venerdì 30 ottobre 2009

Nove gennaio: antefatto

Ma l’otto gennaio cade in un periodo infausto.
K sta male. Già in settembre avevo sottovalutato l’importanza per lei della perdita del nonno. Da quel punto le cose erano precipitate. In Germania una tesi di laurea può durare un anno. K aveva appena superato la metà. Dalle sue parti la vita si prende sul serio e lei si era forzata ad un ritmo da salariata, otto ore di studio al giorno.

Si può chiedere alla mente umana di fare più di quello che è in grado di tollerare, ma per assumere energia dove serve è necessario rilasciarla in altri punti. La fatica mentale dello studio aveva corroso la carne che isolava i sui nervi, esponendoli pericolosamente agli elementi esterni.

E io non capivo. Non capivo se erano i nervi o lei a parlare. Non capivo le accuse che mi venivano rinfacciate. La mia stupida mania di ragionare mi portava a discutere affermazioni che non avevano basi logiche. Là ho imparato che nessuno ha mai ragione o torto. Dipende tutto dal punto in cui si osserva. Il problema è solo quando si cambia punto di vista nell’arco di tre minuti.

E persistevo nel mio difetto, credere nel dialogo: discorsi di ore che non facevano che stremarci ulteriormente, soprattutto per chi doveva parlare la lingua dell’altro. In queste ore giravamo la verità, di solito dal nostro lato, ma anche da quello dell’altro, nei momenti di pentimento. Ma solo dopo ore la verità era dallo stesso lato per entrambi.

E si finiva sempre per fare la pace, al momento di lasciarci. Alla fermata di Harlemmermeerstation, alla stazione di Aalten, o la sera al computer, ci si lasciava sempre in concordia.

Il giorno prima di comprare il biglietto le chiedo cosa ne pensa. Ma qui non so come continuare. Io dico che mi aveva detto di andarci, a fare sto viaggio. Lei dice di no. La versione più probabile è che per quanto sia sicuro che ne abbiamo parlato, nessun Sì e nessun No siano stati spesi e il messaggio è uscito dalle incrinature causate da diversi modi di interpretare le implicazioni semantiche di frasi forse volutamente ambigue.

Per K la mia idea di partire è un affronto. È vero, non la porto con me, ma questo è perché a lei quel tipo di viaggio non interessa e se voglio fare un viaggio che a lei non interessa, il momento migliore è l'anno in cui lei avrà appena iniziato a lavorare e non avrà giorni di ferie da passare con me. Inoltre, dopo cinque anni a vedersi una volta ogni due mesi, non mi pongo neanche il problema per tre settimane di distanza.

E io non capisco le sue ragioni. Cè qualcosa che cerca di farmi capire, ma non riesco ad afferrare. Si vede che a volte è disperata perché vede che non afferro, ma io, per quanto ci provi, non riesco a farlo.

Ma poi arriva la laurea. K si calma, si trasferisce ad Amsterdam con me, trova subito lavoro e anche questi discorsi diventano meno frequenti. L'estate tonifica e anche le settimane prima del viaggio passano tranquille. Anche nei messaggi spediti e ricevuti nei primi giorni a Mosca si legge pace e concordia. E poi silenzio, fino a quel giorno, ad Ulan Bator.

lunedì 26 ottobre 2009

Otto gennaio: preambolo

Sul treno, la sera della partenza da Mosca per Irkutsk, sono pensieroso.
La stanchezza rende i pensieri più cupi, e io lo so che è solo colpa della stanchezza, cerco di convincerne il mio inconscio, ma non riesco ad allontanare la delusione.

Mi sento come se avessi sprecato del tempo. A Mosca abbiamo avuto solo due giorni e tre notti e abbiamo passato troppo tempo seduti per bar e locali, o nell’ostello.
La cosa ci sta, gli altri erano avvelenati, ma quello che veramente mi preoccupa è Olof. Ci frena, rallenta l’andatura, ci impone soste fastidiosamente frequenti, nei posti sbagliati, cerca la vita di casa sua.
Ci dice “ragazzi, la vacanza è fatta anche per rilassarsi". Non gli rispondo che se avessi voluto rilassarmi sarei andato al mare, ma trattenermi mi costa energia.

Tomas mi aveva avvertito un mese prima, dopo averlo reclutato. “Non so, l’anno scorso è venuto con noi al Nord, a vedere il sole di mezzanotte, ha portato delle scarpe di pezza che dopo dieci minuti erano inservibili. Quando eravamo in cammino era sempre cento metri indietro e a me toccava fare la spola fra lui e il resto del gruppo".

Olof ci racconta candidamente di essere stato ad un festival musicale ed aver visto due concerti in tre giorni, perdendosi il suo gruppo preferito perché era troppo stanco.

Sembra uno così, si butta nelle avventure per eliminare ogni carattere avventuroso, come uno che fa i 3000 metri siepi girando attorno agli ostacoli, o che si compra un cavallo, ma non si fida a cavalcarlo e lo tiene nella stalla, non si sa se per la gioia di guardarlo o per mostrarlo agli altri.

Olof si unisce un mese prima della partenza, mentre stiamo cercando qualcuno che parli russo. Olof non parla russo, ma l’anno scorso è stato a Pechino ed è rimasto affascinato. Ci è rimasto due giorni e dice che due giorni bastano, ma ci torna comunque volentieri.

Olof però è garbato, gentile, generoso, sempre tranquillo. Quando ha un'idea, cerca di fartela intuire prima di esporla. È l’elemento estraneo del gruppo e lo sa, lo ammette senza dirlo e il più delle volte lascia che siamo noi a decidere. Ci rallenta, ma ci frena anche dalla smania di fare tutto e niente. Col passare dei giorni si lascia coinvolgere sempre di più e non si lamenta mai se non si fa quello che vuole lui. Olof diventa subito Oleg, perché per pronunciare il suo nome servono una calma e una pazienza che solo lui ha. La O è una U lunghissima, che si ferma con una pausa, prima dello schiocco del "lof".

