domenica 18 ottobre 2009

Fine agosto, inizio settembre

A Mosca, in una strada appena dietro la Piazza Rossa, vicino al centro commerciale GUM, si ferma una macchina sul bordo della strada, con la musica a palla. Roba che succede ogni giorno ovunque, poiché la prole dalla madre dei tamarri, si sa, è sparsa per il mondo. Ma in Russia, la signora, deve essersi data parecchio da fare. La canzone che tutta la via ha modo di apprezzare dice “voulez vous, voulez vous, voulez vous dancer”, anzi, è più un vullevù, perché il resto della canzone è in italiano.

Non è il momento migliore del viaggio. O meglio, per quanto mi riguarda potrebbe anche esserlo. È la mattina dopo una delle rare notti in cui sono riuscito a dormire quanto basta. Un toccasana dopo gli eccessi della prima notte e l’eccesso di zelo della prima sveglia, dopo le quattro ore di sonno della notte della partenza. Ho una fotografia con Tomas e me, alle 5 di mattina, alla partenza, sul treno fra Centraal e Schipol, la prima immagine del viaggio, la mia faccia scavata come doveva essere quella di qualche antenato negli anni in cui in Trentino si faceva la fame.

Devo aver avuto un aspetto migliore il giorno dopo, dopo 26 ore di veglia, ma in compenso la soddisfazione di alzarti in un letto non tuo, a migliaia di chilometri da casa, dopo una serata nei locali di Mosca, guidati dai più giovani impiegati dell’ambasciata svedese. Che poi non è che sia uno schiavo della vita notturna, ma a Mosca, direi, fa parte del gioco. Ti muovi, sei nettamente straniero. Non di faccia, io e i miei compagni potremmo tutti essere russi. Ma il modo di vestirsi, quello sì che fa diverso. Giri in discoteca e le ragazze ti guardano fisso negli occhi. Anche i ragazzi, ma è per sfidarti e allora meglio darsi sconfitti in partenza. Nei locali tutto costa relativamente poco, per un secondo ti assale la sindrome dell’oligarca, ma no, lascia che sia Tomas a comprare lo Шампaнское. “Che tristezza”, pensi, ma lo lasci fare, e un bicchierino se te lo passano lo butti giù anche tu, sempre a fare l’intellettuale da 0,99. Che schifo, lo sciampanskoe, alla Coop vendono di meglio.

Molto meglio la Sibirskaya Korona, lo si capisce al primo pasto. Ristorante self service, l’unico non etnico, foderato di legno e odore di cavoli. Guardano calcio inglese e ci vuole del tempo perché ti allunghino sti tre boccali. Tutto sa di casa cantoniera: in Russia si mangia male. Tranne al ristorante caucasico sull’Arbat. Кебаб di manzo per te, pollo e agnello per gli altri. Ma è quello il maggiore indiziato. La mattina dopo i due nordici hanno lo stomaco avvelenato. Per questo non è il momento migliore, per loro. Perché tu hai dormito anche il loro sonno, mentre loro torcevano tutti gli organi fra il torace e l’inguine, sapendo di non poter strizzare via il male. Perché tu la vuoi vedere, sta città, anche di giorno, li trascini al Cremlino e loro ci provano, di buona lena.

Comunque secondo me Oleg fa finta, di star male. Lui non propone a parole. Ma il suo sguardo è insistente, così Tomas, che è buono e coglione, glielo concede, e lo propone lui di andare allo Starbucks. Oleg si ciuccia mezzo litro di caffè e rinasce. Nel deserto della Mongolia, nella Città Proibita, periodicamente ricorderà quel caffè a costo europeo, allo Starbucks di Mosca. E periodicamente lamenterà ritorni del Male, ciucciandosi metà confezione delle mie pillole olandesi, un miracolo farmaceutico scoperto tardi.

Intanto, seduti alla caffetteria, la città abbiamo ancora da cominciare a vederla e sto perdendo la pazienza. Tomas anche e con la maggioranza ristabilita si attraversa di nuovo il fiume per tornare sulla Piazza Rossa. Sul ponte, la Moscova, le cupole d’oro come pomelli d’ottone, dall’altra parte un enorme palazzo, bianco, quadrato, con punte affusolate, probabilmente concepito da Stalin dopo aver letto Tolkien. La prospettiva coperta dal manifesto pubblicitario più grande che tu abbia mai visto, Il radiatore della BMW è in rilievo, metallo su carta. E dietro la schiena San Basilio, una giostra senza cavalli, rossa e bianca. Sola, isolata, piantata in mezzo alla piazza. Le torri del Cremlino e gli altri palazzi, rosso merlot, sono molto più alti e maestosi. Gli edifici bianchi sul lato esterno, di fronte alle mura violacee, sono spalti per turisti e intellighenzia. All’interno, il Cremlino, è Russia come si sapeva che la Russia sarebbe stata. Fredda di pareti bianche pulite, di architettura monumentale, pini siberiani. Un parco di meli. La piazza della catterale, bianche le pareti, bianco il pavimento, bianco tutto come solo in Novaja Zemlja, con cento pomelli d’ottone, che potrebbero essere minareti, moschee, case di gnomi. Bukhara, Teheran, Dersu Uzala. Il parlamento, il giallo uovo più freddo che ci sia, che col verde bianco e violaceo dei pini siberiani si accompagna con un pugno in un occhio. Fuori.

