giovedì 18 febbraio 2010

Sempre dal tredici al diciannove settembre, ancora per le vie di Pechino

Più tardi, quando a casa riguardo le fotografie di Pechino, mi rendo conto di non aver convertito in pixel niente di importante. Monumenti: solo dettagli di monumenti fintoveri. Tien An Men, la città proibita, rossa, verde, blu, coperta dalla foschia grigia dello smog, che ai tempi delle dinastie non c’era, che altrimenti magari i colori se li sarebbero risparmiati. Ma non la zona circostante, non i taxi fumiganti o la fila per vedere la mummia di Mao. Il Palazzo d’estate, ma non l’area derelitta dove ci perdiamo al ritorno, cercando di attraversare l’enormità in un autobus gremito di bambini in tuta ginnica coordinata e desistendo alla fine per trovarci isolati in un’area diroccata. Il Tempio dei lama, ma non la strada giallorossa, tinta di bancarelle che vendono incenso. Perdo Dongzhimen street, la strada dei ristoranti, di notte, illuminata di luci arancioni. Spesso i dettagli mi sfuggono, ma di solito è pudore. Non fotografo le case decrepite per rispetto verso chi ci abita. Pudore, appunto, non rispetto, perché so che se avessi la certezza che nessuno mi possa vedere, il diaframa si aprirebbe di colpo in scatti continui, come palpebre disturbate da impurità provenienti dall’esterno.

E dire che i cinesi di pudore non ne provano. Nei luoghi di turismo l’europeo è una curiosità. Le nostre barbe, bionda, rossa e nera come la bandiera della Germania, richiamano paesi esotici dove la gente ha capelli e occhi di colori diversi (e poi magari nota la diversità solo nella pelle). Ci chiedono di essere fotografati con loro. Anche allo zoo, davanti alla gabbia dell’orso. Non l’orso, ma l’umano. Le ragazze si mettono in pose da Club Topolino, con le braccia incrociate davanti al petto e le dita a formare il segno della vittoria.

Ma a Pechino, lo ammetto, ci concediamo anche noi momenti di turismo becero. Olof si scatena e noi non abbiamo la forza di contrastarlo. Ci porta al mercatino dei falsi. Ci passiamo una giornata. Compro un vestito di presunta seta per K e mi basta così. Mentre gli altri spendono ore a farsi convincere a comprare quattro camicie invece di una sola, il mio unico divertimento è farmi filmare mentre percorro il corridoio fra le bancarelle e vengo placcato da decine di venditori. Non che mi rifiuti di comprare imitazioni, semplicemente non mi è mai piaciuto girare con il nome di una marca sul petto. Il fatto che sia un falso non cambia nulla.

Ma è proprio qui che facciamo una delle esperienze più vere. Fra la stazione della metropolitana e il Mercato delle Perle, dopo esserci per una volta ribellati a Olof che vuole un caffè in un locale per soli turisti, ci perdiamo fra le vie più strette, quelle con l’immondizia in terra, le porte di assicelle e il cemento che copre un intreccio di altre assicelle, cartone e plastica: le vie dove abita la gente comune. Anche qui bar e camioncini che vendono varietà impressionanti di tè freddi. Ne assaggio uno affumicato, di sapore agrodolce, di whiskey analcolico, ma ce ne sono molti altri, decisamente più freschi e buoni di quelli che si vendono in Europa. Spesso sono fatti semplicemente di acqua e tè, o almeno così sta scritto sul riquadro in inglese dell’etichetta.

A Pechino andiamo a vedere i panda, perché Olof dice “che fai, vai a Pechino e non vedi i panda?” e stavolta il connazionale è d’accordo. Allo zoo il panda non c’è, ma c’è una porta aperta. Tomas entra e noi dietro. Corridoi sporchi, poi sbarre e ce lo troviamo davanti così, il nostro primo panda, in posa come il simbolo del WWF, con lo sguardo triste e pensieroso. È una scena irreale, come aprire una porta e trovarsi davanti qualcuno che conosci, ma non ti aspetti, come un George Clooney con un cordiale in mano, solo con la barba di un po’ più di tre giorni e più capelli bianchi. Poi usciamo e gli altri panda li vediamo come tutti, dalla distanza, perché allo zoo di Pechino il panda è garantito, anche perché se no chi ci va? Fanno i turni, i panda. Quando uno riposa, ci pensano gli altri ad esibirsi ai turisti, tutti concentrati là, nessuno che degni di attenzione le altre sezioni dello zoo, forse il territorio più selvaggio del centro cittadino. È un peccato, pensiamo, che il nostro panda non era l’unico. Sarebbe stato molto più avventuroso se l’unico panda lo avessimo visto noi, trasgredendo i limiti di una delle zone ad accesso limitato della capitale della potenza cinese.

