzi. Interrotti da parole, ancora troppo pensate prima di uscire.

"Italya, Fransia, but live Holland". "Amsterdam, Holland: tulip, mulino, Robben, van Persie"

"Amsterdam, Fransia?"

"No, Amsterdam, Nederland, Netherlands, Holland".

"Ola, da, ola"

Alle 8 è già quasi notte e noi non abbiamo ancora pensato al cibo che non abbiamo. L'orizzonte, attraverso la finestra sporca ha il colore dello yogurt ai mirtilli, con una grossa bacca nera e luminosa al centro. Prima ancora di sentire la fame, quella che ormai si delinea come un famiglia, signore sui trentacinque, moglie e due o tre figli, ci offre della focaccia vagamente gommosa, ricamata di fiori. È il non, il pane uzbeco, girato nei forni con timbri di legno con chiodi all'estremità, che formano a puntelli la sagoma di un fiore stilizzato, in modo da stampare una figura sulla pasta.

Dalla borsa esce anche una teiera di ceramica, bianca e blu, con disegni stilizzati di piante del cotone. In breve tutti nei dintorni brandiscono lo stesso tipo di teiera, con coppette abbinate, e fanno la fila al samovar del vagone, per aggiungere acqua calda alle foglie di tè verde. Il cerimoniale imporrebbe di versare un po' di acqua ancora priva di sapore nelle coppette e riversarla poi nella teiera, per tre volte. Una cerimonia che viene seguita senza troppo zelo. Una cosa che qui hanno imparato dal sovietismo è che non vale la pena di dare troppo peso alle tradizioni.

Chi crede nell'Islam o nei segni si passa le mani sulla faccia, per lavarsela della benedizione di Allah. Poi arrivano due coppe anche per noi. Dai panieri escono uova sode, alcune signore portano cesti da cui si può comprare salame di carne macinata finissima, tranne per i cubi di grasso, la parte ricca della carne. Veniamo invitati a mangiare. Appena le nostre mani rimangono vuote, ci viene offerto qualcosa di nuovo.

“Syr Darya!”, ci fa un signore magro, scuro e sorridente quando passiamo su di un ponte di ferro. Il primo dei due fiumi che con molte licenze delimitano il nord e il sud del paese. Si chiamava Iaxartes e qui sanno che lo si conosceva già millenni fa. Qui l'acqua è orgoglio. Oro invisibile per chi riesce a tappare le falle nelle tubature esposte alle intemperie.

La famiglia riordina cibo e posate, dentro sacchetti di nylon con gli unici due o tre disegni comuni in tutto il paese. Quello giallo e rosso del tè e quello azzurro e bianco con scritto "styled in Italy". Gli stessi due modelli, dalla capitale ai mercati più impolverati nel Kyzyl Kum.

Ora il tavolino lo prendono due signori in canotta bianca. Uno grassoccio e chiacchierone, dai tratti eurasiatici, una specie di Craxi all'orientale, l'altro magro, silenzioso e di fisionomia russeggiante. Si passa alle armi pesanti: pollo all'unto e vodka, anzi, "schnaps", come dicono loro. Insistono che si assaggi. In effetti la schnaps non sa di vodka. Non avevo mai associato la sfera di influenza russa con altri superalcolici che la vodka.

Il termine "sposato", in russo, non l'ho mai imparato. Quello che capisco è l'indice rivolto verso di me e poi verso Lilù, poi gli indici delle due mani si toccano e si allontanano ripetutamente, in un gesto famigliare.

"No married", come se comprendessero il "married". Invece capiscono la testa e l'indice, che si spostano a destra e sinistra.

Poi prendono coraggio anche le donne, si avvicinano, una parla tre parole di tedesco. Una ragazza sui venticinque, forse più giovane, timida, ma distinta di portamento, dice di essere Lehrer, Schule, Biologhia. Più tardi Lilù mi dirà che sembrava decisamente interessata a me. Ci rendiamo conto che avendo capito che non siamo sposati, i viaggiatori uzbechi presumono che siamo semplicemente amici, o compagni di viaggio.

Craxi, l'uomo della schnaps, torna trascinando un bambino sui dodici anni, faccia e ciuffo da ragazzino sveglio delle pubblicità dei giocattoli, occhi profondi e scuri. Dicono che parli inglese e in parte è vero, per quanto inglese possa parlare un ragazzino della sua età. Riesce a rendere comprensibile il suo nome, Mamur. È un giovane tennista promettente e sta tornando a casa da un torneo nella capitale. Ha un fratello di otto anni circa, Cosciù. Anche lui sa due parole d'inglese, anche se non è altrettanto abile nell'articolarle.