Olof ci salva la vacanza. Se l’ambasciata russa a Stoccolma non gli avesse imposto di presentare un itinerario e i biglietti, se non avessimo speso tutte quelle corone prima di partire, e fossimo andati all’avventura, come Tomas e io volevamo fare, probabilmente avremmo perso troppo tempo inseguendo biglietti, saremmo rimasti in scompartimenti separati e non avremmo potuto fermarci abbastanza in Mongolia o peggio, avremmo rischiato di perdere l’aereo.

Ma quella sera sono pensieroso, perché vedo in pericolo i piani di un anno, tutte le mie letture, gli studi, la preparazione.

È il 30 novembre dell’anno scorso quando Tomas viene a trovarmi ad Amsterdam.

Tomas e io ci conosciamo da sette anni. Ci siamo trovati in Erasmus, a Colonia, abbiamo cominciato a parlare una sera in un locale sulla Luxemburgerstraße e abbiamo capito subito di avere molto da raccontarci.

Tomas e io uniti siamo un generatore di idee inutili ma divertenti, come quando ci siamo presi una giornata intera per percorrere l’intero percorso della metropolitana terrestre di Colonia, muniti di due fusti di birra (Harald e Karl-Heinz), più come decorazione che con mire alcoliche e manifesti inneggianti all'impresa, coinvolgendo una quindicina di altri studenti.

In quei tre mesi prima che lui tornasse a casa non abbiamo avuto modo di frequentarci spesso, ma dopo l’Erasmus siamo riusciti a trovarci sempre un paio di volte all’anno, quasi sempre in luoghi diversi. È venuto in visita apostolica in tutte le tappe del pellegrinaggio dei miei studi, mentre io sono stato da lui in Svezia per un mese, prima a casa sua in un paese perso fra i boschi, poi mi ha accompagnato a Stoccolma, dove ho conosciuto Olof e ho dormito per una notte a casa sua, poi siamo saliti sulla sua Volvo cadente diretti verso la sua casa sul lago Vättern, per terminare nel suo appartamento di studente a Göteborg. Mi ha presentato alla sua nonna ricca e poco amata, ho scoperto più tardi, per disturbarla, passandomi tacitamente per il suo ragazzo.

Cafè Amsterdam, Ulan Bator

Il 30 novembre arriva ad Amsterdam in treno, dopo un mese in viaggio, traducendo al computer durante il viaggio per mantenere se stesso e le sue idee. Viene da un giro dell’Europa in treno, dalla Svezia alla Slovacchia per trovare sua sorella che studia Medicina in un paesino, a Roma da Nicola, alla stazione di Prato ha avuto 30 secondi per fare ciao ad Ilaria e Margherita, poi un pomeriggio a Parigi, Bruxelles e infine Amsterdam.

Quella sera usciamo a vedere un concerto, poi giriamo per i bar attorno a Leidseplein, beviamo birra belga, ma neanche troppo. Di sicuro è più l’euforia che l’alcol a portarci a pianificare il prossimo incontro. Escono nomi sparsi, Camerun, Patagonia, ma Tomas è entusiasta dell’idea del viaggio in treno. Nomina la Transiberiana e mi chiedo come ho fatto a non pensarci prima.

La risposta è semplice: ci ho pensato, ma non ho mai preso l’idea sul serio. Sembrava una cosa troppo grande, complicata, forse pericolosa.
Era una di quelle cose che si sognano, ma non si fanno mai. Ci si pensa, è bello sapere che è possibile, è un’ottima scappatoia per un giorno nel quale dovremo fuggire da qualcosa. È utile e dilettevole porsi un traguardo irraggiungibile. E poi, pensandoci bene, Novosibirsk e Ulan Bator non si sa nemmeno se esistano davvero.

Ma Tomas non è un sognatore e quando propone di fare qualcosa, lo intende davvero.

Chinatown, Amsterdam

A inizio gennaio, la depressione del periodo grigio dell’anno mi impone di fare programmi. Cerco voli a basso prezzo per l’Africa. Il 5 gennaio contatto Tomas con un paio di idee, ma lui ha già tutto programmato. Austrian Airlines, Amsterdam – Mosca, Pechino – Amsterdam. Il giorno dopo in ufficio non ho lavoro, lo contatto su Skype e compriamo i biglietti dal 29 agosto al 19 settembre, il massimo delle ferie che posso permettermi dal lavoro.

domenica 18 ottobre 2009

Fine agosto, inizio settembre

A Mosca, in una strada appena dietro la Piazza Rossa, vicino al centro commerciale GUM, si ferma una macchina sul bordo della strada, con la musica a palla. Roba che succede ogni giorno ovunque, poiché la prole dalla madre dei tamarri, si sa, è sparsa per il mondo. Ma in Russia, la signora, deve essersi data parecchio da fare. La canzone che tutta la via ha modo di apprezzare dice “voulez vous, voulez vous, voulez vous dancer”, anzi, è più un vullevù, perché il resto della canzone è in italiano.

Non è il momento migliore del viaggio. O meglio, per quanto mi riguarda potrebbe anche esserlo. È la mattina dopo una delle rare notti in cui sono riuscito a dormire quanto basta. Un toccasana dopo gli eccessi della prima notte e l’eccesso di zelo della prima sveglia, dopo le quattro ore di sonno della notte della partenza. Ho una fotografia con Tomas e me, alle 5 di mattina, alla partenza, sul treno fra Centraal e Schipol, la prima immagine del viaggio, la mia faccia scavata come doveva essere quella di qualche antenato negli anni in cui in Trentino si faceva la fame.

