domenica 13 dicembre 2009

Sei settembre

I tre viaggi in treno sono tre storie differenti. Quello fra Mosca e Irkutsk è normale, come un Milano-Lecce qualsiasi, otto volte più lungo, ma anche molto più confortevole. I veri estremi sono i due treni mongoli, quello da Irkutsk a Ulan Bator e quello dalla Mongolia a Pechino. Chi vuole entrarci, in Mongolia, dalla Russia? Centinaia di contrabbandieri ubriachi. Chi vuole uscire dallo scappamento della Mongolia? Solo turisti.

Il treno fra Irkutsk e Ulan Bator è quello più simile alle fantasie transibiriche. Saliamo sporchi di tre ore di sonno, ad un’ora che, rosolati dal fuso orario, è mattina presto, ma sarebbe stata notte cinque giorni prima e sera tornando indietro di altri due.

Con gli occhi del sonno, il treno non si vede, si percepisce. Ci aggradano le coperte rosse con ricami d’argento, ma il linoleum del pavimento e le pareti che sembrano di compensato grigio ricordano le aule dove una quindicina di anni fa i professori più che i genitori o noi stessi cercavano di sorprendere la nostra attenzione con un’educazione.

Siamo soli, cerchiamo per pochi minuti di individuare un senso nelle coperte quadrate per le cuccette rettangolari, troppo corte e troppo larghe, chiudiamo finestre e luci e senza darci appuntamento alla prossima giornata ci lasciamo dondolare in un sonno ipnotico.

Sette ore dopo siamo freschi come rose e c’è il tempo di consultarsi. A quanto pare qualcuno ha ripetutamente cercato di aprire la porta del nostro scompartimento. Tutti e tre lo abbiamo percepito, ma nell’ipnosi del sonno nessuno si è preoccupato. Ora le nostre menti sono tornate alla ragione e possiamo permetterci di preoccuparci. Ladri? Siamo chiusi in un vagone con dei malvagi ladri mongoli?

Esco per bagnarmi gli occhi con l’acqua fredda del bagno e li vedo. Uomini e donne che trasportano casse, scatoloni, sacchi e manichini nudi da una parte all’altra del treno. Fra di loro si aggira una statua di carne in una maglietta lurida, aperta fin sotto i peli del petto, forse per compensare quelli della barba, di peli, che non sembrano essere progrediti di molto rispetto all’adolescenza. Gli si legge negli occhi che non è astemio e gli si annusa nel fiato che se mai lo è stato per un periodo, non si tratta di sicuro delle ultime 24 ore.

È difficile capire la sua funzione sociale. Probabilmente è il capo di questa immensa rete di contrabbando, ma potrebbe essere anche solo la mascotte. Quello che conta è il rispetto che gli attribuiscono tutti nel vagone, a cominciare dalle custodi dal sorriso di ceramica, più giovani e antipatiche e decisamente meno interessate alla pulizia e all’efficienza rispetto alle provodnizze russe. Lui traballa nel vagone con uno sguardo ebete e tutti lo salutano e gli tributano regali non identificabili qualora non liquidi.

Torno nello scompartimento dove siamo ancora soli e faccio rapporto mentre affrontiamo la colazione al sacco preparata dalla signora che ci ha ospitati ad Irkutsk.
Fra cetrioli crudi e uova sode cerchiamo di posizionarci geograficamente. Siamo ancora in Russia, ma fuori dai finestrini gira un nuovo film. Gli alberi sono quasi finiti. Non che gli manchi l’acqua, ma la natura è pigra, così si accontenta di sfamare quest'erba verde pisello senza sforzarla a sviluppare corteccia o spingersi verso l’alto.

Sul corridoio conosciamo Scott, un ragazzo americano che dice di essere partito da Detroit su un’utilitaria della Suzuki, che è deceduta in Cazachistan, dopo aver attraversato indenne tutti gli altri Stan che appartenevano all’Unione Sovietica. Scott ha diverse storie da raccontare, ma sta vivendo proprio ora una delle più divertenti, con la statua ubriaca che dorme sul suo letto, apprezzando come cuscino la superficie levigata del suo computer.

Scott è uno pieno di risorse e si è rifugiato nello scompartimento di fianco, con una ragazza francese che viaggia per accompagnare l’anziana zia nel viaggio di una vita.
Con il sole della Buriazia di fianco ci sediamo a mangiare caramelle del Sud della Francia. La zia sembra divertita, ma non parla inglese. Per questo ha chiesto alla nipote di farle da interprete.
Fuori i centri abitati diventano sempre più rari e più radi. L’unico punto preciso sulla mappa è Ulan Ude, una stazione con un’insegna rubata ad un ristorante giapponese e un altoparlante con il segnale acustico di “We wish you a Merry Christmas” prima di ogni annuncio.

Passiamo il pomeriggio a parlare e intanto il confine si avvicina. Da solo, senza fare nulla. Il treno è avventura per menti pigre e noi al massimo raggiungiamo il samovar in testa al vagone e ci facciamo un tè. Bere fa male, scopriremo, anche bere tè.