Loro saranno i nostri interpreti e la prima domanda da interpretare è quanto guadagniamo in Europa, o così sembra. Rispondiamo di proposito in modo prolisso, in un inglese complicato, prendiamo tempo farfugliando che il biglietto di quel treno in Europa costerebbe cinquanta volte tanto. Raggiungiamo il nostro obiettivo, il messaggio si perde fra una lingua e l'altra e nessuno osa insistere dopo un paio di esplicazioni altrettanto complicate.

Anche per via di questa domanda cerchiamo di giocare di modestia. Limitiamo al massimo le fotografie, in modo da non sfoggiare inutilmente le nostre macchine fotografiche digitali. Poi, appena trovo il coraggio di estrarre la mia scatoletta argentata per qualche foto ricordo, il fratello di Mamur sparisce e torna con un apparecchio professionale nero, grande più della sua testa, scattando fotografie a nastro e a caso.

Finiamo così, foto ricordo e un altro giro di schnaps, con l'odore del pollo che aleggia più di quanto avesse aleggiato da viva la gallina dalla quale la carne proviene. Ci si ritira tutti allo stesso tempo, perché in un ambiente così affollato è necessario sincronizzare il sonno, in modo che chi chiacchiera non svegli chi dorme. Gli uzbechi sembrano gente altruista.

La notte è placida. Le fermate sono poche e il rumore dei nuovi passeggeri ridotto e rispettoso. Il lenzuolo è troppo corto, ma la temperatura è quella giusta per non aver bisogno di essere coperti.

Quando mi sveglio Lilù sta già bevendo tè con la famiglia che ci aveva offerto la cena. Così mi alzo e partecipo alla colazione di patate. Compriamo dei dolci per ricambiare la generosità, ma sul vagone, solo i bambini più piccoli accettano il dono. Gli adulti rifiutano con una decisione sufficiente a convincerci a non insistere.

Viaggiamo nel mezzo del deserto. Dune dopo dune, messe in prospettiva solo da file di piloni in legno per l'elettricità. I pochi paesi hanno capanne di fango, dello stesso colore delle dune, delle strade e della polvere che copre carri, bestiame e persone.

Ormai la curiosità di tutti ha superato la timidezza e siamo costantemente a udienza da qualcuno. Tutti ci invitano a casa loro, soprattutto Craxi, che insiste. Alla fine accettiamo, anche se è evidente che non ci presenteremo mai. Perché poi? Ce lo chiederemo solo qualche giorno dopo. Forse paura di perdere tempo e deviare dal programma? Craxi vuole convincerci ad evitare Nukus e Moynaq, se ne vergogna. Vuole portarci dove sa lui e noi vorremmo vedere anche i posti di cui vergognarsi.

Ci vorranno ancora uno o due giorni prima di capire che avere un programma è il modo migliore per perdersi ciò che vale la pena di vedere.

Passiamo tutta la mattinata in testa al vagone, fra le porte di accesso e quella del bagno, nell'atrio di ingresso, dove possiamo abbassare il finestrino per fare fotografie più nitide. Mamur e Cosciù ci mostrano il loro villaggio, mentre il treno gli sfila davanti. Qui abitano le persone di apparenza più agiata fra quelle incontrate, con racchette da tennis e vestiti sportivi ma eleganti. Fango secco su fango. Questa è un'altra cosa che scopriremo più avanti: solo perché hai i mezzi per farlo, non significa che tu debba voler vivere in città, in una casa moderna, fra quelli che noi chiamiamo comfort.

Quando torniamo ai nostri posti, la famiglia che ci ha salvati dalla fame è già scesa. È un peccato non averli salutati e il vagone è già più vuoto e silenzioso.

Il treno non fa molte fermate, ma i centri abitati sono tutti concentrati nell'ultimo tratto del percorso. Dopo poche ore scendiamo anche noi, a Urgench, oltre mille chilometri fisici e culturali da Tashkent. L'Unione sovietica è confinata fra gli archi alti e il lampadario barocco della stazione. All'esterno comincia il Khorezm, tra file di taxi improvvisati e autisti che spingono i visitatori a scegliere proprio il loro.