Devo aver avuto un aspetto migliore il giorno dopo, dopo 26 ore di veglia, ma in compenso la soddisfazione di alzarti in un letto non tuo, a migliaia di chilometri da casa, dopo una serata nei locali di Mosca, guidati dai più giovani impiegati dell’ambasciata svedese. Che poi non è che sia uno schiavo della vita notturna, ma a Mosca, direi, fa parte del gioco. Ti muovi, sei nettamente straniero. Non di faccia, io e i miei compagni potremmo tutti essere russi. Ma il modo di vestirsi, quello sì che fa diverso. Giri in discoteca e le ragazze ti guardano fisso negli occhi. Anche i ragazzi, ma è per sfidarti e allora meglio darsi sconfitti in partenza. Nei locali tutto costa relativamente poco, per un secondo ti assale la sindrome dell’oligarca, ma no, lascia che sia Tomas a comprare lo Шампaнское. “Che tristezza”, pensi, ma lo lasci fare, e un bicchierino se te lo passano lo butti giù anche tu, sempre a fare l’intellettuale da 0,99. Che schifo, lo sciampanskoe, alla Coop vendono di meglio.

Molto meglio la Sibirskaya Korona, lo si capisce al primo pasto. Ristorante self service, l’unico non etnico, foderato di legno e odore di cavoli. Guardano calcio inglese e ci vuole del tempo perché ti allunghino sti tre boccali. Tutto sa di casa cantoniera: in Russia si mangia male. Tranne al ristorante caucasico sull’Arbat. Кебаб di manzo per te, pollo e agnello per gli altri. Ma è quello il maggiore indiziato. La mattina dopo i due nordici hanno lo stomaco avvelenato. Per questo non è il momento migliore, per loro. Perché tu hai dormito anche il loro sonno, mentre loro torcevano tutti gli organi fra il torace e l’inguine, sapendo di non poter strizzare via il male. Perché tu la vuoi vedere, sta città, anche di giorno, li trascini al Cremlino e loro ci provano, di buona lena.

Comunque secondo me Oleg fa finta, di star male. Lui non propone a parole. Ma il suo sguardo è insistente, così Tomas, che è buono e coglione, glielo concede, e lo propone lui di andare allo Starbucks. Oleg si ciuccia mezzo litro di caffè e rinasce. Nel deserto della Mongolia, nella Città Proibita, periodicamente ricorderà quel caffè a costo europeo, allo Starbucks di Mosca. E periodicamente lamenterà ritorni del Male, ciucciandosi metà confezione delle mie pillole olandesi, un miracolo farmaceutico scoperto tardi.

Intanto, seduti alla caffetteria, la città abbiamo ancora da cominciare a vederla e sto perdendo la pazienza. Tomas anche e con la maggioranza ristabilita si attraversa di nuovo il fiume per tornare sulla Piazza Rossa. Sul ponte, la Moscova, le cupole d’oro come pomelli d’ottone, dall’altra parte un enorme palazzo, bianco, quadrato, con punte affusolate, probabilmente concepito da Stalin dopo aver letto Tolkien. La prospettiva coperta dal manifesto pubblicitario più grande che tu abbia mai visto, Il radiatore della BMW è in rilievo, metallo su carta. E dietro la schiena San Basilio, una giostra senza cavalli, rossa e bianca. Sola, isolata, piantata in mezzo alla piazza. Le torri del Cremlino e gli altri palazzi, rosso merlot, sono molto più alti e maestosi. Gli edifici bianchi sul lato esterno, di fronte alle mura violacee, sono spalti per turisti e intellighenzia. All’interno, il Cremlino, è Russia come si sapeva che la Russia sarebbe stata. Fredda di pareti bianche pulite, di architettura monumentale, pini siberiani. Un parco di meli. La piazza della catterale, bianche le pareti, bianco il pavimento, bianco tutto come solo in Novaja Zemlja, con cento pomelli d’ottone, che potrebbero essere minareti, moschee, case di gnomi. Bukhara, Teheran, Dersu Uzala. Il parlamento, il giallo uovo più freddo che ci sia, che col verde bianco e violaceo dei pini siberiani si accompagna con un pugno in un occhio. Fuori.

Il gusto dei russi si vede nel loro parco macchine. Un effetto opprimente di contegno dato dall’assenza di colori che non siano bianco, nero, alluminio. E dai fuoristrada spigolosi, Land Rover, Mercedes come quelli della polizia italiana, spesso corazzati. Spiccano, come macchie di sangue sul tuo lenzuolo bianco, le Lada antiche dei prolet, carrozzerie marinate al sole, spesso anche a colori, sbiaditi. Non pulite, non verniciate, non quadrate.

C’è un’eleganza, nei palazzi di Mosca, che non c’è in niente altro nel resto della città e ci si chiede da dove venga. Convive con l’esibizione della forza, anche nelle persone, con un’aura malinconica, romantica, delicata ma non decadente. È come un quadro di Seurat con piccoli punti rosa, ma anche verde e se guardi da vicino vedi il rosa e percepisci il verde, oppure da lontano vedi il verde e percepisci il rosa. Vedi uno e noti l’altro, ma devi usare due parti diverse del cervello per concepire entrambi.

Forse dico Seurat perché è al Pushkin. È il Pushkin che fatica ad esserci. Non c’è dove paghi il biglietto per entrare la prima volta. Hai sbagliato museo, ma un giro te lo fai, fra le proprietà confiscate ai nobili durante l’Ottobre. Mentre state per scappare per cercare il vero Pushkin prima che chiuda, la signora all’ultimo piano vi nota, si rallegra di vedere dei giovani, per lei automaticamente francesi, nonostante la mia profusione di “Italija”, racconta storie legate ai dipinti. Capisco solo “ballerina”. È un peccato. Solo lei non si arrende alle barriere linguistiche.

