giovedì 24 marzo 2011

Ad un banco nella parte centrale del mercato coperto, sotto il foro circolare al centro della cupola, contratto accanito sul prezzo di un coltello con la lama istoriata. Finita la trattativa, per santificare l’accordo, scambiamo qualche parola isolata con i coltellai e il discorso scivola diretto sul mondiale. Ci raccontano che mentre stavamo tracciando la nostra scia di passi sulle montagne di Nurata, l’Italia esordiva con un pareggio e la Francia perdeva la seconda partita e cominciava già a pensare ai biglietti per tornare in Europa.

Ma da qui ci si sente lontani, non si riesce a partecipare davvero al dolore delle nostre nazioni. Ed è un bene, perché mentre in Europa fioriscono i dibattiti e sbocciano le polemiche, noi passiamo ore a discutere sul prezzo e sulla qualità del tè, compriamo fette d’anguria, cumino e miscele di spezie. Mangiamo piccoli chicchi di uva da vino, come sempre la più saporita, e vaghiamo sotto i portici degli edifici esterni, inglobati nel mercato, occupati dagli artigiani del legno e dei metalli. Camminiamo fra cassapanche ricoperte di fogli di latta inchiodati secondo geometrie regolari e Lilù riesce finalmente a comprare uno dei timbri in legno per girare il pane, con chiodi spuntati che punteggiano nella forma di pasta un motivo floreale.

Intanto i portici ci proteggono dal sole incandescente e dagli acquazzoni violenti che ad intervalli lo velano.

Chorsu è un’isola di confortevole caos, un centro commerciale orientale, dove si può comprare qualsiasi cosa, sulle bancarelle, ma anche per strada. E probabilmente la gente pensa che visto che tocca cucinare, tanto vale farlo in una pentola enorme e vendere il cibo davanti a casa, a chiunque passi con dello spazio vuoto nello stomaco. Quello che non si vende rimane per cena e per una volta, se non si mangia significa che è andata bene.

Invece il centro è geometrico, sovietico e marziale, fatto di viali troppo grandi per il traffico e parchi che inneggiano a glorie vere o fittizie, mentre i ragazzini si tuffano nei canali d’acqua verde.

Orientarsi è impossibile. Le vie sembrano cambiare nome spesso, anzi, scambiare i nomi e al posto della via dei ristoranti troviamo uno stradone buio, con solo una pizzeria popolata da personaggi da letteratura russa. Sembra sia una persecuzione per me, quella di dover mangiare pizza nei posti più remoti dell’impero sovietico. Neanche un anno dopo Irkutsk, tocca a Tashkent.

Al tavolo di fronte al nostro c’è un giovanotto basso e panzuto, dall’aria russa. Quando si alza cammina impettito, reso goffo dalle scarpe a punta che lo costringono a spostarsi scaricando il peso sui talloni, con le punte dei piedi rivolte all’esterno come Pippo in un fumetto. Si pavoneggia fra tre belle ancor più russe di lui, che sembrano assecondare qualsiasi cosa dica. Sullo schermo in fondo alla sala scorre EuroNews senza audio. Ignorata dai frequentatori della pizzeria, appare la mappa dell’Uzbekistan. Dalle immagini intuiamo che ci deve essere stato un incidente in Chirghizistan, dove poco prima della nostra partenza la minoranza uzbeca era stata attaccata. Ma qui nessuno ne parla e nessuno sembra scomporsi all’apparizione della mappa del suo paese alla televisione europea. Viene naturale minimizzare.

Ci stupisce di più il fatto che la pizzeria non serva la Margherita (anche chiedere una pizza al salame senza salame non sembra un’opzione praticabile) ed è rimasta una sola pallina di gelato. Il conto invece include da solo la somma delle nostre spese dell’ultima settimana. Lo paghiamo con 60 banconote da 500 sum e ci avviamo verso un bar vicino alla nostra pensione, un cortile coperto da tettoie di paglia sui lati, con divani su cui stendersi. Guardare Inghilterra – Algeria e tifare con gli altri per Ravshan Irmatov, il fischietto di Tashkent, è l’unica cosa rimasta da fare prima arrivare con calma all’aereoporto, mostrare ripetutamente il passaporto e prendere l’aereo alle 4 di mattina.

Il ragazzo che guida il taxi verso l’aeroporto dice di essere uzbeco, ma di parlare solo russo. I genitori gli hanno insegnato la lingua del dominatore, invece della loro, per rendergli il futuro più semplice, un po’ come i miei genitori hanno deciso di allevare me e mio fratello in italiano invece che in dialetto come tutti i nostri coetanei.

I genitori del taxista non sapevano che un giorno, all’inizio degli anni ’90, senza neanche volerlo con convizione, il loro paese si sarebbe trovato indipendente da un giorno all’altro. Più che uno svezzamento, il passaggio da una mano all’altra di un nuovo vecchio padre, lo stesso Karimov che era già stato soviet.

Il fatto che nessuno si fosse mosso per l’indipendenza è un altro segno di un paese che si accontenta. Non chiede grandezza, ma si concentra sulla vita quotidiana. Qui vince l’umiltà di un passato grandioso, ma non esibito. Pochi Hotel Tamerlano, al massimo una statua di pietra nera all’imbocco di un viale a Samarcanda. Pochi Ristoranti della Via della Seta. Solo vita quotidiana, anche nel centro storico restaurato di Khiva o in quello di Bukhara. Apertura verso chi visita, ma senza il desiderio di vivere la loro vita.

