domenica 13 dicembre 2009

Sei settembre

I tre viaggi in treno sono tre storie differenti. Quello fra Mosca e Irkutsk è normale, come un Milano-Lecce qualsiasi, otto volte più lungo, ma anche molto più confortevole. I veri estremi sono i due treni mongoli, quello da Irkutsk a Ulan Bator e quello dalla Mongolia a Pechino. Chi vuole entrarci, in Mongolia, dalla Russia? Centinaia di contrabbandieri ubriachi. Chi vuole uscire dallo scappamento della Mongolia? Solo turisti.

Il treno fra Irkutsk e Ulan Bator è quello più simile alle fantasie transibiriche. Saliamo sporchi di tre ore di sonno, ad un’ora che, rosolati dal fuso orario, è mattina presto, ma sarebbe stata notte cinque giorni prima e sera tornando indietro di altri due.

Con gli occhi del sonno, il treno non si vede, si percepisce. Ci aggradano le coperte rosse con ricami d’argento, ma il linoleum del pavimento e le pareti che sembrano di compensato grigio ricordano le aule dove una quindicina di anni fa i professori più che i genitori o noi stessi cercavano di sorprendere la nostra attenzione con un’educazione.

Siamo soli, cerchiamo per pochi minuti di individuare un senso nelle coperte quadrate per le cuccette rettangolari, troppo corte e troppo larghe, chiudiamo finestre e luci e senza darci appuntamento alla prossima giornata ci lasciamo dondolare in un sonno ipnotico.

Sette ore dopo siamo freschi come rose e c’è il tempo di consultarsi. A quanto pare qualcuno ha ripetutamente cercato di aprire la porta del nostro scompartimento. Tutti e tre lo abbiamo percepito, ma nell’ipnosi del sonno nessuno si è preoccupato. Ora le nostre menti sono tornate alla ragione e possiamo permetterci di preoccuparci. Ladri? Siamo chiusi in un vagone con dei malvagi ladri mongoli?

Esco per bagnarmi gli occhi con l’acqua fredda del bagno e li vedo. Uomini e donne che trasportano casse, scatoloni, sacchi e manichini nudi da una parte all’altra del treno. Fra di loro si aggira una statua di carne in una maglietta lurida, aperta fin sotto i peli del petto, forse per compensare quelli della barba, di peli, che non sembrano essere progrediti di molto rispetto all’adolescenza. Gli si legge negli occhi che non è astemio e gli si annusa nel fiato che se mai lo è stato per un periodo, non si tratta di sicuro delle ultime 24 ore.

È difficile capire la sua funzione sociale. Probabilmente è il capo di questa immensa rete di contrabbando, ma potrebbe essere anche solo la mascotte. Quello che conta è il rispetto che gli attribuiscono tutti nel vagone, a cominciare dalle custodi dal sorriso di ceramica, più giovani e antipatiche e decisamente meno interessate alla pulizia e all’efficienza rispetto alle provodnizze russe. Lui traballa nel vagone con uno sguardo ebete e tutti lo salutano e gli tributano regali non identificabili qualora non liquidi.

Torno nello scompartimento dove siamo ancora soli e faccio rapporto mentre affrontiamo la colazione al sacco preparata dalla signora che ci ha ospitati ad Irkutsk.
Fra cetrioli crudi e uova sode cerchiamo di posizionarci geograficamente. Siamo ancora in Russia, ma fuori dai finestrini gira un nuovo film. Gli alberi sono quasi finiti. Non che gli manchi l’acqua, ma la natura è pigra, così si accontenta di sfamare quest'erba verde pisello senza sforzarla a sviluppare corteccia o spingersi verso l’alto.

Sul corridoio conosciamo Scott, un ragazzo americano che dice di essere partito da Detroit su un’utilitaria della Suzuki, che è deceduta in Cazachistan, dopo aver attraversato indenne tutti gli altri Stan che appartenevano all’Unione Sovietica. Scott ha diverse storie da raccontare, ma sta vivendo proprio ora una delle più divertenti, con la statua ubriaca che dorme sul suo letto, apprezzando come cuscino la superficie levigata del suo computer.

Scott è uno pieno di risorse e si è rifugiato nello scompartimento di fianco, con una ragazza francese che viaggia per accompagnare l’anziana zia nel viaggio di una vita.
Con il sole della Buriazia di fianco ci sediamo a mangiare caramelle del Sud della Francia. La zia sembra divertita, ma non parla inglese. Per questo ha chiesto alla nipote di farle da interprete.
Fuori i centri abitati diventano sempre più rari e più radi. L’unico punto preciso sulla mappa è Ulan Ude, una stazione con un’insegna rubata ad un ristorante giapponese e un altoparlante con il segnale acustico di “We wish you a Merry Christmas” prima di ogni annuncio.