E per trovarlo, il vero Pushkin, ci vuole ancora un pezzo. C'è un altro Pushkin, più grande, con opere meno note di nomi più sonanti, ma a me interessano gli impressionisti. Ci passiamo davanti a ripetizione, all’entrata, ma nessuno vuole arrendersi all’idea che quella porta da studiolo conduca a cattedrali di Rouen, pranzi sull’erba e arazzi ricamati di Léger. Il gioco più divertente è decifrare i nomi degli artisti nei cartellini scritti in cirillico. Bан Гог, anyone?

Mi rallegra, il Pushkin. Non perché voglia fare quello sensibile che l’arte lo commuove davvero, ma è uno spazio intimo, pareti di colori caldi, luci gialle al tungsteno incandescente, paesaggi impressionisti, un soggiorno Tex-Mex. Il negozio di souvenir più piccolo di qualsiasi museo d’arte mondiale: un tavolone con sopra una decina di libri sgualciti, qualcuno anche in inglese. Una via d’accesso che è una corsia d’ospedale. E poi su per le scale e diventa questa specie di soggiorno con entrata ridotta per studenti.

È pieno di europei. Mentre nella Piazza Rossa i turisti erano cinesi, sudamericani, vietnamiti, arabi, al Pushkin si parla europeo. Solo chi ha ricordi piacevoli può ricordarsi del passato.

Quando guardo le icone, i miei compagni credono sia religione e mi guardano con l’espressione tollerante che hanno al Nord nei confronti di chi viene da paesi dove si fanno ancora quelle cose. Anche perché io per impressionarli ho detto che sono cattolico praticante. Invece è una specie di tributo a mia madre, che quando aveva tempo, le icone se le faceva da sola, con colori a olio e foglia d'oro. Le guardo anche per lei, che se glielo dico è contenta come se le avesse viste di persona. Voglio comprargliene una, ma non le trovi così, nei mercatini. Finisce che ne prendo una stampata, di plastica su compensato, di quelle che le anziane russe tengono in casa per pregare, per poi subito rendermi conto della sua tristezza. Come regalare il Tavernello a un sommelliere.

Mai vista una quantità di souvenir pari a quella delle bancarelle di Mosca. Qualsiasi cosa sovietica è culto, soprattutto se militare, spille, borracce, maschere antigas, caschi dei MiG, ma anche orologi squadrati, macchine fotografiche, indumenti invernali, matriosche orrende, magliette celebrative o meno, spille con stelle, falci e martelli, stemmi della Dinamo, dello Spartak, della Lokomotiv e del CSKA.

La seconda sera vogliamo andare a letto presto. Prima di mezzanotte siamo già all’ostello. Ma ci perdiamo già sulla porta. Ci sono un cinquantenne americano e una ragazza irlandese (“Did you see the Kremlin? I went there but I didn’t find the entrance, ended up just eating an ice cream”). L’americano gestisce l’ostello. Un tipo garbato, che con la gente ci sa fare, profilo quasi indiano americano, lunghi capelli bianchi, accento del Sud degli Stati Uniti talmente forte che lo individuo perfino io. Andiamo al minimercato a comprare birra. Ci racconta di aver fatto il Vietnam, gli ultimi 9 mesi, a Saigon, con l'ordine di richiamare all'ordine i soldati americani che si lasciavano attrarre dalle donne locali.

Sembra onesto, o forse è la sua abilità a raccontare che merita di essere pagata con la fiducia, ma gli americani vanagloriosi abbondano in ogni ostello. Solitamente cinquantenni, barba bianca, pieni di storie da raccontare. Per scoprire se raccontano la verità, basta contare quante delle loro storie parlano di furti, rapine, assalti, pistole. Sempre all’ostello a Mosca ne conosciamo uno che in un'unica traversata in treno è stato derubato (“he got my last 50$ out of my pockets, I go, you keep them dude, what can I do?") e assalito da un omosessuale messicano nel suo letto in terza classe ("I turned myself on my back and didn’t move all night”).

È incredibile quanta gente si trovi nella sala comune degli ostelli durante il giorno. Uno pensa che i turisti siano là per guardarsi in giro, a Mosca di solito ci si capita una volta nella vita, invece molti passano il tempo a sonnecchiare, bere birra, parlare con altri turisti o viaggiatori, addirittura guardare film. Non dirmi che Leon non te lo puoi guardare sul divano di casa, quando torni.

C’è questa coppia di ventenni inglesi. Passano il pomeriggio a sonnecchiare nella stanza comune (“Did you see the Kremlin? We went there, but it was too expensive, ended up here because we were tired”). Hanno sei mesi per raggiungere l’Australia in treno, partendo da Londra. Si fermano un giorno qua, mezza giornata là. Forse hanno un’agendina con i nomi dei posti dove sono stati per raccontarlo agli amici. Senza agendina rischierebbero di dimenticarsi qualche nome.

Più tardi passano i tedeschi. Un gruppo di almeno quindici tardoadolescenti. Io li ammiro i tedeschi, nessun altro sarebbe in grado di portare quindici ventenni attraverso la Siberia. Intanto loro fanno la fila all’angolo computer. Osservo gli schermi, tutti collegati a Facebook. Immagino che dopo la traversata uno possa avere diversi spunti per messaggi di stato memorabili. Come lo so che hanno fatto la traversata? Due o tre di loro hanno la maglietta con scritto I ♥ Novosibirsk, solo che al posto del cuore c’è il simbolo dell’Adidas. Potrebbero aver studiato ad Akademgorodok, là vicino, l'enorme città universitaria sovietica, ora apparentemente in declino. La mafia non investe in educazione.