Ma c’è comunque spazio per l’avventura: mangiando. E sulla sperimentazione culinaria, almeno all’inizio, è d’accordo anche Olof. Non seguiamo le indicazioni delle guide, perché i ristoranti sono ovunque. In sei giorni mangiamo qua e là, quasi a caso, e tutte le volte, non solo i piatti sono completamente diversi, ma anche il concetto gastronomico stesso lo è. Ristoranti cinesi come quelli che conosciamo, ma invece di ordinare un piatto per ciascuno, si ordina in comune e si condivide tutto. Negozi di ravioli ripieni, cene di gamberi, pentole riscaldate per fondute con carne di ogni genere, un locale dove tutto viene servito su di un tappeto spesso tre centimetri di peperoncini minuscoli, insalaterie dove ci portano una zuppiera piena di qualsiasi cosa richiediamo e dove un telefonino con dizionario incorporato ci salva la vita. In ogni caso si mangia sempre bene. A pochi chilometri dall’hotello scopriamo Dongzhimen inner street, una via fatta solo di ristoranti, una fila lunghissima di lanterne arancioni, un effetto spettacolare. Siamo gli unici occidentali ed è qui che termineremo la maggior parte delle nostre serate.

Ogni volta però ci accompagna il timore tutto occidentale di trovarci davanti un piatto con qualcosa di disgustoso. Ed è un pericolo reale. Quando siamo fortunati troviamo un menù illustrato e riusciamo ad evitare viscere di ogni genere, meduse e cuori d’animale. Il cervello invece no, non possiamo escludere che quella cosa che assaggiamo la prima sera, in una salsa che sa di cioccolato e caffè, non sia stata in grado di pensare quando l’animale che la conteneva era vivo. Il fatto è che è così buona che solo dopo aver pagato il conto osiamo esporre il nostro sospetto.

Dopo mangiato ci si perde con senno, nel senso che in una città così grande è concesso perdersi anche cercando di seguire una mappa. Il sabato sera, dopo una lunga cena, seguiamo Dongzhimen street in linea retta, attraverso la zona dove i cinesi escono la sera. A Pechino si vive una vita collettiva e i bar sono ovunque, ma in questa zona non sono semplici e spartani come vuole lo stile del Grande balzo in avanti, ma curati, con decorazioni, temi e motivi. Tutto solo in cinese, tutto incomprensibile. Il sabato sera dovrebbe essere una via trafficata, ma è talmente enorme che camminiamo comunque quasi soli. Poi ci si para davanti un moloch che non riusciamo ad includere completamente nel quadro della nostra vista, un tempio che sembra una fortezza e ha l’onore dell’unica curva sul tracciato della via. Non è un tempio, ma la Torre del tamburo. Da questo punto in poi il numero dei locali aumenta, più rumorosi, meno particolari e più occidentaleggianti. Nel momento in cui ci sediamo per prendere una birra tutti i locali si svuotano all’improvviso. È mezzanotte, siamo sul terrazzo di una birreria americaneggiante, soli di fianco a due cinesi seduti ad un tavolo coperto di bottiglie vuote. Uno cade in coma etilico davanti ai nostri occhi. I camerieri, nervosi e indisponenti, lo adagiano su di una panca appena dietro l’ingresso. Quando ce ne andiamo, dopo una mezz’ora, è ancora là disteso come una salma, e potrebbe esserlo, una salma, per quanto ne sappiamo. Noi invece siamo soli per strada, inseguiti dai soliti tipi che ci invitano nei lady bar, con Olof che ogni tanto butta là timidamente e con attenti giri di parole l'idea di abboccare.

Gli occidentali sono pesci che si muovono a banchi. Non li vedi, sembra che non ci siano, nemmeno nella maggior parte dei posti citati sulla Lonely Planet. Poi li trovi tutti allo stesso posto. Tutti europei al musical di plastica, si era detto, sciami di capelli biondi e punti di azzurro fra gli occhi che costituiscono il panorama umano della Città proibita, del Palazzo d’estate e del tempio dei Lama, oltre ovviamente alla metà della popolazione del Banana Club, intenti a perseguire le grazie dell’altra metà degli avventori.