Il gusto dei russi si vede nel loro parco macchine. Un effetto opprimente di contegno dato dall’assenza di colori che non siano bianco, nero, alluminio. E dai fuoristrada spigolosi, Land Rover, Mercedes come quelli della polizia italiana, spesso corazzati. Spiccano, come macchie di sangue sul tuo lenzuolo bianco, le Lada antiche dei prolet, carrozzerie marinate al sole, spesso anche a colori, sbiaditi. Non pulite, non verniciate, non quadrate.

C’è un’eleganza, nei palazzi di Mosca, che non c’è in niente altro nel resto della città e ci si chiede da dove venga. Convive con l’esibizione della forza, anche nelle persone, con un’aura malinconica, romantica, delicata ma non decadente. È come un quadro di Seurat con piccoli punti rosa, ma anche verde e se guardi da vicino vedi il rosa e percepisci il verde, oppure da lontano vedi il verde e percepisci il rosa. Vedi uno e noti l’altro, ma devi usare due parti diverse del cervello per concepire entrambi.

Forse dico Seurat perché è al Pushkin. È il Pushkin che fatica ad esserci. Non c’è dove paghi il biglietto per entrare la prima volta. Hai sbagliato museo, ma un giro te lo fai, fra le proprietà confiscate ai nobili durante l’Ottobre. Mentre state per scappare per cercare il vero Pushkin prima che chiuda, la signora all’ultimo piano vi nota, si rallegra di vedere dei giovani, per lei automaticamente francesi, nonostante la mia profusione di “Italija”, racconta storie legate ai dipinti. Capisco solo “ballerina”. È un peccato. Solo lei non si arrende alle barriere linguistiche.

E per trovarlo, il vero Pushkin, ci vuole ancora un pezzo. C'è un altro Pushkin, più grande, con opere meno note di nomi più sonanti, ma a me interessano gli impressionisti. Ci passiamo davanti a ripetizione, all’entrata, ma nessuno vuole arrendersi all’idea che quella porta da studiolo conduca a cattedrali di Rouen, pranzi sull’erba e arazzi ricamati di Léger. Il gioco più divertente è decifrare i nomi degli artisti nei cartellini scritti in cirillico. Bан Гог, anyone?

Mi rallegra, il Pushkin. Non perché voglia fare quello sensibile che l’arte lo commuove davvero, ma è uno spazio intimo, pareti di colori caldi, luci gialle al tungsteno incandescente, paesaggi impressionisti, un soggiorno Tex-Mex. Il negozio di souvenir più piccolo di qualsiasi museo d’arte mondiale: un tavolone con sopra una decina di libri sgualciti, qualcuno anche in inglese. Una via d’accesso che è una corsia d’ospedale. E poi su per le scale e diventa questa specie di soggiorno con entrata ridotta per studenti.

È pieno di europei. Mentre nella Piazza Rossa i turisti erano cinesi, sudamericani, vietnamiti, arabi, al Pushkin si parla europeo. Solo chi ha ricordi piacevoli può ricordarsi del passato.

Quando guardo le icone, i miei compagni credono sia religione e mi guardano con l’espressione tollerante che hanno al Nord nei confronti di chi viene da paesi dove si fanno ancora quelle cose. Anche perché io per impressionarli ho detto che sono cattolico praticante. Invece è una specie di tributo a mia madre, che quando aveva tempo, le icone se le faceva da sola, con colori a olio e foglia d'oro. Le guardo anche per lei, che se glielo dico è contenta come se le avesse viste di persona. Voglio comprargliene una, ma non le trovi così, nei mercatini. Finisce che ne prendo una stampata, di plastica su compensato, di quelle che le anziane russe tengono in casa per pregare, per poi subito rendermi conto della sua tristezza. Come regalare il Tavernello a un sommelliere.

