domenica 11 ottobre 2009

Due settembre

Però la prima sera, in treno, Irkutsk è ancora lontana e stappiamo Baltika e Sibirskaya Korona con le ragazze tedesche.

Due bottiglie a testa, mica bagordi, ché domani ci si sveglia presto per vedere gli Urali. Le ragazze hanno un gioco con tanti cartoncini con parole in russo. Sta a noi non favellanti provare a leggere il cirillico e loro devono interpretare la nostra lettura e indovinare il significato. U domina incontrastata. Forse anche per questo va avanti a giocare anche quando le altre si sono già stancate da un po’. Una di loro vorrebbe andare a letto e prova a sdraiarsi sulla cuccetta di sopra. Ma in treno la buonanotte è una prova corale e necessita di coordinazione. Comunque anche le altre sono sul punto di cedere e smettono di parlare inglese. Oleg rimane fuori da subito perché non capisce il tedesco, ma resta là, imperterrito, perché vedere gente e bere birra sono i motivi che lo hanno spinto a viaggiare e per una volta, timidamente, ha davanti a sé quello che vuole.

Gli unici a continuare l’improvvisato gioco più o meno educativo siamo io, Tomas e U. Il cartoncino passa nelle mie mani. Sta a me provare a decifrare il cirillico. U mi guida lettera per lettera e per indicarle appoggia le sue dita sulle mie, ci guardiamo negli occhi per un secondo, che termina con la mia bocca che si stringe in uno sguardo corrucciato, che dovrebbe spiegare il fatto che so quale sarebbe la prossima mossa da fare, ma non lo posso fare. Lei sembra capire. Sfumano così gioco e comunicazione, soprattutto con le altre, che nel piccolo della cuccetta hanno avuto modo di osservare il tutto.

In pochi minuti le tre sono tutte a letto. Nella prova corale, quando si è sul 3 a 1, l’Uno deve andarsene o adeguarsi. Per una volta è Oleg a risolvere la situazione. Si alza per andare a letto. Tomas lo segue e io vado con loro.
U trova che la solitudine non sia moneta per una chiacchierata e nei giorni successivi, alle fermate, ci si limita ad un saluto, per lei già di sé imbarazzante. L’ostracismo è vivido nella sua iride celeste.

Ma sul treno non saremo soli.

Un pomeriggio, non chiedetemi dove, parliamo fra di noi nel nostro vagone. Sto insegnando ai ragazzi qualche parola in italiano, di quelle che in teoria nessuno dovrebbe usare, ma è bene imparare presto quando si studia una lingua. La parolaccia non la scandisco in modo particolare, non la pronuncio isolata, ma solo all’interno di frasi nelle quali non viene accentuata particolarmente.
La porta dello scompartimento è aperta. Da un momento all’altro, senza averlo mai fatto prima, entra la bambina dello scompartimento vicino, di cinque o sei anni, inneggiando alla fellatio in italiano.

Sento i brividi della vergogna. Le dico qualcosa, la incoraggio a dimenticare. Ma lei è già scappata, per tornare due minuti dopo con una macchinina rossa. Mascìnchi! Ci dice. Io le dico Ferrari, Massa, Raikkonen, macchinina. A lei piace di più l'ultima. Da quel momento siamo nel radar di tutti i bambini del vagone. Tanti. Diventiamo un parcheggio di mascinchi. Loro sembrano capire fin dall’inizio che non parliamo la loro lingua e, mentre la bimba bionda dai capelli mai pettinati sfoglia le nostre guide, per indicare le figure ed insegnarci parole russe, l’amichetto timido sta dietro di lei e ripete affascinato l’equivalente nelle nostre lingue.