Gi europei del tempio Lama sono divertenti: figli del polline, hippy moderni, gente spirituale, appassionati di filosofia orientale. Si dilungano in gesti importanti quanto insignificanti ai fini della conservazione biologica. Inchini, inginocchiamenti, congiungimento di mani. I cinesi lo fanno con sguardi normali, quotidiani, come un europeo a messa. L’occidentale lo fa conscio di compiere un gesto importante, con uno sguardo mistico, sentendosi sicuro e probabilmente giusto, spirituale, sensibile, sentendosi a casa in un paese straniero perché cerca di adottarne le usanze.

Il tempio però è uno dei punti più belli della città. I motivi decorativi, l’architettura in padiglioni di legno, sono molto simili a quelli della Città proibita, ma hanno allo stesso tempo qualcosa di diverso. Un tema rosso e giallo, zafferano e peperoncino, colori naturali come spezie, vasche per bruciare l’incenso, sculture religiose. Particolari. Il corridoio sopraelevato fra due padiglioni, una pietra nera incisa, piante con frutta matura.

All’esterno, in una via completamente tinta del giallo e rosso dell’incenso in vendita, troviamo un negozio di tè. A casa bevo regolarmente tè cinese, mentre leggo o mi riposo. È una delle poche cose che mi consentono di concentrarmi, per pochi minuti, su una cosa o nulla, invece che su tutto allo stesso tempo, come sono solito fare. In Cina mi sono ripromesso di ravvivare le scorte. Lo farò, ma non qui. Qualche sera più tardi ci perderemo ancora nei labirintici hutong. Ci perderemo ancora con coscienza, perché labirintici sì, ma ognuno di loro è chiuso in un’area quadrata delimitata da strade regolari e riconoscibili sulla mappa. Negli hutong troveremo altri palazzi derelitti, altri bagni pubblici, attrezzi ginnici pubblici in aree aperte e una bottega di tè minuscola. Il gestore ci accoglie con garbo e leggero disagio. Assaggiamo, compriamo tè per il valore di una giornata di lavoro cinese. Quando il gestore sta per porgerci i nostri acquisti, la moglie gli strappa di mano il sacchetto di plastica, lancia un’occhiataccia a lui e un sorriso a noi e mette tutto in buste da regalo di carta resistente.

Sarà difficile ritrovare la via, ma ce la faremo quasi senza mappe. È l’ultima sera, Olof è volato via la mattina presto, Tomas e io abbiamo preso il pullman dell’hotello per vedere la Grande muraglia. Sul pullman, il fatto che fra noi parliamo tedesco ha destato la curiosità di una coppia tedesca e abbiamo passato la giornata con loro. Ragazzi dell’Est, nati troppo tardi perché la parata militare possa destare in loro ricorsi e ricordi. Perché la città è tappata. Tutte le vie sono chiuse per una sfilata di carri. Armati. E comunque armati finché vuoi, ma a me viene in mente la Love Parade, con mimetizzazioni pixellate dal blu al bianco, ruote con la banda bianca come le Cadillac degli anni Cinquanta. Nulla di particolarmente austero e militare. Da una parata militare in Cina ti aspetteresti chissà cosa, invece vedere un affare di ferro sfilare sotto l’insegna del McDonald’s non richiama certo, per quanto io mi sforzi, piazza Tien An Men, 1989, io dall’alto dei miei nove anni continuavo a chiedere a mia madre perché sti scemi provavano a fermare i carri con le mani, se sapevano che non ci sarebbero riusciti.

È stato là che abbiamo iniziato a perderci, dopo aver comprato dei litchi che non erano un gran che, alla faccia del fatto che le cose sono più buone quando le prendi alla fonte (sarà che il centro di Pechino proprio puro come una fonte non è). Arriviamo, a piedi, alla via dei ristoranti, mangiamo e già là comincio a sentirmi debole. La stanchezza mi prende di colpo, sento cose che non avevo sentito prima, nei giorni precedenti. Sento lo smog, il caldo umido, le notti troppo brevi, il sapore insopportabile del liquore di riso. Sento l’aria condizionata della stanza, la mattina dopo, mentre esco dalla doccia prima di prendere l’aereo per tornare a casa, ad Amsterdam, da K.