Passiamo il pomeriggio a parlare e intanto il confine si avvicina. Da solo, senza fare nulla. Il treno è avventura per menti pigre e noi al massimo raggiungiamo il samovar in testa al vagone e ci facciamo un tè. Bere fa male, scopriremo, anche bere tè.

I bagni vengono chiusi mezz’ora prima e mezz’ora dopo ogni fermata. Il treno non si ferma spesso, ma i bagni sono comunque sempre chiusi. Per una pisciata attraverso dodici vagoni, devo sbattere quarantotto porte e riesco nell’impresa solo perché la guardiana della prima classe viene mossa a pietà dai miei occhi che strabuzzano dalle guance gonfie in solidarietà alla vescica. Tutti i corridoi sono stipati di merce e imballaggi. I manichini sono gli articoli più interessanti. Un oggetto che sembra inutile, ma pensandoci bene, non sono solo le cose utili a dover essere importate in un paese vuoto come la Mongolia, ma anche quelle apparentemente inutili. Se serve un manichino serve una fabbrica che lo produca, e a Ulan Bator è più che comprensibile che non esista una fabbrica di manichini, nel senso che un gigante di tre milioni di abitanti non può essere totalmente autarchico. Considerando che i manichini non te li puoi costruire da solo, allora devi andare fino in Russia, o mandarci qualcuno, a comprarli per i vestiti nella vetrina di quel tuo negozio dall’aspetto così occidentale.

Mi chiedo quanti altri articoli inutili ma necessari si celino fra i cartoni e il nylon degli imballaggi ammucchiati nei corridoi e nei raccordi fra i vagoni. Manici di scopa, plafoniere in plastica sbiancata, ganci appendiabiti, comodini, grate, griglie e inferriate, custodie per occhiali, maniglie, corde per strumenti, tappi da lavandino, spugne di metallo. Altro.
I commercianti non sembrano felici di vedermi passare proprio nel momento in cui stanno muovendo la loro merce (come se ci fosse un singolo momento in cui non lo fanno). Io gli scivolo in mezzo cercando di portare al minimo il periodo di esposizione alle loro prediche incomprensibili. Chi è molto occupato non sopporta chi non ha nulla da fare e loro imprecano contro questo straniero che chiaramente gli si mette in mezzo solo per il gusto di farlo, tanto per avere qualcosa da fare. Il problema di dover raggiungere il mio vagone non gli passa per la testa. Per loro, non mi sarei mai dovuto muovere da quel vagone.

Intanto logica vuole che il confine sia per forza vicino. Sembra impossibile che non ci siamo ancora. Quanti prati possono esserci al mondo senza punti di riferimento, città, monumenti? Per la prima volta in vita mia ho la sensazione di allontanarmi da qualcosa senza avvicinarmi a qualcos'altro.

La frontiera, versante russo, arriva a Naushki con la voglia di birra, mentre ciò che vedo mi fa fischiare Morricone. Potrebbero essere le 5. E le 7, o anche le 8.30. Il sole tramonta. Chi lo sa a che ora tramonta il sole, da queste parti. A Naushki, la sala d’aspetto e la banca al termine del primo binario sono gli unici edifici in possesso di dignità. Una è vuota e l’altra chiusa.
Intorno però fioriscono chioschi di legno, bianchi e sporchi, dove ci viene offerto di tutto, ma noi ci accontentiamo di birra e cioccolata per finire i rubli. Le venditrici al binario sono esasperate da questi occidentali che guardano e non comprano niente, tenendo sempre quello sguardo pensoso che sembra che stiano per allungarti rubli da un momento all’altro.