Lasciamo il traffico dietro di noi e camminiamo lungo la linea retta asfaltata che dovrebbe portare verso il centro, poi, dopo esserci soffritti e rosolati per duecento metri, saliamo su uno dei minibus che si fermano per indurci alla ragione e ci facciamo portare a Khiva. Trenta chilometri di asfalto impolverato, piante che crescono pallide e carri trascinati da asini dalla palpebra pigra.

E poi, fra case di periferia, mercati arrabattati e ciaicane improvvisate, ci troviamo di colpo sotto le mura della cittadella di Khiva. Non mi era mai capitato prima, di trovarmi ai piedi di un castello di sabbia. L'effetto è impressionante. E non ci siamo ancora entrati.

sabato 14 agosto 2010

È proprio questo il pensiero che ci perseguita all’inizio. Perché siamo venuti qui? Più per scoprire un paese o perché il nome fa ridere? E se vince la seconda, cosa ci facciamo in un posto dove siamo andati solo per il nome?

Prendi l’arrivo. Fra controlli e carte da compilare, usciamo dall’aeroporto di Taskhent alle 5 di mattina, è già giorno quasi pieno, perché da queste parti il fuso orario è più tradizione che convenienza, verso le 6 siamo nella stanza d’albergo che abbiamo prenotato via internet, credendo di arrivare per le 3.30. Alle 6.30, appena addormentati, ci svegliano dicendoci di averci dato la stanza sbagliata. Andiamo a letto alle 7.30, perché la stanza va preparata, e la sveglia suona alle 9. Sulla via per la colazione, ci avvertono che non risulta che abbiamo pagato, telefoniamo all’agenzia on-line, dove per fortuna scopriamo che c’è stato un malinteso (o meglio, i gestori dell’hotel hanno ricevuto il pagamento sul conto in banca, mentre si sarebbero aspettati soldi veri).
Alle 10 siamo pronti per partire, sollevati dal problema risolto e nonostante la calura, ci godiamo la camminata dalla periferia alla stazione centrale, scoprendo il motivo della pianta di cotone, che trionfa su ogni muro, la gentilezza della gente, il traffico di veicoli sovietici e coreani e la luce bianca che filtra fra le nuvole. Passiamo in stazione, perché l’idea è quella di partire subito, prendere un treno e correre fino al punto più lontano, per trasformare il viaggio in un lungo ritorno.
Ma leggere gli orari non è facile. I treni non passano tutti i giorni e noi non abbiamo idea di come si dica venerdì in russo. Non ci resta che sperare che gli orari scaricati da un sito internet piuttosto informale siano validi.

A questo punto abbiamo fame e ci mettiamo alla ricerca di un bancomat per prelevare i nostri primi sum, valuta con lo stesso cambio de tugrik mongolo e della lira italiana. I bancomat non esistono, così cerchiamo una banca. Le banche esistono, ma non vogliono lasciarci prelevare. Prelevare in sum è impossibile, ci servono dollari, e si dice che in città il contante scarseggi. Trasciniamo corpo e borsone da una banca all'altra, mimando e usando parole di caratura internazionale, quali dollar e credit card, quando finalmente qualcuno ci avvisa che l'unico modo per prelevare è farlo dall’ufficio di cambio di un hotel a cinque stelle. Ormai stiamo camminando da tre ore, con lo zaino pieno in spalla. Il sudore ci percorre la schiena a gocce e anche il Grand Hotel ha finito i dollari. Sorridendo, la ragazza alla reception ci confida che siamo stati fortunati a non esserci fatti ingoiare la carta di credito. Fortuna a parte, l’ultima possibilità di raccattare di che vivere è camminare un’altra mezz’ora verso un hotel di una catena russa, dove francamente dubitiamo di poter prelevare gli ultimi dollari rimasti in città.