È già l’ultimo giorno a Mosca, facciamo la spesa per il viaggio in un negozio dal sapore sovietico. Uno stanzone intonacato con scaffali con le merci, dietro ad un bancone a ferro di cavallo. Se vogliamo qualcosa, dobbiamo chiederlo alla cassiera, che ci tiene a farci sapere di essere tutt’altro che entusiasta all’idea di dover prendere un prodotto qua e uno là, dovendosi spostare di continuo. Copriamo te, pane, acqua, biscotti per quello di noi che non riesce ancora a fare colazione salata. I prezzi sono occidentali, ma anche i russi fanno la spesa là. Tornando all’ostello troveremo un supermercatino di tipo tradizionale, a prezzi più bassi e qualità migliore, ma ci accontenteremo di un po’ di pasta cinese istantanea e una bottiglietta di kvas.

Abbiamo solo il tempo di vedere il tramonto nel parco monumentale, aspettandoci di trovare busti di Lenin che sono stati epurati da un po’, camminare per una decina di minuti dalle parti dove abitano i russi e poi dobbiamo caricarci gli zaini sulle spalle e correre verso la stazione Yaroslavl per prendere il treno.

domenica 11 ottobre 2009

Due settembre

Però la prima sera, in treno, Irkutsk è ancora lontana e stappiamo Baltika e Sibirskaya Korona con le ragazze tedesche.

Due bottiglie a testa, mica bagordi, ché domani ci si sveglia presto per vedere gli Urali. Le ragazze hanno un gioco con tanti cartoncini con parole in russo. Sta a noi non favellanti provare a leggere il cirillico e loro devono interpretare la nostra lettura e indovinare il significato. U domina incontrastata. Forse anche per questo va avanti a giocare anche quando le altre si sono già stancate da un po’. Una di loro vorrebbe andare a letto e prova a sdraiarsi sulla cuccetta di sopra. Ma in treno la buonanotte è una prova corale e necessita di coordinazione. Comunque anche le altre sono sul punto di cedere e smettono di parlare inglese. Oleg rimane fuori da subito perché non capisce il tedesco, ma resta là, imperterrito, perché vedere gente e bere birra sono i motivi che lo hanno spinto a viaggiare e per una volta, timidamente, ha davanti a sé quello che vuole.

Gli unici a continuare l’improvvisato gioco più o meno educativo siamo io, Tomas e U. Il cartoncino passa nelle mie mani. Sta a me provare a decifrare il cirillico. U mi guida lettera per lettera e per indicarle appoggia le sue dita sulle mie, ci guardiamo negli occhi per un secondo, che termina con la mia bocca che si stringe in uno sguardo corrucciato, che dovrebbe spiegare il fatto che so quale sarebbe la prossima mossa da fare, ma non lo posso fare. Lei sembra capire. Sfumano così gioco e comunicazione, soprattutto con le altre, che nel piccolo della cuccetta hanno avuto modo di osservare il tutto.

In pochi minuti le tre sono tutte a letto. Nella prova corale, quando si è sul 3 a 1, l’Uno deve andarsene o adeguarsi. Per una volta è Oleg a risolvere la situazione. Si alza per andare a letto. Tomas lo segue e io vado con loro.
U trova che la solitudine non sia moneta per una chiacchierata e nei giorni successivi, alle fermate, ci si limita ad un saluto, per lei già di sé imbarazzante. L’ostracismo è vivido nella sua iride celeste.

Ma sul treno non saremo soli.

Un pomeriggio, non chiedetemi dove, parliamo fra di noi nel nostro vagone. Sto insegnando ai ragazzi qualche parola in italiano, di quelle che in teoria nessuno dovrebbe usare, ma è bene imparare presto quando si studia una lingua. La parolaccia non la scandisco in modo particolare, non la pronuncio isolata, ma solo all’interno di frasi nelle quali non viene accentuata particolarmente.
La porta dello scompartimento è aperta. Da un momento all’altro, senza averlo mai fatto prima, entra la bambina dello scompartimento vicino, di cinque o sei anni, inneggiando alla fellatio in italiano.

Sento i brividi della vergogna. Le dico qualcosa, la incoraggio a dimenticare. Ma lei è già scappata, per tornare due minuti dopo con una macchinina rossa. Mascìnchi! Ci dice. Io le dico Ferrari, Massa, Raikkonen, macchinina. A lei piace di più l'ultima. Da quel momento siamo nel radar di tutti i bambini del vagone. Tanti. Diventiamo un parcheggio di mascinchi. Loro sembrano capire fin dall’inizio che non parliamo la loro lingua e, mentre la bimba bionda dai capelli mai pettinati sfoglia le nostre guide, per indicare le figure ed insegnarci parole russe, l’amichetto timido sta dietro di lei e ripete affascinato l’equivalente nelle nostre lingue.

A Tyumen, la città più antica della Siberia, sale una signora. Entra nel nostro scompartimento e si accuccia sul letto superiore. Dormirà e leggerà fino ad Irkutsk, spandendo poche parole, con l’aria di chi è costretta, ma preferirebbe non farlo. Cerchiamo di non confermare il suo preconcetto sui turisti stranieri. I bambini invece vivono ancora con l’ora di Mosca e a mezzanotte sono a pieno regime, con le loro mascinchi a pieni giri per coinvolgere noi stranieri. Cerchiamo di indicare la signora che dorme, ma stavolta non capiscono, né si sforzano di farlo.

Entrano in scena i genitori, con un timido tentativo di mandarli a letto. Molto timido. I bambini litigano, la piccola silenziosa cade, apparentemente senza causa, ma in realtà spinta. Urla disperata, più per la perdita dell’onore che per il dolore, perché l’atto di viltà della bionda mai pettinata, fra l’altro decisamente più anziana della compagna di viaggio, è passato completamente inosservato fra i russi. Non per noi, ma non sapendo la lingua non ci viene concesso di fare giustizia.