La birra è buona, è l’ultima russa, ma è una pessima idea. Non c’è molta distanza fra il confine russo e quello mongolo. Ma è là che tutto cambia. Forse è la notte che ci sorprende all’improvviso, forse i mercanti che cominciano a spostare le loro merci con una disperazione frenetica che sa di ultima possibilità, ma la placida tranquillità da tè del pomeriggio si trasforma in furia da birra. Non troppa birra, ma quanto basta per costringerci ad andare in bagno. Intanto però i bagni sono stati chiusi per la mezz’ora dopo il confine russo, che verrà seguita immediatamente dall’altra mezza prima del confine mongolo e dalle tre ore intere della sosta, senza la possibilità di scendere. La polizia di frontiera ci tiene a farci capire chi comanda. Scott si affaccia ad un finestrino per lavarsi i denti. Vede un poliziotto. Il poliziotto vede lui. Lui prosegue con la pulizia, ma quando fa per sputare acqua e saliva, bianche di dentifricio, il poliziotto urla “NIET!”, giusto per fargli pesare cento anni di capitalismo.
Ma è solo l’inizio, perché le vesciche si gonfiano come otri di latte fermentato e la voglia di pisciare, stuzzicata dal movimento del treno, ci spinge a tentare atti di estremo coraggio. Tento di pisciare nel raccordo fra due vagoni. Non è una cosa che ci si aspetta da un raffinato turista occidentale. Meglio così, pensandoci bene. Ancora prima di rilasciare il getto liberatorio, che in queste circostanze richiede paradossalmente un impeto maggiore per partire, anche se poi non si ferma più, vedo qualcuno che si avvicina con casse di materiale imprecisato e desisto.

La disperazione sale, ormai il dolore fisico è opprimente. La mia mente cerca di restare lucida, conscia del fatto che deve esistere una via d’uscita, perché non posso essere l'unico sull’intero treno che non riesce a tenere una pisciata per quattro ore. Vedo una lattina vuota, ma l’apertura per bere è troppo stretta per il mio scopo. Cerco qualcosa in grado di tagliare l’alluminio, ma non abbiamo oggetti taglienti, nemmeno una forbice, un coltellino, un taglierino. Prendo una moneta, è liscia, come l’alluminio contro il quale la sfrego, ma il tempo non manca e una leggera pressione fa il resto in una decina di minuti, nei quali la prospettiva della liberazione non fa che amplificare il dolore. La lattina da mezzo litro si apre e quando è piena non sono che a metà vescica. Apro il finestrino, vedo il profilo di una guardia appesa a mezz’asta dalla porta. La guardia urla qualcosa, ma non posso fermarmi ora. Con calma indotta dalla coscienza di non aver nulla da perdere vuoto il contenuto a favor di vento e con la seconda seduta la riempio di nuovo. Un litro di piscio. Dopo che ho già abbassato il finestrino per vuotare anche questa, Tomas bussa per avvisarmi che sta arrivando un controllo. Ho solo il tempo di nascondere la lattina aperta sotto il sedile. Se dovesse rovesciarsi, lo zaino di Oleg ne pagherebbe le conseguenze. Speriamo che le rotaie siano lisce e regolari. Speriamo per dieci minuti. Oleg è rosso in viso. Ci allungano un foglio di carta a due facce, una con il testo russo e l’altra con quello mongolo, entrambi in cirillico. Le riempiamo a caso. Scott dice che la sua esperienza negli Stan insegna che non importa. Se hanno fretta va bene così, se vogliono divertirsi o arrotondare il salario, un problema lo trovano comunque. Ma prima di cercare le penne per uscire dalla Russia, prima di qualsiasi pensiero romantico o nostalgico su questa terra che lasciamo dopo più di una settimana, alzo al cielo la lattina aperta e la lancio dal finestrino. La prossima pisciata bussa già alle porte, ma domani è un altro giorno e fra un’ora è già Mongolia.

giovedì 3 dicembre 2009

Dieci e undici settembre

Stamattina, dopo l’idillio, è tutto un po’ più opaco. Il sole, il lago, l’atmosfera e la faccia di Agghi, con i suoi baffi adolescenti e i capelli quasi biondeggianti a spazzola unta. Ha una faccia molto cinematografica, Agghi, zigomo rialzato da cowboy, di quelli da pronunciare con la a lunga, aperta e molto accentata. Gli manca solo la sigaretta per essere Clint Eastwood, perché i turisti paganti gli hanno proibito di fumare nella sua macchina. Che poi, per fare una battuta che non piace neanche a me, ma la dico lo stesso perché fa ridere perché non fa ridere, east sì, ma wood mica tanto, qui in giro.
Invece Ciuca è sempre più tenera. Non si capisce se è davvero una bambina o lo sembra solo, con i dentoni e gli occhi a spiraglio, per l’occasione ancora più chiusi e ombreggiati del nero di chi non te la racconta giusta. Ciuca non riesco ad immaginarmela senza le braghe a righe incrociate e la giacca a vento marrone nocciola, che ha sempre avuto addosso nei tre giorni in cui l’ho conosciuta. Elegante, Ciuca, come tutti i mongoli di città. A venire dalla Russia, ci pare che abbiano preso gli abitanti di Milano o Parigi per trasferirli sulle strade di Beirut.
Ciuca non ce la racconta giusta no, ma Tomas sì, che nonostante la bufera, stanotte l’ha sentita in un duetto notturno, dove la sua voce alta faceva da contrappunto ideale ai muggiti viscerali del metallaro delle grandi praterie. Le folate del vento erano un’orchestra di violini in questo melodramma d’amor rustico.