Siamo in Uzbekistan da dodici ore e il treno per Urgench, se passa, passa fra due. Noi invece siamo demoliti. Però stavolta ci va bene. Certo, non tutti i tipi di carta di credito sono ben accetti, ma io ho quella giusta. Anzi, il garzone dell’hotel parla inglese e ci trova tutte le informazioni sui treni. Quello per la periferia dell’Asia passa effettivamente fra 2 ore e poco più. Di più, possiamo comprare i biglietti dall’hotel e lo facciamo, perché abbiamo già provato prima a metterci in coda allo sportello della stazione e non è il caso di ritentare l’impresa. Parlare a segni si può, ma solo se l’interlocutore ha intenzione di ascoltare.
Ci rimane un’ora e mezza di libertà. Visitiamo la parte più sovietica del centro. Una piazza con la statua di Amur Timur, detto Timur lo Zoppo, Tamer-Lame, Tamerlano. Per Timur c’è anche un museo rotondo, dipinto di bianco e di quel verde pastello che si trova dappertutto nel mondo sovietico. Poi c’è una specie di casa bianca, chiaramente la sede del governo, perché America o Asia, la sede del governo deve essere una casa bianca, possibilmente in stile neoclassico. Questa è affiancata da un enorme radiatore di cemento, l'Hotel Uzbekistan, quello dove venivano tenuti gli stranieri fino a meno di vent’anni fa. E poi c’è la Broadway di Tashkent, un nome che promette Lamerica fin dall’inizio e mantiene la promessa, nonostante il gusto di un prato verde. Anche la nostra fame è degna de Lamerica e per una volta contravvengo ad una delle mie regole di viaggiatore: mai mangiare in un posto dove alla porta sta un buttadentro. Stavolta il buttadentro è una gentile signora dai fianchi larghi e i capelli sbiancati, chiaramente russa, che ci promette di cucinarci qualsiasi cosa vogliamo, ma senza rivelarci (in realtà lo sospettiamo) che deve andare a comprare gli ingredienti al negozio. E così un’ora se ne va, mangiando prima il dolce, una tortona da matrimonio di cartone, mentre si aspetta una scaloppa con contorno di riso al ketchup. E ci sentiamo come turisti che vengono dalla parte obesa de Lamerica quando andiamo, con loro che pretenderebbero di farci pagare 50 centesimi per lo zucchero del tè. Va bene, va bene, stavolta abbiamo imparato, alla prossima non ci faremo fregare.

Per tornare in stazione prendiamo la metropolitana, perché dicono che ne vale la pena, di vedere come hanno arredato ogni stazione, come un salotto profumato di oli combusti, stile arzigogolato, ma geometrico, puro modernariato. Quello che non sappiamo è che la polizia è solita fermare i turisti zainodotati per arrotondare lo stipendio. Ed è una fortuna che non lo sappiamo, perché nell’incoscienza manteniamo la calma durante la perquisizione e anche se scopriremo solo più tardi che forse è stata quella donna di passaggio a salvarci la cassa, quando ci lasciano andare non ci sentiamo particolarmente miracolati. Anche se resta comunque il pensiero di perdere il treno, legato a quanti minuti dovremo aspettare la coincidenza al momento del cambio. Per fortuna l’attesa dura solo due minuti, arriviamo in stazione, corriamo al binario e, finalmente sollevati, consegnamo il biglietto al controllore, molto meno formale dei colleghi russi, che ci fa segno di salire a bordo.

E il sollievo dura trenta secondi, perché appena saliti ci accorgiamo di essere finiti in quella che fra Mosca, Pechino e Vladivostok si chiama terza classe.

Ci sediamo sulle panche dello scompartimento aperto, senza porte e pareti, pronti per una notte stretta, rumorosa, faticosa. Ci guardiamo negli occhi, perplessi. Ne è valsa la pena? Ed è da qui che cominciamo a conoscere questo paese. Perché siamo stanchi, sudati, incerti, ma non ci permettono di buttarci giù.

domenica 1 agosto 2010

L’Uzbekistan c’è, ma non ci si pensa. Lo nomino, da anni, per scherzo, quando è bene gettare nella conversazione il nome di un posto lontano, o semplicemente assurdo. “Dove abiti?” “Diemen: tra Oosterpark e l’Uzbekistan”. “Politici onesti? Forse in Uzbekistan”.
Era diventato una specie di tormentone, l’Uzbekistan, usciva spesso nelle conversazioni. Non era un paese, ma una metafora.

Poi, un giorno, nell’inverno quando si pensa all’estate per trovare motivazione a resistere, io e Lilù parliamo di cosa fare e si dice di fuggire dal lavoro opprimente. Maldive? Naa, diciamo Vanuatu, Lesotho, anzi Uzbekistan.
E poi a febbraio ho visite: vengono Nicola, l'amico mio di Roma, e Tomas, il mio fratello scandinavo, col quale ho attraversato la Siberia.
Sento che è il mommento di anticipare a Lilù i miei piani. Io e gli altri pensiamo al Brasile: Pelè, Garrincha, Lula, Jobim. Lilù mi guarda, ha occhi come marmo grigio, la fronte si aggrotta come il cammino di un bruco e le estremità delle labbra si abbassano. Perplessa, mi dice “Ma come, non andavamo in Uzbekistan?” “Sì, certo, in Uzbekistan ci passiamo, però prima andiamo in Swaziland”. Lei mi guarda. Esattamente nell’istante in cui si accorge di essere stata presa per il culo, io mi rendo conto che sarebbe pronta a farlo davvero.