Ma è solo l’inizio.

domenica 7 febbraio 2010

Dal tredici al diciannove settembre, per le vie di Pechino

Pechino è un dato di fatto. Arrivarci in treno, con una preparazione di settimane, cancella completamente l’effetto shock. Anche il treno ormai è un dato di fatto. Ti scarica in un posto completamente diverso da quello dove sei salito. E forse è perché non ci credi, che da là non ripartirai, che non senti nulla di strano.
Meglio così, nessun sentimento eroico, messuna aria di impresa. Si scende e basta. La stazione è come quelle europee, con cartelli in cinese, ma quelli ci sono anche a Zeedijk.
Abituati alle basse densità abitative, quando il treno ci snocciola come piselli pronti per il minestrone, ci si perde immediatamente cercandosi, come al ritorno dalla gita scolastica, tutti stanchi e diretti a casa senza pazienza per i convenevoli. Oghi cerca di scappare, io riesco a fermarla e dirle ciao, gli altri neanche quello. È la folla cinese la più grande differenza rispetto alla Mongolia. Porta via gente, al punto che devi scegliere solo un paio di persone da salutare. Gli altri ciccia.

A Pechino ci togliamo le giacchette, appena usciti dalla stazione. I palazzi sono moderni, impersonali, grigi. Fraintendendo l’alfabeto, uno direbbe di essere in Giappone. La strada di fronte a noi è così lunga da terminare dove comincia l’orizzonte. Per arrivare all’ostello camminiamo fra due pareti di palazzi, come Mosè alla traversata del Mar Rosso. Ci abitueremo a farlo. La geometria stradale di Pechino è regolare. Cardo e decumano, termini latini che oggi descrivono Pechino e New York. Le strade in senso longitudinale sono ampie, sbocciano di banche, ristoranti decorati, negozi di oggetti, farmacie, minimercati. Quelle in senso latitudinale, come quella del nostro ostello, sono il retrobottega della città, disordine, miscela eterogenea di cemento e draghi impietriti, pezzi di materiale refrattario impilati. È qui che la geometria lascia il posto al caos. Ognuno vive in un capanno per attrezzi. Mattoni a grappoli, frammisti a lamiera, cemento, compensato, carta, anticaglie riconvertite a scopi funzionali e non decorativi. Ovunque si sente il piscio, più umano che animale. Nessuna casa ha un bagno e quelli pubblici sono frequenti, ma mai quanto basta.

A Pechino c’è molto da girare. In taxi, perché costano nulla e la città è enorme. I taxi tutti con la pubblicità dietro al sedile dell’autista, con scritto “enjoy the luxury experience of breast augmentation”. Il bello è che in tre ce ne accorgiamo solo all’ultimo giorno. Altre volte si gira in metropolitana, nuova, pulita, bianca, grigia e rosa, con treni frequenti e barre antisuicidio. Vuota. A piedi si fa poco e ci si perde, ma è bene camminare. Incredibile come in un posto così noioso e fatiscente si trovino così tanti spunti visuali. È girando per la città, a sud-est del centro, che ci si accorge della differenza fra povertà e miseria. Se sei povero puoi comunque essere felice, come in Mongolia, le tende vuote ma belle, i pochi elementi costitutivi decorati accuratamente a mano. La povertà ammette il tempo libero per curare l’esteriorità, la qualità della vita, oltre alla sopravvivenza. La miseria è quella dei cinesi, ai quali Mao ha levato la cultura a nome del progresso, costretti a vivere in capanne che sembrano serre bucate perché non conoscono standard di vita migliori. La povertà colpisce le tasche, la miseria raggiunge il cuore e lo stomaco.

Sei giorni inverosimili. Sento di aver raggiunto quello dal quale volevo scappare. Nella Città proibita, nel Palazzo d’estate, architettura bellissima, colori, gusto decorativo, ma un'impressione di falso, di made in China nel senso in cui lo si immagina in Europa. Una storia dimenticata. Ricostruirla è l’unico modo per provare che sia realmente esistita. Anche se a volte è necessario tappare le falle con fatti di cartapesta. La Grande muraglia, di pietre squadrate perfettamente, tenute insieme col cemento. Una scarpinata fino in cima e poi per scendere c’è lo scivolo.
Anche Mao, nel suo mausoleo, sembra finto. A vederlo lo scambieresti per Berlusconi, o per una di quelle maschere da carnevale con la faccia di Berlusconi.

Il mausoleo coi suoi fiori gialli in vendita a cinesi in fila ordinata, orgogliosi dell’uomo che li ha portati di colpo nella modernità, che ha trasformato Pechino in una città industriale, moltiplicando la popolazione, senza aumentarne le dimensioni. Per essere moderni serve austerità, adattamento, resistenza.

Poi, una volta raggiunta la modernità, puoi andare al Banana Club.