Ciuca rimane in effetti fuori uso per tutta la giornata, il suo inglese diventa la lingua dei mangiatori di semolino secco. Agghi non ci sta e guida come un turbine su strade che inventa o disegna da solo. Ho già sperimentato che la prateria suscita sentimenti di eroismo sfigato in chi soffre le pene del cuore.
Noi siamo stanchi e abbiamo freddo. E fame, perché ormai tutte le nostre vivande hanno aspirato capra e anche i biscotti cantano le gesta di un animale che un tempo, a forza di incornate, era riuscito a diventare capobranco. Prima di essere ucciso, nell’uso mongolo, con un’incisione in una parte non vitale del basso collo e un braccio che entra nella laringe e strappa la gola. Oggi la Mongolia sembra la cima dello Stelvio, solo spianata.

È la giornata del ritorno. Ci fermiamo un paio di volte per rendere omaggio a vecchie mura. La spiegazione di Ciuca è incomprensibile, ma nessuno ci fa più caso.

Verso il tardo pomeriggio incontriamo l’asfalto. Entriamo ad Ulan Bator come Kristian Ghedina entrava sulla Trettrè. Gli autisti locali non seguono regole, se non quelle imposte nel proprio interesse dall’ostacolo fisico. Non si può dire che siano spericolati, perché non corrono più di tanto e, anche se non si fermano ai semafori, quando un pedone gli si piazza davanti, inchiodano e lo lasciano passare, senza colpo di clacson ferire. Agghi invece no. Trasporta tre turisti occidentali, ha un adesivo sul retro che dice “Tourism – Typicm” e non c’è modo di fermarlo. In più, come ormai noto, è imbranato. Trattengo il rimbrotto, ricordando la faccia da agnellino che ha fatto quando gli ho chiesto di non fumare nella ger, ma quando vedo l’anima di un anziano quasi andarsene per mano sua, trattenuta solo dalle punte delle setole della sua lunga barba bianca, caccio il grugnito dello yak. Stavolta però Agghi tira dritto, con la disperazione di chi per tre giorni ha avuto un’ottima potenziale moglie seduta di fianco, per lasciarsela sfuggire per mano di un metallaro con una barba che sembra un pube.

Una volta messo piede sulla terraferma, sfuggiamo all’ostello dove ci voleva portare Oleg, stilosetto e zeppo di cartelli a computer in lingua americana. Ci fermiamo in una casa accogliente, una casa con scritto "Hostel" all'esterno. Una camerata da sei tutta per noi, di fianco ad un'altra tutta per due ragazze inglesi. La padrona, un’anziana signora mongola, che come molti qui parla la lingua di Shakespeare e di Jay-Z, ci detta le regole della casa e ritira la nostra sbiancheria per andare a lavarcela. Il letto è il più comodo al mondo, la doccia è calda, il riscaldamento è il primo che sento da marzo. Le ragazze ci invitano ad una quiz night organizzata da loro, dove non arriveremo mai perché qui tutto chiude a mezzanotte e noi mangiamo fino alle 11.30. Carne di ogni sorta, tranne la capra, ottima Chinggis Beer, una delle cene più gustose di sempre, in un ristorante ispirato alla Via della Seta, con noi che di pulito abbiamo solo la tuta da ginnastica in mezzo a mongoli in giacca e cravatta.

La città l’abbiamo lasciata per l’ultimo giorno. Il giorno che abbiamo tenuto nel caso il fuoristrada ci avesse piantato nella prateria. Che cazzata, col senno di poi. Comunque in centro c’è questa piazza d’armi enorme, che tanto in Mongolia di spazio ce n’è. C’è in mezzo la statua di Suchbatàr, l’eroe nazionale, perché ogni nazione ha il suo eroe nazionale, di solito sconosciuto altrove. C’è un municipio di pietra rosastra con davanti un’enorme statua di un uomo grasso intronato, che si dice sia lo stesso Suchbatàr qualche chilo dopo la rivoluzione, ma alla fine si scopre essere Gengis Khan, che comunque da ste parti si chima Temujin o Chinggis, come la birra e la vodka. Ci sono diversi palazzi color pastello, tanto per imitare i cugini russi e soprattutto c'è, in fondo a cotanta piazza d'armi neoclassica, un grattacielo a vela, simile a quello di Dubai, però mignon. Il tutto sembra un'imitazione cinese o americana della Città ideale, nel senso del dipinto, con la pinna dorsale di un
enorme squalo robot che naviga sotto il pelo del cemento.