“Aspetta, non ti prendo in giro, facciamolo”.
”Lo dici per farmi piacere, va' pure con in tuoi amici".
“No, davvero, andiamo”
“Davvero-davvero?”
“Ti sembro il tipo che spara cazzate?”
“Veramente sì”
“Vero, stavolta no però, giuro”.

E ormai sono curioso. Mi rendo conto di non sapere nulla sull’Uzbekistan. Samarcanda si sa che esiste, ma cosa c’è a Samarcanda? E il resto? Il giorno in cui diventa chiaro che il Brasile rimarrà privo di noi (Tomas ha comprato casa, Nicola non può prendere ferie), ho già cercato e trovato decine di fotografie, mi sono meravigliato davanti a Bukhara, ho scoperto l’esistenza di Khiva, ho letto articoli sulla lavorazione della seta e dei tappeti. E lo sapevate che ai tempi dei soviet l’Uzbekistan era il maggiore produttore di cotone al mondo? E che per rendere possibile l’impresa è stato prosciugato il Lago d’Aral.
Alla fine quella di andarci è una decisione spontanea.

martedì 20 luglio 2010


Quando uno arriva a Moynaq, sul molo, guarda le navi e si chiede “Ma che cazzo ci faccio qui?” È automatico. Non mi andrebbe di cominciare con una parolaccia, e neanche con una banalità. Però è così. Da Khiva sono otto ore di macchina, con il mercurio che si dilata oltre i 40, la macchina che scavalca buche sopra i 100, il sole che non riesci a tenere fuori dal finestrino aperto, con l’aria che entra sì, ma ha la temperatura che ti aspetteresti da un asciugacapelli.
E c’è il kum, questo deserto da scenografia teatrale, grigio sabbia, ciocche da chemio d’erba ispida e secca, che non prendi sul serio, perché in mezzo ci trovi chiazze verdi, lagune, bestiame immerso a metà zampa, ragazzini abbronzati che si tuffano e ti aspetti che sia là, sto mare, ma è un falso allarme. Il deserto ricomincia e ti porta, appunto, a Moynaq. Cosa c’è a Moynaq? A Moynaq c’è quello che c’era: un porto sul Lago d’Aral. Solo che in sessant’anni, il mare l’hanno ciucciato le piante di cotone e te lo devi andare a prendere cento chilometri più in su, quasi in Kazachistan. La gente di mare, anziana finché riesce a vivere, porta in faccia le malattie della pelle di un sole che ha capito di aver vinto. La macchina rimbalza in mezzo a una periferia che non serve più, perché il porto più importante del quinto lago più grande del mondo è diventato un molo su di un deserto di conchiglie frantumate.

Ci arrivi, al molo. Guardi in basso il deserto, scendi la scalinata, arrancando, perché il sole ti calca la mano sulla testa per schiacciarti, ispezioni i relitti di nave arrugginiti e capisci che aveva ragione il signore sul treno. Non c’è niente, a Moynaq. È un niente importante, pieno di significato, ma non c’è niente da vedere. Puoi salire sugli scheletri delle barche, decifrare i graffiti per scoprire chi ha avuto la tua stessa idea, puoi vedere se quello che imbianca la terra è davvero sale, puoi guardare le facce della gente, la porta del conservificio. Chiuso. Ma mezz’ora dopo essere arrivato non ti resta che tornare verso la semiciviltà. Altre otto ore, senza parlare, perché l’autista è già sfinito, e comunque non gli va di interpretare i gesti che vorrebbero compensare la tua ignoranza della lingua russa. Perché Lilù è seduta dietro, allungata sui sedili, stanca e nervosa e il vento è troppo rumoroso per conversare. E comunque Moynaq ha messo malumore anche a me. Giocarsi più di metà delle ferie del 2010, cercando un mare quando sai che c'è solo sabbia, vuol dire andarsele a cercare.

Scemi noi. In Uzbekistan per scherzo. Arrivati tre giorni fa, abbiamo già raggiunto il culo sporco della nazione.