Mai vista una quantità di souvenir pari a quella delle bancarelle di Mosca. Qualsiasi cosa sovietica è culto, soprattutto se militare, spille, borracce, maschere antigas, caschi dei MiG, ma anche orologi squadrati, macchine fotografiche, indumenti invernali, matriosche orrende, magliette celebrative o meno, spille con stelle, falci e martelli, stemmi della Dinamo, dello Spartak, della Lokomotiv e del CSKA.

La seconda sera vogliamo andare a letto presto. Prima di mezzanotte siamo già all’ostello. Ma ci perdiamo già sulla porta. Ci sono un cinquantenne americano e una ragazza irlandese (“Did you see the Kremlin? I went there but I didn’t find the entrance, ended up just eating an ice cream”). L’americano gestisce l’ostello. Un tipo garbato, che con la gente ci sa fare, profilo quasi indiano americano, lunghi capelli bianchi, accento del Sud degli Stati Uniti talmente forte che lo individuo perfino io. Andiamo al minimercato a comprare birra. Ci racconta di aver fatto il Vietnam, gli ultimi 9 mesi, a Saigon, con l'ordine di richiamare all'ordine i soldati americani che si lasciavano attrarre dalle donne locali.

Sembra onesto, o forse è la sua abilità a raccontare che merita di essere pagata con la fiducia, ma gli americani vanagloriosi abbondano in ogni ostello. Solitamente cinquantenni, barba bianca, pieni di storie da raccontare. Per scoprire se raccontano la verità, basta contare quante delle loro storie parlano di furti, rapine, assalti, pistole. Sempre all’ostello a Mosca ne conosciamo uno che in un'unica traversata in treno è stato derubato (“he got my last 50$ out of my pockets, I go, you keep them dude, what can I do?") e assalito da un omosessuale messicano nel suo letto in terza classe ("I turned myself on my back and didn’t move all night”).

È incredibile quanta gente si trovi nella sala comune degli ostelli durante il giorno. Uno pensa che i turisti siano là per guardarsi in giro, a Mosca di solito ci si capita una volta nella vita, invece molti passano il tempo a sonnecchiare, bere birra, parlare con altri turisti o viaggiatori, addirittura guardare film. Non dirmi che Leon non te lo puoi guardare sul divano di casa, quando torni.

C’è questa coppia di ventenni inglesi. Passano il pomeriggio a sonnecchiare nella stanza comune (“Did you see the Kremlin? We went there, but it was too expensive, ended up here because we were tired”). Hanno sei mesi per raggiungere l’Australia in treno, partendo da Londra. Si fermano un giorno qua, mezza giornata là. Forse hanno un’agendina con i nomi dei posti dove sono stati per raccontarlo agli amici. Senza agendina rischierebbero di dimenticarsi qualche nome.

Più tardi passano i tedeschi. Un gruppo di almeno quindici tardoadolescenti. Io li ammiro i tedeschi, nessun altro sarebbe in grado di portare quindici ventenni attraverso la Siberia. Intanto loro fanno la fila all’angolo computer. Osservo gli schermi, tutti collegati a Facebook. Immagino che dopo la traversata uno possa avere diversi spunti per messaggi di stato memorabili. Come lo so che hanno fatto la traversata? Due o tre di loro hanno la maglietta con scritto I ♥ Novosibirsk, solo che al posto del cuore c’è il simbolo dell’Adidas. Potrebbero aver studiato ad Akademgorodok, là vicino, l'enorme città universitaria sovietica, ora apparentemente in declino. La mafia non investe in educazione.

È già l’ultimo giorno a Mosca, facciamo la spesa per il viaggio in un negozio dal sapore sovietico. Uno stanzone intonacato con scaffali con le merci, dietro ad un bancone a ferro di cavallo. Se vogliamo qualcosa, dobbiamo chiederlo alla cassiera, che ci tiene a farci sapere di essere tutt’altro che entusiasta all’idea di dover prendere un prodotto qua e uno là, dovendosi spostare di continuo. Copriamo te, pane, acqua, biscotti per quello di noi che non riesce ancora a fare colazione salata. I prezzi sono occidentali, ma anche i russi fanno la spesa là. Tornando all’ostello troveremo un supermercatino di tipo tradizionale, a prezzi più bassi e qualità migliore, ma ci accontenteremo di un po’ di pasta cinese istantanea e una bottiglietta di kvas.

Abbiamo solo il tempo di vedere il tramonto nel parco monumentale, aspettandoci di trovare busti di Lenin che sono stati epurati da un po’, camminare per una decina di minuti dalle parti dove abitano i russi e poi dobbiamo caricarci gli zaini sulle spalle e correre verso la stazione Yaroslavl per prendere il treno.

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