È moderno e un po’ affastellato, il centro di Ulan Bator, come ti immagini possa essere. Negozi di souvenir e quantità inverosimili di centri informatici, internet cafè e mangerie che crescono senza piano regolatore, ma con un gusto nell'accostamento leggermente migliore rispetto ad Irkutsk. C'è l'ambasciata della Corea del Nord, un'inferriata da serraglio con sopra il filo spinato, come nei film, un monumento a quando prendersi sul serio ti fa diventare ridicolo e quella della Francia, una maison coloniale massiccia, con piante esotiche e lindo soleggiato candore che ti fa sospettare che sia stata concepita per Tahiti o la Nuova Caledonia. Minacciosa, ma con stile. Un po’ come il tirannosauro del museo di scienze naturali. La Mongolia è una coltivazione estensiva di fossili e il museo di quella che i locali americaneggiano con orgoglio in Iuu Bii è grande, ma completamente focalizzato sulle due sale sulla paleontologia. Un viavai di protoceratopi, uno dei quali stecchito mentre se la fa con un velociraptor, un anchilosauro che sembra il carrarmato di Leonardo, quello da Vinci, e sto tirannosauro che regge una buchetta di vetro piena di dollari e tugrik chiedendoti se non è che per caso c’hai spicci.

C’è tutta sta gente giovane che gira per le strade di Iuu Bii, con i sacchetti della spesa del supermercato locale, che sono identici a quelli che vendono a New York, con la scritta “I Cuore NY”, che se solo ci fosse scritto “I Cuore UB” ogni turista ne comprerebbe una risma. Invece così sono i locali a comprarne a risme, tutti sti giovani si vestono come noi. Come in Europa, neanche come in America. Colori sobri e tagli raffinati. Dopo la Russia e le sue giacche di pelo finto arancio fosforescente sembra di essere tornati in un cittadone europeo.

A pranzo si mangia una doppia razione di booz, che sono ravioli al vapore ripieni di una capra squisita. Cass però dissente, citando problemi intestinali. Durante il viaggio Cass ha divorato tre quarti di confezione delle mie pillole per la dissenteria, manco fossero Ricola. Poi saliamo sul bus per dare un’occhiata al palazzo degli ultimi Khan. I biglietti non esistono, ma c’è una bigliettaia sui sedici anni che si infila fra la calca per assisterci per tutto il tragitto, salvandoci dai 300 metri della fermata sbagliata.

Al palazzo dei Khan ci si arriva dritti come un fuso dalla piazza principale, ma quando ci si arriva è già periferia, all’ombra di un casermone giallo con terrazzi di legno, che ha l’aria di essere abitato da espatriati americani. Un palazzo scrostato, quello dei Khan, a differenza di quello degli americani, ma dall’aria vissuta, vera, molto più vera di quelli identici che vedremo a Pechino. Un palazzo di Buddha che escono dalle erbe infestanti, pieno di padiglioni scrostati e sbiaditi all’esterno, ma ancora perfetti, arancio, oro, blu, nelle sale coperte dalle intemperie. Nel padiglione principale, la roba dei Khan, mappe di Ulan Bator, animali impagliati, mobili di legno prezioso e una ger di pelli tigrate. Un gusto basato su strutture diverse dalle nostre, ma mirato come il nostro allo scopo di piacere.

La sera le inglesi ci invitano in un posto che non troveremo mai, peccato per il rock alternativo mongolo. Ma forse era roba da espatriati, meglio così, perché mentre lo cerchiamo finisce che ci trascinano in una discoteca di bassissimo livello, unici occidentali, che non gli pare vero di averci trascinati là, a farci fare la figura degli ospiti speciali, o dei magnaccia. Ci liberano un tavolo, dissipando gli astanti come un banco di pesci diviso a metà da Mosè che apre le acque, mentre il meglio del diciottennume locale ci si si contende. Oleg ha il fuoco di Odino negli occhi. Io vado in bagno, un ragazzino mi provoca timidamente per fare a pugni con lo straniero. Gli sorrido e lui non se l’aspetta.
Oggi ho fatto fare buona figura all’Occidente. Anche Oleg lo ha fatto, perché all’ostello ci torniamo noi tre da soli.