E infatti questo è il momento più basso. Un momento che serve, perché i monumenti sono solo una parte, e in Uzbekistan le parti sono tante. Il centro dell’Asia è una rotonda dove hanno messo la freccia carovane cinesi con bastoni di bambù alti due metri con una coda di cavallo all’estremità, arabi armati di khanjar ricurvi, persiani, zoroastriani, mongoli, veneti, spie inglesi, turchi e turcomanni, soldati macedoni col sole sugli scudi e carri corazzati sovietici sulla rotta per l’Afghanistan. C’è la gloria della storia e il deserto del presente, o con un po’ d’ottimismo, del passato sovietico. Tempi macistici, di laghi da ridurre a pozze per trasformare le sabbie in campi di cotone. Pakhta: cotone, tuttora onnipresente in un simbolo stilizzato al centro di stelle islamiche a otto punte sulle pareti dei kolkhoz. Orgoglio dei governi e rovina della gente. Dove c’era la seta, impiantare il cotone.

E la UzDaewoo bianca rotola, rimbalza, inforca doline nell’asfalto, sorpassa centinaia di carretti di legno trainati da asini, trattori immensi intrampolati su tre ruote, bestiame, sabbie, case di fango, tubature idriche esposte, sempre con lo zampillo, che sembra bucato di proposito, forse per dimostrare che l’acqua c’è, basta usarla. Quasi un motto sovietico, se ogni proletario apre un buco nelle tubature, prosciugare un lago non è impossibile. L’uomo che fa sua la natura.
Ma l’uomo è altro, a patto di saperlo nascondere. L’uomo si riconosce a Nukus, il rifugio di Igor Savitsky, collezionista d’arte contemporanea, che era riuscito a salvare dai gulag le opere dei pittori che il regime voleva imbiancare. In tempi in cui la trasparenza cambia fuoco, le opere degli autori di Savitsky hanno modo di uscire a galla e portare fama ad un museo nella steppa del Karakalpakstan.
È un segreto, come tanti qui. L’Uzbekistan è una concentrazione impressionante di bellezza nel mezzo di un deserto di sabbia grigiognola. Risalta. Come le cupole ricoperte di maiolica blu, turchese e verde in cima a minareti di terra brulla, in città di terra brulla, con pareti semplici e grigie come la terra, ma con dettagli scolpiti e decorati di geometria. Devi andare a cercarla, la bellezza, ma non è difficile trovarla, basta osservare, sondare la steppa. Come stare fermi in mezzo alla prateria, soli, e scoprirsi circondati da migliaia di roditori terricoli. Quasi. Ci si può capitare solo per caso.

sabato 27 marzo 2010

Diciannove settembre: epilogo

È solo l’inizio perché è qui che cominciano a succedere le cose. Non cose grandi, impressionanti, ma in fondo messe da conto da mesi. Qui cominciano gli imprevisti, proprio mentre cali le difese immunitarie in vista della fine.
Succede per cominciare che quella ventata di aria condizionata accesa da Olof due giorni prima, che mi aveva sorpreso all’uscita dalla doccia, mi torna in mente l’ultima notte, prima della partenza. Mi torna in mente mentre mi contorco nelle lenzuola rosa, gelando e poi sudando, come non ho mai fatto prima. La maglietta è completamente bagnata e a metà notte mi tocca cambiarla. Mi torna in mente con un senso di malessere, la mattina dopo, proprio mentre di nuovo esco dalla doccia per vestirmi e stipare in valigia gli oggetti con scritte in alfabeti esotici che ho raccattato fra Russia, Mongolia e Cina.

Un taxi per l’aeroporto costa i miei ultimi yuan. In macchina mi sento debole, ho brividi di gelo. Sono troppo spompato per idee romantiche come dire addio all’Asia e al nostro viaggio durato 9 mesi e mezzo, contando anche e soprattutto la preparazione. Troppo debole per pensare a casa. Penso all’imbarco, nell’illusione che un sedile bombato e una dormita possano farmi bene.

È il periodo in cui la leggenda urbana della febbre suina imperversa in Europa. L’idea di essere malato, e non solo stanco, mi viene in mente solo al gate, poco prima di attraversare un sensore che promette di rilevare la temperatura corporea al volo, garantendo sonori bip in caso di febbre. Non suona, dubbio fugato. Tra l’altro già da un po’ mi sento meglio.

Dall’aereo si vede la Siberia come non l’abbiamo ancora vista, dall’alto: oltre alle foreste verdi, laghi che appaiono perfettamente rotondi. L’aria condizionata è una tortura, in breve torno a stare male, peggio di prima e bere birra è gratis, ma non aiuta. Fra l’altro, a differenza di Tomas, non riesco a chiudere occhio. Siamo già abbondantemente in Europa quando realizzo che potrei davvero avere l’influenza. La hostess mi dà un tè di menta e una coperta, manco un'aspirina.