Pechino è il punto saliente per Olof. Ci è passato l'anno prima, ma è contento di tornarci. Ha apprezzato gli alcolici a basso prezzo, i taxi a prezzi da autobus, la modernità dei negozi del centro, il cibo cinese, ordini quindici portate, mangi un terzo di quanto ti portano, ma hai pagato al massimo 100 yuan. E 100 yuan sono 100 corone. Pensandoci bene è la persona più adatta per guidarci, senza l’illusione di cercare ambienti incontaminati, cultura, diversità. A Pechino Olof si lascia andare alla mollezza, insiste per prendere un taxi per andare ovunque, Tomas perde la pazienza, io mi lascio andare. Girare la città in bicicletta o in taxi non fa molta differenza.

E la mollezza qui è a portata di qualsiasi tasca occidentale. Il nostro ostello è un hotel, con tanto di kit con spazzolino che dopo tre giorni sembra uno spazzolino normale vecchio di tre mesi e minitubo di colla da modellismo con dentro il dentifricio. È proprio a Pechino che si torna a casa: internet ogni giorno e venti minuti di Inter - Parma in tv. Per fortuna che Facebook è bloccato dalla censura.
Intanto controllare Olof diventa sempre più arduo e mi tocca concedergli la mia prima volta al Kentucky Fried Chicken. Pollo fritto del Kentucky, a Pechino.
E soprattutto gli concediamo il Banana Club. Un club superesclusivo con tutta la bella gente di Pechino, più Tomas, che i vestiti da bella gente li ha comprati il giorno stesso al mercato dei falsi e io, che mi presento in uniforme da treno.

Non è mica la discoteca di Ulan Bator, il Banana Club. A Pechino è pieno di gente bella e i pechinesi sanno riconoscere un Prada vero da un falso o un Oviesse. In bagno c’è uno che mentre pisci nei cessi a muro ti massaggia la testa e ti offre una gomma. Le ragazze deludono Olof, tanto che in seguito, ogni volta che verremo invitati da un distinto signore in un lady bar, verrà seriamente tentato a scappare dalle nostre fauci protettive per sciogliersi nella sensualità asiatica in un ambiente più consono della cuccetta di un treno.

Ci voleva poratre all’opera, Olof, e invece ci porta a vedere un musical sui monaci Shaolin. Nella sala gli unici cinesi sono sul palco e parlano l’idioma americano. A fine spettacolo si unisce a loro, previa esborso di 20 yuan, per una fotografia in posa. È proprio la città per lui. È entusiasta e ci fa in questa città, ci fa.

Una sera torniamo all’hotello proprio nel momento in cui squilla il telefono per noi. È Linda, che sapeva il nome del posto e ha chiamato per invitarci a mangiare l’anatra in un posticello non troppo lontano. Pare che sia stata Mia ad organizzare l’evento e infatti eccola là, bella con la sua pelle scura che sembra abbronzata, il suo sorriso tondo, gli occhi da korae, con l’aggiunta di capelli e vestiti puliti. Mi regala un involtino di riso dolce e mi invita a fumare un’altra sigaretta cinese, che stavolta rifiuto. Mi scopro quasi a sperarmi singolo, mentre assaggio tutto dell’anatra, soprattutto la pelle dolce, da intingere fra cristalli di zucchero. Con noi c’è il solito mondo anglosassone che si sposta di ostello in ostello guardandosi ogni tanto qualche monumento. Un tipo completamente ubriaco che si narra sia stato portato via in coma etilico solo la sera prima. Un altro con occhiali talmente sporchi che ci sis chiede come li possa guardare, quei due monumenti. Lo ritroveremo due giorni dopo al Palazzo d’Estate, con gli occhiali altrettanto sporchi.

E intanto Mia è là e Holly Day la spinge. L’intesa c’è tutta, ma lei che è hippy e psicologica, capisce che sarebbe bello sì, ma non possumus. Tanto più che poi si scopre che avrebbe il mio stesso impedimento, per quanto sia decisamente disposta ad ignorarlo. Ci sentiamo confortati da tanta moralità e finisce che facciamo anche noi i disegnini da appendere, con la bandierina del nostro paese come chi ci ha preceduti. Io mi spaccio per sanmarinese e qualche boccale di Tsingtao dopo potrei essere uno di quegli anglosassoni da ostello, se non stessi cantando Karl-Marx Strasse di Paolo Pietrangeli accompagnato alla chitarra da Tomas, estasiato dal ritornello che dice “Lenin olè”. Lui, lo scandinavo, che associare politica e cori da stadio gli fa strano.