Questi sono i casi in cui staticità non è pigrizia, ma soddisfazione. Non è conservazione, ma preservazione. Sono i casi in cui appagamento non significa abbandonarsi all’inerzia, come da noi, ma aver bisogno solo di cose che hai già.

Intanto, dopo una colazione di manzo e piselli, ci addormentiamo all’alba, sopra il deserto cazaco e poco dopo atterriamo nel solito vento freddo che spolvera il Nord Europa.

Da qui comincia la vita reale. Una vita reale diversa da quella dei profughi uzbechi del Chirghizistan, scappati ai cecchini mercenari che hanno ucciso e devastato tutto ciò che rimaneva di uzbeco ad Osh e hanno tenuto a portata di mirino quelli che si azzardavano a raccogliere i cadaveri. Il governo ammette 400 morti, ma si parla di 2000. Là, a poche centinaia di chilometri da dove noi stavamo mangiando pizza e guardando calcio. La gente può essere amichevole, lasciarti entrare in contatto, accoglierti, ma per la vera vita, per quella non basta comprare un biglietto aereo.

sabato 12 marzo 2011

C’è grande allegria sul minibus che a Jizzax fa da taxi collettivo fra l’autostazione e il mercato, da dove parte chi vuole condividere il suo mezzo sulla via per Tashkent.

È l’allegria delle situazioni estreme. Più di dieci persone incastrate in un furgoncino stampato in un cubo di Rubik di veicoli, che provengono da tutte le direzioni e cercano la combinazione giusta per uscire da un’enorme spianata asfaltata e raggiungere le vie laterali.

Sui sedili imbottiti di gommapiuma ci sentiamo tutti complici nella sventura e non c’è nulla da fare, meglio pensare ad altro o aiutarsi a vicenda a farlo. Prima o poi ne usciremo e ci ricorderemo degli altri protagonisti della stessa storia, che ognuno di noi racconterà in modo diverso a persone diverse in luoghi diversi.

Anche qui gli unici stranieri sono ospiti d’onore e fuoco dell'attenzione. Ormai abbiamo affinato la tecnica per spiegare le cose importanti su di noi in russo a collage. Italya, Fransia, viviamo Gollandia, rabota perevodnischi, no, non sposati (gesto dell’anello con dito che nega), ma insieme lo stesso. Si sentono orgogliosi perché abbiamo scelto il loro paese fra tanti, e al contempo si vergognano per il traffico, ma risolvono l’imbarazzo detonando risate a pieno ventre. Così è, meglio adattarsi. La maggior parte di loro è in città per affari, o per visitare il mercato. Non è un caso che mentre i servizi di linea partono da una stazione apposita, i taxi collettivi aspettano sempre davanti al mercato principale. Il megastore dei poveri.

Il taxi che troviamo noi si riempie in pochi minuti, non è un problema trovare altre persone dirette verso la capitale. Sul sedile posteriore, con me e Lilù, siede un ragazzo che parla un po’ di inglese. Dice che lavora a Tashkent, è un pittore. Ci mostra le fotografie delle sue opere sul telefonino, sono dipinti appena stilizzati, in stile naif, con tematiche storiche locali: Tamerlano e le sue fortezze, nobili e mercanti medievali. Nella periferia di Jizzax chiede all’autista di fermarsi lungo la strada. Dice che vuol farci assaggiare i migliori somsa della zona e ci accompagna verso un banco di cemento con fori circolari del diametro di circa 40 centimetri. I fori si aprono su cavità rotonde, le cui pareti sono completamente coperte di pagnotte incollate al cemento a cuocere. Sono i somsa e non sono pagnotte, ma croste di pane sottili e croccanti, che se premute si spezzano per rilasciare l’aroma di verdure cotte e carne grassa di capra. Un’endovena di sostanze nutritive che costringe il nostro organismo ad investire tutte le risorse nella digestione e abbandonare gli organi non coinvolti nelle braccia del sonno. Mi sveglio solo perché ci tengo a vedere il tratto di strada che attraversa il territorio cazaco, pur senza passare per frontiere. Nei confini artificiali dell’Asia centrale, disegnati secondo motivi etnici e non geografici, in questo punto l’Uzbekistan era troppo stretto e non c’era posto per una strada, così per arrivare alla capitale è necessario passare in territorio straniero.

Osservo giusto per curiosità, perché non ci sono grandi differenze rispetto all’Uzbekistan. L’unica è una ragazza alta, di un biondo giallo che non vedevamo da settimane, che costeggia la strada in bicicletta con addosso un top corto e aderente. In effetti in Uzbekistan tutti parlano russo, ma nessuno ha tratti somatici europei. In Cazachistan invece pare che la minoranza russa sia molto più consistente.

Per il resto solo carri e qualche trattore Belarus a tre ruote. I compagni di viaggio ci risvegliano ancora per indicarci il Syr Darya, che segna l’inizio della regione della capitale.

E dopo i villaggi di Nurata, Tashkent sembra enorme, o meglio lo è, una delle città più grandi dell’Unione sovietica, la maggiore fra quelle al di fuori del suolo russo.

Questa volta evitiamo il centro e troviamo una pensione nella zona del Chorsu, l'enorme mercato generale, che straborda da una cupola bianca e verde sovietico, che da lontano sembra un disco volante.

L’idea è quella di passare le ultime due giornate a vagare, fra il mercato e il centro, e riportarsi in pari con i risultati delle partite dei mondiali.