A Tyumen, la città più antica della Siberia, sale una signora. Entra nel nostro scompartimento e si accuccia sul letto superiore. Dormirà e leggerà fino ad Irkutsk, spandendo poche parole, con l’aria di chi è costretta, ma preferirebbe non farlo. Cerchiamo di non confermare il suo preconcetto sui turisti stranieri. I bambini invece vivono ancora con l’ora di Mosca e a mezzanotte sono a pieno regime, con le loro mascinchi a pieni giri per coinvolgere noi stranieri. Cerchiamo di indicare la signora che dorme, ma stavolta non capiscono, né si sforzano di farlo.

Entrano in scena i genitori, con un timido tentativo di mandarli a letto. Molto timido. I bambini litigano, la piccola silenziosa cade, apparentemente senza causa, ma in realtà spinta. Urla disperata, più per la perdita dell’onore che per il dolore, perché l’atto di viltà della bionda mai pettinata, fra l’altro decisamente più anziana della compagna di viaggio, è passato completamente inosservato fra i russi. Non per noi, ma non sapendo la lingua non ci viene concesso di fare giustizia.

La calma ci mette del tempo a ristabilirsi. Tomas e Oleg dormono insonorizzati dalla musica in cuffia, io, visto che ci siamo quasi, aspetto una mezz’ora sotto le coperte e scendo a Krasnoyarsk, per dire di esserci stato. Ma le stazioni contano come parte della città, o sono non-luoghi come gli aeroporti?

Propendo per la prima. Le stazioni, un po’ di personalità ce l’hanno. Oltre al fatto che dietro l’edificio principale si può scorgere la città, qualcosa lo raccontano sempre. Ci spiegano di cosa si vive, mostrandoci tramogge per il carbone, pianali per il legname o cisterne per il petrolio, ci parlano dei prodotti locali, con le babushche che vendono mirtilli, gamberi o solamente birra e gli indigeribili piroghi. Ci raccontano quanto il governo sovietico fosse disposto ad investire in una città. La stazione di Novosibirsk è sterminata, Irkutsk solo un’ansa sull’Angara. Nei paesi più piccoli non ci sono separazioni fra stazioni e centro abitato. Dietro ai chioschi dove scopriamo che la cioccolata può causare crisi da astinenza, si può entrare di persona fra le baracche disordinate e il grigio dei posti dove la gente non ha l’ambizione necessaria per curarsi di ordine o esteriorità.

Alla stazione di Krasnoyarsk non c’è niente, ma la struttura è grande, bianca, maestosa e stranamente così pulita da sembrare un aeroporto. Dopo una breve camminata nel freddo mi fermo all’esterno dei vagone e arriva il padre dell’unico bambino maschio. Stupito scopro che parla un po’ di inglese. Si chiama Nicolai, il padre, il bambino Gleb, lavora a Chita, il padre, in piena Siberia, ben oltre Irkutsk, sulla linea verso Vladivostok. Dice che suo fratello viaggia molto per lavoro, è stato anche in Italia, ma lui non è mai uscito dalla Russia, pur percorrendo spesso in treno una distanza superiore a quella fra Europa e America. È una persona modesta, gli manca quel fare da prevaricatore che i russi si sentono in dovere di mantenere anche nei rapporti amichevoli. Sembra una persona sensibile e mi racconta del suo lavoro nel settore petrolifero. Mi sembra di capire che sta scrivendo un manuale. Cito un tema caro ai russi, “oil, eh, money, no?”. Lui fa “no, eh, no, me no much money”. Sembra felice Nicolai, anche se sta tornando al lavoro, nell'est della Siberia.



Il giorno dopo, dopo qualche esitazione, Nicolai ci viene a trovare nello scompartimento, brandendo un telefonino con lo schermo graffiato. Sul telefono ha un paio di canzoni in italiano, me le fa ascoltare e si stupisce che io non le riconosca. È Celentano, e mi chiede di tradurgli i testi in simultanea. Anche Tomas sembra divertito, Oleg invece rimane imperscrutabile come sempre.

In Russia, di musica italiana dal sapore di anni Ottanta se ne sente molta.

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