Mi sento leggermente meglio all’aeroporto di Vienna, per il cambio d’aereo. All’edicola, per rendermi conto di essere tornato in Europa, compro per la prima volta nella mia vita la Gazzetta dello Sport. Da Pechino ai tifosi napoletani arrestati per detenzione di materiali pericolosi, passando per i guai di Ronaldinho.
Nell’aeroporto, cartelli in diverse lingue consigliano di rivolgersi al personale sanitario in caso di sintomi quali brividi, mal di gola e febbre. Potrebbe trattarsi di febbre suina. Fra tutti questi sintomi, a me manca solo la febbre, ma questo non significa che abbia il tempo e soprattutto la forza di cercare il servizio sanitario.

Sull’aereo per Amsterdam, avvolto in una coperta e ancora imbottito di tè alla menta, sto molto meglio. Mentre sudo i nemici dei miei anticorpi in una coperta dell’Austrian Airways, ho il tempo di rendermi conto di star tornando a casa e pianificare di conseguenza. Tomas resterà per la notte, la mattina dopo avrò modo di incontrare la sua nuovissima ragazza, una storia iniziata poche settimane prima del viaggio. Per precauzione, in viaggio l’abbiamo chiamata tutti solo “Dutch Girl”.

Sul treno fra l’aeroporto e casa chiamo K. È sabato sera, scopro che Markus, il suo amico del paesino, si è autoinvitato per il fine settimana e hanno programmato di uscire con amici suoi e altri che K ha conosciuto durante la mia assenza. Dice che ci incontreremo solo la notte tardi, verso le 3, quando torneranno a casa. La cosa non mi fa piacere, ma mi trattengo: in fondo io sono stato via per tre settimane, lei solo una serata.

A questo punto ricordo solo il crollo fra le coperte, l’espiazione tramite sonno, la porta di casa che si apre quando potrebbero essere proprio le 3.

Sarà la sveglia dopo tre ore, saranno le circostanze, ma mi sento male di nuovo. Stavolta K mi offre il suo termometro e mi rendo conto per la prima volta di avere davvero la febbre alta. Si parla della mia malattia e della loro serata. Non una parola sul viaggio. Sarà che dopo tre settimane "com'è andata?” sembra una domanda fuori posto, sarà un’altra cosa che so io.

Con la scusa che sono malato, K dorme su di un materasso sul pavimento, così come ha fatto per le tre settimane precedenti. In effetti il materasso del matrimoniale è il meno caro che l’IKEA aveva da offrire. Ogni volta che uno si muove, anche l'altro si sposta per via di un'onda tellurica di moto incalcolabile. Prima di chiudere gli occhi arriva diretto un riferimento alla tematica più cara a K: ho fatto qualcosa con altre ragazze? Non che mi aspetti una domanda sul viaggio. Sarà la questione del “com’è andata?”, sarà più che altro la famosa altra cosa che so io: K aveva odiato l’idea del viaggio fin da quando avevo comprato il biglietto (prima no, perché non credeva che lo avrei fatto davvero). So comunque per certo che non le interessa sapere cosa abbiamo visto. Da quando anni fa è venuta a sapere che avevo baciato un’altra ragazza, ha smesso di fidarsi di me, si è gradualmente allontanata per tornare ai gusti e alle abitudini della sua famiglia. E le vacanze della sua famiglia erano in camper, nei campeggi, spostandosi su biciclette portate da casa per preparare il fondo per la Bitburger della sera. Sport, esercizio fisico, natura. Meditazione ed espiazione. In Germania è tradizione, anche nelle famiglie cattoliche.

La domanda sulle ragazze me la aspetto, ma non subito, non a freddo. Le rispondo che no, non è successo niente, poi sottoposto a terzo grado le confesso che se avessi voluto avrei potuto e comincio a parlare di U sul treno fra Mosca e Irkutsk. K vuole sapere tutto di lei. Le interessa sapere il tipo di ragazza interessata a me. Poi va a dormire non convinta, ma tutto sommato rassicurata. Il fatto che io sia tornato è comunque una prova che non ho intenzione di abbandonarla. Io invece mi seppellisco sotto il piumone, respirando per annientare i brividi con il calore.