La calma ci mette del tempo a ristabilirsi. Tomas e Oleg dormono insonorizzati dalla musica in cuffia, io, visto che ci siamo quasi, aspetto una mezz’ora sotto le coperte e scendo a Krasnoyarsk, per dire di esserci stato. Ma le stazioni contano come parte della città, o sono non-luoghi come gli aeroporti?

Propendo per la prima. Le stazioni, un po’ di personalità ce l’hanno. Oltre al fatto che dietro l’edificio principale si può scorgere la città, qualcosa lo raccontano sempre. Ci spiegano di cosa si vive, mostrandoci tramogge per il carbone, pianali per il legname o cisterne per il petrolio, ci parlano dei prodotti locali, con le babushche che vendono mirtilli, gamberi o solamente birra e gli indigeribili piroghi. Ci raccontano quanto il governo sovietico fosse disposto ad investire in una città. La stazione di Novosibirsk è sterminata, Irkutsk solo un’ansa sull’Angara. Nei paesi più piccoli non ci sono separazioni fra stazioni e centro abitato. Dietro ai chioschi dove scopriamo che la cioccolata può causare crisi da astinenza, si può entrare di persona fra le baracche disordinate e il grigio dei posti dove la gente non ha l’ambizione necessaria per curarsi di ordine o esteriorità.

Alla stazione di Krasnoyarsk non c’è niente, ma la struttura è grande, bianca, maestosa e stranamente così pulita da sembrare un aeroporto. Dopo una breve camminata nel freddo mi fermo all’esterno dei vagone e arriva il padre dell’unico bambino maschio. Stupito scopro che parla un po’ di inglese. Si chiama Nicolai, il padre, il bambino Gleb, lavora a Chita, il padre, in piena Siberia, ben oltre Irkutsk, sulla linea verso Vladivostok. Dice che suo fratello viaggia molto per lavoro, è stato anche in Italia, ma lui non è mai uscito dalla Russia, pur percorrendo spesso in treno una distanza superiore a quella fra Europa e America. È una persona modesta, gli manca quel fare da prevaricatore che i russi si sentono in dovere di mantenere anche nei rapporti amichevoli. Sembra una persona sensibile e mi racconta del suo lavoro nel settore petrolifero. Mi sembra di capire che sta scrivendo un manuale. Cito un tema caro ai russi, “oil, eh, money, no?”. Lui fa “no, eh, no, me no much money”. Sembra felice Nicolai, anche se sta tornando al lavoro, nell'est della Siberia.



Il giorno dopo, dopo qualche esitazione, Nicolai ci viene a trovare nello scompartimento, brandendo un telefonino con lo schermo graffiato. Sul telefono ha un paio di canzoni in italiano, me le fa ascoltare e si stupisce che io non le riconosca. È Celentano, e mi chiede di tradurgli i testi in simultanea. Anche Tomas sembra divertito, Oleg invece rimane imperscrutabile come sempre.

In Russia, di musica italiana dal sapore di anni Ottanta se ne sente molta.

lunedì 5 ottobre 2009

Quattro settembre

Quando quella sera, nel loro scompartimento, parliamo con le ragazze tedesche, pensiamo di continuo ad Irkutsk, perché l’inverno, là, beh, abbiamo come un presentimento.

Noi ci staremo solo un giorno e mezzo, alla fine troveremo interessante aver visto la Parigi della Siberia, ma ad essere onesti, ci sentiamo leggeri all’idea di non doverci trattenere.

Così come ci sentiamo leggeri appena scesi dal treno, anche con lo zaino in spalla, camminando dalla stazione verso la città, sul ponte sull’Angara. Muoversi fa piacere e l’aria è dolce come le caramelle al pino silvestre. Arriviamo al tramonto, col vento che spazza via il sole. L’alloggio lo abbiamo già, Oleg lo ha dovuto prenotare in anticipo, altrimenti non avrebbe potuto ottenere il visto per entrare in Russia. All’ambasciata non glielo volevano dare senza prove della sua permanenza e lui non ha capito che all’ambasciata russa, forse gli sarebbe bastato tornarci il giorno dopo e trovare un altro impiegato.

Ma ad Irkutsk, l’alloggio, è buona cosa averlo già. Ostelli pare che non ce ne siano molti, tutti stanno in famiglia. Anche noi in teoria, ma la signora, quando suoniamo alla porta, scende e ci porta ad un appartamento tutto per noi e a noi, a dire il vero, presi così e in quel momento, la cosa non dispiace di certo. Dopo quattro giorni sul treno sembra strano avere spazio per aprire le valigie.

La prima cosa da fare è la doccia. La prima da giorni, ma non ci è mancato per nulla, il quadrato di ceramica con la pioggia artificiale sopra. Nel treno la temperatura era perfetta per stare bene senza sudare. Le provodnizze gestivano l’aria da artiste del PH.

Poi Tomas e io mangiamo un pacchetto a testa di pasta cinese in brodo, mentre Oleg non butta giù cibo da giorni, ancora in preda all’avvelenamento moscovita. Usciamo a cercare lo spirito della città e un internet cafè. Ci è venuto in mente che forse, ora che mancano due giorni, è tempo di organizzare il viaggio in Mongolia e per farlo abbiamo bisogno di un collegamento con l’etere. All’improvviso sentiamo il bisogno di internet come non lo abbiamo sentito da giorni. Inoltre non mi dispiacerebbe avere notizie di K, che, con il silenzio dei telefonini, deve per forza avermi scritto un’e-mail.

