martedì 14 settembre 2010

E ci spingiamo sempre più spesso fuori dalle mura.

È splendida, la città antica di Khiva. Ma è solo il bello che vale la pena di vedere? La curiosità è priva di gusto, completamente indipendente dal bello. Ci sono cose brutte che vale la pena vedere.

Arriviamo fino a Moynaq, dove questa storia è partita. Volevo cominciare dal punto più basso, e poi osservare in senso logico, non cronologico, come in una nuova terra con l'esperienza arriva prima la confidenza e poi anche la conoscenza. Perché queste rive in differita, abbandonate dall'acqua, sono per forza di cose una vista triste. Ma sarà a partire da qui, dal punto verso cui arrancano i due fiumi che racchiudono il paese, dalla sua foce stentata, che cominceremo davvero a risalire la corrente per capire un po' alla volta le ragioni di questa nazione.

Dopo Moynaq, tutto sembrerà più bello. Già il giorno dopo, quando chiamiamo un taxi, partiamo in macchina. Senza un'infarinatura storica, senza sapere bene cosa o dove, andiamo alla ricerca delle fortezze nel deserto.

Avevo visto Ayaz kala in fotografia, e mi era venuta voglia di vederlo dal vero. In mezzo al deserto, una fortezza in cima ad una rocca. Ma i kala sono molti. Per lo più cumuli di muri spaccati, ma è la posizione a colpire. L'immagine nascosta di quello che potevano sembrare, uno per ogni punto rialzato fra la Corasmia e il Karakalpakstan.

Così passiamo una giornata a fare la spola fra i kala, con un autista che conosce i turisti. Ovviamente parla solo russo: credo di capire che sia un ingegnere petrolifero che, in attesa di nuovi incarichi mette volentieri a disposizione la sua minuscola Daewoo vulnerabile al sole per chi può pagare in dollari. Fransia? Brigitte Bardot, Zidane, Sofia Loren. Italya? Mafia, Michele Placido.

Ci si adatta a questo linguaggio smozzicato e verso fine giornata si arriva a parlare di religione "Islam, niet Moslim". Capisco cosa intende, adìn Bog, Moamàd, Jesu, fratelli, Stalin, Sibir, gulag, cattivo. Mastroianni, Italya, Aznavùr, Fransia.

Così, internazionalizzando parole si arriva a Toprak kala. Muri, fondamenta dove nidificano gli uccelli. Domina la pianura nei pressi di Boston, Karakalpakstan. Sulla cima di ciascuno dei pochi altri colli in lontananza, altre rocche sbrecciate.

È terra dura, la stessa di cui qui sono fatte anche le case moderne. Terra che spunta fra l'erba e le condotte d'acqua bucate. Poi comincia il deserto. Sabbia giallo limoncello. Poi un colle isolato, che ne copre parzialmente alla vista uno più grande. In cima Ayaz kala. Maestoso, in una macchia di deserto. Due complessi, uno per ciascun colle. Il primo circolare come il maschio di un castello, o più come le teiere di roccia del deserto americano, il secondo molto più grande, una torta nella quale hanno tuffato il naso i cani. La si scala sotto il sole di mezzogiorno e per la prima volta in vita mia temo un colpo di sole. Sarà la temperatura, saranno i capelli che ho rasato a zero prima di partire. Qualcosa va lasciato sempre dietro. Stavolta i capelli. Vogliamo comunque scalare le pareti ripide e prive di sentieri, fino alla cima.

E ne vale la pena. Dal colmo del colle di Ayaz kala si osserva la straordinaria eterogeneità della natura uzbeca. Macchie di vegetazione di un verde giallastro crescono intervallate da aiuole di sterpi secchi fra la sabbia del deserto. Oasi nel mezzo di un deserto screziato di sabbia gialla, rossa, grigia. Dune isolate, pianura con un'acne di colli sormontati da fortezze. Solo dopo esserci spinti ai limiti del lato più a nord, vediamo un lago dalle rive salate con un accampamento di yurte che sembrano muffin. E a sud, forse il Turkmenistan, con confini invisibili fisicalmente, tracciati nel deserto dai geometri di Stalin che avevano dato ad uzbechi, tagichi, turcomanni, cazachi e chirghisi delle nazioni col loro nome, ma avevano scelto di mantenere per ognuna di esse una composizione il più possibile eterogenea, in modo da evitare che la coscienza etnica diventasse coscienza nazionale e minacciasse i confini sovietici.

L'intero panorama solo per noi, rotto solo a valle dalle macchine del nostro autista e di suo figlio, che conduce un gruppo di ragazzi polacchi che incontreremo poi di nuovo anche a Bukhara e Samarcanda. Non è un caso. Saranno diversi i viaggiatori che incroceremo ripetutamente. I turisti nell'Uzbekistan sono pochi e Khiva, Bukhara e Samarcanda sono tappe fisse, quindi si finisce sempre per incontrarsi di nuovo.

Fransia: Piàf, Catrìn Denòf, Depardié. Italya: coloseum, Pavarroti, piovra, Michele Placido.

E poi perdiamo il conto dei nomi dei kala. Non solo noi, ma anche l'autista sembra confonderli dopo un po'. Ma tutti hanno un segno distintivo. Uno è completamente ricoperto di fiori gialli, un altro è in pianura, sorge in mezzo a cretti grigiobianchi di argilla secca. Poi uno con mura quadrate, che proteggono un avvallamento che è diventato uno stagno enorme pieno di giunchi verdi. Alla fine, avanti e indietro da Boston, Karakalpakstan, ci spiegano, "bonus": un kala che non è nemmeno sulla carta, cresce in un campo e per vederlo dobbiamo trasgredire la proprietà privata di un contadino che si lava le mani in una pozza di acqua marrone e poi raccoglie per noi pugni di more da gelso. Dolcissime, un sapore che ricordavo dall'infanzia, dall'unico gelso che avessi visto prima di allora, che cresceva debole e a forma di attaccapanni nel giardino dei miei. Nessuno di noi starà male, segno che le mamme europee che rimproverano i figli quando si mettono le mani sporche in bocca e credono che tutto sia cancerogeno devono inventarsi i problemi, in assenza di ragioni valide per stare in pensiero. Il contadino ha un asino, un carro, un forno a betoniera per cuocere i samsa incollati alle sue pareti e diversi bozzoli di baco da seta, quelli risparmiati per la riproduzione.

Al ritorno l'autista decanta "Amu Darya", vediamo una distesa d'acqua, che sembra impossibile immaginare che si inabisserà nei prossimi 200 chilometri, e passiamo su di un ponte provvisorio, fatto di lastre di ferro saldate insieme, tenute in bilico su scafi di barche o un materiali galleggianti improvvisati. A fianco sorge il ponte vero e proprio, in costruzione. La guida Petit Futé di Lilù dice che il termine stimato per i lavori è il 2008, ma sembra che ci sia ancora molto da fare. Anche perché sembra che gli operai stiano lavorando più che altro a riparare il ponte provvisorio.

Abbiamo ancora una serata a Khiva. Ne approfitteremo per uscire ancora dalle mura, sempre con più coraggio. Domani mattina ci si alza presto, si cerca un taxi condiviso per Urganch, sperando che ce ne sia uno, poi se tutto va bene, se ne cerca un altro per Bukhara.


Nessun commento:

Posta un commento