La mattina seguente il termometro non perdona. Rinuncio all’idea di conoscere Dutch Girl e mi butto a letto. Tomas parte e ci salutiamo così, in un abbraccio di flanella contro cotone temprato da viaggio e valigia, barbe non ancora rasate, dopo tre settimane. Finisce il viaggio, ricomincia la vita. Una vita di espiazione, perché ora non sono decisamente in grado di muovermi, con i brividi che mi azzerano.

K diventa dolcissima. Appena Tomas parte, lei, solitamente malata di ipocondria in seguito ad esposizione prolungata a stress da studio e lavoro, salta sul letto dove sono sfasciato e mi abbraccia in silenzio per diversi minuti, senza parlare. Poi si prende cura di me, mi compra tachipirina e Strepsils e mi fa un tè prima di partire per un lungo giro in centro con Markus.

Rimango invertebrato per i primi due giorni della settimana. Niente lavoro, la barba che continua a crescere, ispida e grigia come un cespuglio di ginepro e mi manca la forza anche solo per aprire un libro, ascoltare musica o accendere il computer. Mi rigiro fra le coperte in preda a spasmi di caldo e freddo, lasciandomi prendere dalla nausea ad ogni pensiero rivolto verso l‘aria condizionata dell’aereo, o Pechino in generale.

K va a lavorare e quando torna rimanda di continuo la visione delle fotografie del viaggio. A dire il vero non mi chiede nulla. Per il resto la vita si stabilizza al livello di prima della partenza. Mercoledì torno in ufficio, ancora troppo debole, faccio un errore dietro l’altro, dimentico date di consegna. Il giovedì sera siamo in soggiorno, io seduto sul divano a leggere, sfinito, lei poco distante da me, alla sua scrivania nell’angolo vicino alla finestra, quella da dove sto scrivendo ora.

Di solito le sue sedute informatiche sono silenziose. Lei è sempre stata silenziosa, comunque. A casa le hanno insegnato che se una cosa non è importante, è meglio non dirla per niente. Ad un certo punto la sento parlare: “Credo di essermi innamorata”, così, ex abrupto, senza un “sai” o uno schiarimento di gola. Una risata sforzata fa credere che la cosa non sia seria, ma K non fa battute, soprattutto quando si parla di sentimenti. Anzi, si arrabbia quando lo faccio io. Rimango completamente spiazzato, anche se all’inizio mi sembra che la cosa più logica sia che stia parlando di me. Poi, ancora mentre ride in modo scomposto, quasi sadico, mi racconta la storia.

È un suo collega del quale mi aveva già parlato prima di partire. Lavora in un altro edificio, ma si sono conosciuti ad una delle feste che l’azienda organizza ogni mese un venerdì dopo lavoro. Si sono conosciuti parlando di musica, poi si sono promessi di rivedersi per concerti e discoteche alternative. Come molti olandesi ha un nome alquanto cazzuto: si chiama Dignus.

Pare che dopo due settimane di truce solitudine in mia assenza, K sia stata soccorsa dai colleghi che l’hanno vista piangere dopo la mia telefonata dalla ger in Mongolia. La hanno portata fuori, a divertirsi con loro, lei si è accorta di poter star bene e forse meglio senza di me. Alla fine, mentre ero a Pechino, la sua vita è ricominciata, ha iniziato ad uscire, divertirsi. Io intanto visitavo la Città proibita. Alla fine non era poi così difficile, la vita senza di me.

Così K, che ha una visione inflessibile dell’etica, mi avvisa prima di commettere il danno, perché le cose si fanno bene o non si fanno. Fatto sta che il sabato successivo, quando lei esce con Degno, lui non ci sta neanche. Ma il dado è tratto. I pezzi del puzzle sono gli stessi di prima, ma la colla non attacca più. K cerca casa da sola, dopo pochi mesi scopro di piacere ad una collega che fin dall’inizio non mi è mai stata completamente indifferente. Poche settimane dopo lei va a visitare gli amici dell’università per 10 giorni e io scopro cosa K aveva sofferto in mia assenza, cosa intendeva quando temeva la mia partenza. E nonostante tutto non riesco a stare completamente male, dopo aver visto i lunghi tramonti della Mongolia, l’hotel dell’Intourist di fronte alla stazione di Novosibirsk, gli attrezzi da ginnastica affondati nel cemento davanti alle case e ai pisciatoi degli hutong di Pechino. È un mistero, il mistero del viaggio, come tre settimane possano valere il sacrificio di cinque anni di vita.