Nonostante il vento, l’aria della sera sembra quella del mio paese ad ottobre, anche se un paio d’ore dopo è già novembre inoltrato. La notte è fredda, ma l’aria corre asciutta come il borotalco e l’odore delle piante non è uno stanco decotto estivo, ma sa di linfa, viva e balsamica. Profumo. Aria frizzante, dicono, che ci mette le bollicine in corpo.

Ma le bollicine si sgasano presto. All’angolo fra Ulizza Lenina e Ulizza Karla Marxa, zona universitaria, la via dei locali e della vita notturna, è tutto chiuso. È venerdì sera. I ristoranti sembrano tetri, vuoti e gli internet cafè segnalati sulla Lonely Planet danno l’idea di non esistere.

Andiamo a finire nella hall di un hotel a diverse stelle. Vogliamo chiedere di usare uno dei loro computer, ma all’interno, per caso, troviamo una sala attrezzatissima, dove si nasconde la gioventù della città a giocare a poker in rete. Inviamo dieci e-mail identiche a tutti gli operatori turistici di Ulaanbaatar indicati sulle guide e speriamo di mietere bene la sera successiva. K non ha ancora risposto, il che mi stupisce, ma le scrivo di rispondermi e conto che il giorno dopo lo farà.

Torniamo a casa e ci buttiamo a letto. Quella notte, senza il tuc tuc in sei ottavi del metronomo su rotaia, dormo fuori tempo e senza armonia, nel matrimoniale nero, con lenzuola scure e coperta nera a fiori viola.

Ma il giorno dopo si va sul lago Baikal e l’entusiasmo zittisce la stanchezza. Listvianka è a 70 chilometri da Irkutsk e il modo migliore per arrivarci è in autobus. Abbiamo provato ad organizzarci, ma la cosa sembra difficile: pare che ci siano due o tre corriere “ufficiali”, che partono la mattina presto. “Presto” in questo caso significa alle 9, ma le 9 di Irkutsk sono le 4 di Mosca. Dopo la colazione, la signora che ci ospita ci indica la strada per arrivare alla stazione delle corriere. Ovviamente Oleg vorrebbe andarci in taxi, ma sa che quando Tomas e io non lo ascoltiamo non c’è niente da fare e non insiste mai più di tanto. Però l’idea la butta sempre là, anche se sa che la risposta è no.

Camminando verso la stazione incontriamo la città, che, forse proprio perché è in mezzo alla via attraverso la Siberia, è lei stessa una via di mezzo. Si incontrano buriati dai tratti mongoleggianti e russi europei, ci si scontra con gli stili architettonici. Irkutsk è la prova della reale utilità dei piani regolatori urbanistici. Case di legno di sghimbescio, con pareti con angoli mai retti, di assi vecchie, non verniciate, ma con porte e finestre rifinite con cura, colorate e scolpite, intarsiate, come se l'esteriorità non valesse niente, ma la vita all'interno dovesse essere incorniciata nelle finestre. Le case di legno sono tutte diverse, darebbero un’atmosfera particolare alla città, se non fossero isolate, fra palazzoni sovietici, case in mattoni di stile sudeuropeo, imitazioni basate su di un’idea errata di funzionalismo. Stili mescolati, spesso compenetranti, mai in armonia. Passiamo per prima cosa per la piazza centrale, una spianata sovietica, che con il sole timido dell’est a mezza vigogna è una cartolina degli anni Settanta trasformata in realtà. Un’apertura verde, con panche e aiuole rosa, circondata da una strada enorme, impenetrabile, se solo il traffico fosse mai sufficiente a riempirla anche in parte. Tutto attorno, case di un giallo che vorrebbe essere asburgico, ma vira verso il canarino. In fondo si staglia quadrato, rigido, cinereo, sovietico, il palazzo del municipio, separato dalla piazza dalle strisce pedonali più lunghe che abbia mai visto, così lunghe che il semaforo per i pedoni diventa rosso a metà. Il palazzo copre il quartiere delle chiese, quelle ortodosse a pianta rettangolare con due cupole di altezza diversa alle estremità, sormontate da pennoni d’oro, una semplice, bianca con il tetto rosso e un’altra quasi identica, ma completamente affrescata all’esterno. C’è anche una cattolica, la prima in giorni di cammino su rotaia, per i polacchi. In mezzo alla piazza, da un pannello di metallo, raccogliamo il monito del simbolo della città: una pantera nera, con una volpe morta in bocca. Non è un posto facile, questo, ma la domanda è: “ci sono pantere nere in Siberia?” E infatti poi si scopre che è una tigre siberiana con problemi di pigmentazione, mentre la volpe è uno zibellino.

La stazione degli autobus è un piazzale di asfalto ritorto, pieno di minibus tipo Vanette di produzione autarchica. Dalla corriera ufficiale scende una ragazza inglese, che ci racconta che sta aspettando di partire da tre ore e comunque il mezzo è pieno e chissà quando ci si schioda. Meglio provare uno dei minibus, maxitaxi privati che partono quando sono pieni. Molti dei pochi mezzi che circolano in città sono minibus. Chi può permettersi un veicolo lo mette a disposizione della comunità per ripagarlo.

Sulla corriera incontriamo una coppia svedese, che avevamo già notato sul treno verso Irkutsk e incontreremo di nuovo a Listvianka, poi sul treno verso la Mongolia, a Ulaanbaatar in un ostello e in un negozio e sul treno verso la Cina. Sempre più scuri in volto appena ci individuano. Credevano, loro, di essere diversi dagli altri.

E il tratto di strada fra Irkutsk e il lago, dopo l’aeroporto dal quale spuntano le code dei MiG, è uno spettacolo di colori primari. Qui è autunno già da un po’, il bianco della corteccia delle betulle rende il rosso e il giallo delle foglie ancora più lucido, mentre il blu del cielo con il sole issato li completa e li llumina. Il sottobosco è rosso mattone come i licheni e i cespugli, verde scuro come erba che beve di continuo e grigio oleoso come l’acqua dei rivi che scorrono qua e là. La strada è dritta, ma sale e scende su colline che si chiamano montagne. In Russia tutto è più grande, ma le montagne, lasciamo perdere.

I passeggeri fanno cenni volutamente svogliati all’autista, per indicargli di fermarsi ai lati della strada per farli scendere. Questo non risponde mai, ma si ferma, roba che ti chiedi come si fa a sapere che ha capito la richiesta. Nessun ringraziamento viene speso nel corso dell’operazione: è importante mostrarsi sprezzanti. Magari vorresti dirlo, grazie, ma non si usa e poi l’altro potrebbe prenderlo come un segno di debolezza o sottomissione. Noi intanto osserviamo la foce dell’Angara, grigio perla come solo il blu più intenso sa essere. E poi il lago, che sembra un mare, che comincia direttamente ai piedi delle colline rotonde.

Scendiamo, ringraziamo l’autista e il vento ci sorprende subito. Erano mesi che non sentivamo un freddo così. Oleg si fermerebbe in un bar dopo l’altro, invece gli facciamo bastare quello di un negozietto di alimentari, con una veranda sul lago e bicchieri di cartone. Il caffè fa schifo, dice, mentre Tomas e io ci chiediamo cosa si fosse aspettato di trovare. Troviamo un mercato, dove compriamo l’omul, un pesce simile a una piccola trota che vive solo nel Baikal e che viene affumicato e consumato sul posto. Sarà la fame, ma è uno dei pesci più buoni che abbiamo mai mangiato.

Camminiamo lungo la riva, oltre il villaggio. Fuori dalle dacie di legno, spesso dipinte di blu, la gente affumica altro omul, offrendocelo in vendita. Ma noi abbiamo già avuto e ci arrampichiamo su una collina e sulle sue pendici di pini marittimi e funghi ci allontaniamo lungo il lago. Per il nostro ragazzo di città, che ovviamente ha le vertigini, è una tortura. Non lo abbiamo mai sentito invocare così tante volte l’idea di prendere invece un battello. Ma non si lamenta apertamente, propone solamente, e stavolta Tomas non ha intenzione di fermarsi.

Qua e là si trovano rive di ciottoli nascoste, piene di immondizia e resti di falò. Meglio stare verso l’alto, con pini isolati che sulle sommità resistono al vento. Al riparo dalle folate si sta bene, osservando i disegni che l’aria fa sull’acqua in basso, come se gli dei avessero deciso di soffiare per raffreddare il loro tè caldo.

Tomas è una di quelle persone che hanno in mente una lista di cose da fare assolutamete. Una è il bagno nel Baikal. Ma se già l’idea di privarsi di due strati di giacche fa paura, figuriamoci spogliarsi completamente e tuffarsi nell’acqua. Ma Tomas, come si diceva, è un uomo di solidi principi. Mi affida il suo telefonino con telecamera e si lancia. Sembra uno di quegli insetti con le zampe lunghe che si posano sul pelo dell’acqua. Salta in preda al terrore, cercando un punto con acqua abbastanza alta da immergersi, si butta, immerge anche la testa, poi libera un gemito e si fionda verso riva. Il tutto in meno di cinque secondi. Nel giro di due minuti è già vestito. Sopravvivere all’acqua gelata gli consentirà di non soffrire più il vento freddo per il resto della giornata.

Io immergo solo i piedi. Dicono che farlo regali cinque anni di vita. Il bagno intero ne darebbe 25, ma io mi accontento. In più faccio una pisciata: che gioia i riti pagani. Dopo la cerimonia dell’acqua ci incamminiamo verso il punto dove partono i minibus, fermandoci di nuovo al mercato ad immolare un omul a testa per merenda.

Poco prima di partire ci giriamo di nuovo verso il lago e ci accorgiamo di colpo delle montagne innevate che spuntano oltre il lago, lungo tutto il suo perimetro. Non riusciamo a capire come abbiamo potuto non accorgercene prima. Più tardi, anche nelle fotografie, le montagne saranno invisibili, forse confuse con le nuvole e l’acqua. E pensare che quando le notiamo sono così nitide.

Il programma per la serata è semplice: trovare un internet cafè per controllare le risposte dalla Mongolia e mangiare da qualche parte. Oleg vorrebbe vivere la vita notturna, ma il giorno successivo dovremo alzarci alle 4 per prendere il treno per Ulaanbaatar.

Ma i due semplici punti del nostro programma non sono così semplici, perché non si trovano internet café aperti, né ristoranti dall’aria interessante. Giriamo per ore senza meta, nel vuoto del sabato sera siberiano, citando spesso e volentieri le povere ragazze tedesche, che ci aspettiamo di trovarci di fronte da un momento all’altro. Il concetto di “ristorante russo” non esiste e dopo aver scartato fast food e ristoranti giapponesi, non senza proteste da parte di uno di noi, andiamo a finire dall’italiano.

Poi torniamo all’internet cafè del giorno prima. È mezzanotte. K non ha risposto, ma mi viene in mente che mi aveva annunciato che nel fine settimana sarebbe andata a Francoforte a trovare alcuni amici, quindi più che preoccuparmi, mi rallegro della fortunata soluzione del problema escursione in Mongolia, grazie ad un’e-mail ricevuta all’ultimo minuto.

Dormiamo le nostre tre ore, andiamo in stazione, saliamo sul treno e piombiamo nel sonno più profondo fino all'ora di pranzo. Ci svegliamo che le foreste si diradano, e l’autunno è arretrato di nuovo.