I bagni vengono chiusi mezz’ora prima e mezz’ora dopo ogni fermata. Il treno non si ferma spesso, ma i bagni sono comunque sempre chiusi. Per una pisciata attraverso dodici vagoni, devo sbattere quarantotto porte e riesco nell’impresa solo perché la guardiana della prima classe viene mossa a pietà dai miei occhi che strabuzzano dalle guance gonfie in solidarietà alla vescica. Tutti i corridoi sono stipati di merce e imballaggi. I manichini sono gli articoli più interessanti. Un oggetto che sembra inutile, ma pensandoci bene, non sono solo le cose utili a dover essere importate in un paese vuoto come la Mongolia, ma anche quelle apparentemente inutili. Se serve un manichino serve una fabbrica che lo produca, e a Ulan Bator è più che comprensibile che non esista una fabbrica di manichini, nel senso che un gigante di tre milioni di abitanti non può essere totalmente autarchico. Considerando che i manichini non te li puoi costruire da solo, allora devi andare fino in Russia, o mandarci qualcuno, a comprarli per i vestiti nella vetrina di quel tuo negozio dall’aspetto così occidentale.

Mi chiedo quanti altri articoli inutili ma necessari si celino fra i cartoni e il nylon degli imballaggi ammucchiati nei corridoi e nei raccordi fra i vagoni. Manici di scopa, plafoniere in plastica sbiancata, ganci appendiabiti, comodini, grate, griglie e inferriate, custodie per occhiali, maniglie, corde per strumenti, tappi da lavandino, spugne di metallo. Altro.
I commercianti non sembrano felici di vedermi passare proprio nel momento in cui stanno muovendo la loro merce (come se ci fosse un singolo momento in cui non lo fanno). Io gli scivolo in mezzo cercando di portare al minimo il periodo di esposizione alle loro prediche incomprensibili. Chi è molto occupato non sopporta chi non ha nulla da fare e loro imprecano contro questo straniero che chiaramente gli si mette in mezzo solo per il gusto di farlo, tanto per avere qualcosa da fare. Il problema di dover raggiungere il mio vagone non gli passa per la testa. Per loro, non mi sarei mai dovuto muovere da quel vagone.

Intanto logica vuole che il confine sia per forza vicino. Sembra impossibile che non ci siamo ancora. Quanti prati possono esserci al mondo senza punti di riferimento, città, monumenti? Per la prima volta in vita mia ho la sensazione di allontanarmi da qualcosa senza avvicinarmi a qualcos'altro.

La frontiera, versante russo, arriva a Naushki con la voglia di birra, mentre ciò che vedo mi fa fischiare Morricone. Potrebbero essere le 5. E le 7, o anche le 8.30. Il sole tramonta. Chi lo sa a che ora tramonta il sole, da queste parti. A Naushki, la sala d’aspetto e la banca al termine del primo binario sono gli unici edifici in possesso di dignità. Una è vuota e l’altra chiusa.
Intorno però fioriscono chioschi di legno, bianchi e sporchi, dove ci viene offerto di tutto, ma noi ci accontentiamo di birra e cioccolata per finire i rubli. Le venditrici al binario sono esasperate da questi occidentali che guardano e non comprano niente, tenendo sempre quello sguardo pensoso che sembra che stiano per allungarti rubli da un momento all’altro.

La birra è buona, è l’ultima russa, ma è una pessima idea. Non c’è molta distanza fra il confine russo e quello mongolo. Ma è là che tutto cambia. Forse è la notte che ci sorprende all’improvviso, forse i mercanti che cominciano a spostare le loro merci con una disperazione frenetica che sa di ultima possibilità, ma la placida tranquillità da tè del pomeriggio si trasforma in furia da birra. Non troppa birra, ma quanto basta per costringerci ad andare in bagno. Intanto però i bagni sono stati chiusi per la mezz’ora dopo il confine russo, che verrà seguita immediatamente dall’altra mezza prima del confine mongolo e dalle tre ore intere della sosta, senza la possibilità di scendere. La polizia di frontiera ci tiene a farci capire chi comanda. Scott si affaccia ad un finestrino per lavarsi i denti. Vede un poliziotto. Il poliziotto vede lui. Lui prosegue con la pulizia, ma quando fa per sputare acqua e saliva, bianche di dentifricio, il poliziotto urla “NIET!”, giusto per fargli pesare cento anni di capitalismo.
Ma è solo l’inizio, perché le vesciche si gonfiano come otri di latte fermentato e la voglia di pisciare, stuzzicata dal movimento del treno, ci spinge a tentare atti di estremo coraggio. Tento di pisciare nel raccordo fra due vagoni. Non è una cosa che ci si aspetta da un raffinato turista occidentale. Meglio così, pensandoci bene. Ancora prima di rilasciare il getto liberatorio, che in queste circostanze richiede paradossalmente un impeto maggiore per partire, anche se poi non si ferma più, vedo qualcuno che si avvicina con casse di materiale imprecisato e desisto.

La disperazione sale, ormai il dolore fisico è opprimente. La mia mente cerca di restare lucida, conscia del fatto che deve esistere una via d’uscita, perché non posso essere l'unico sull’intero treno che non riesce a tenere una pisciata per quattro ore. Vedo una lattina vuota, ma l’apertura per bere è troppo stretta per il mio scopo. Cerco qualcosa in grado di tagliare l’alluminio, ma non abbiamo oggetti taglienti, nemmeno una forbice, un coltellino, un taglierino. Prendo una moneta, è liscia, come l’alluminio contro il quale la sfrego, ma il tempo non manca e una leggera pressione fa il resto in una decina di minuti, nei quali la prospettiva della liberazione non fa che amplificare il dolore. La lattina da mezzo litro si apre e quando è piena non sono che a metà vescica. Apro il finestrino, vedo il profilo di una guardia appesa a mezz’asta dalla porta. La guardia urla qualcosa, ma non posso fermarmi ora. Con calma indotta dalla coscienza di non aver nulla da perdere vuoto il contenuto a favor di vento e con la seconda seduta la riempio di nuovo. Un litro di piscio. Dopo che ho già abbassato il finestrino per vuotare anche questa, Tomas bussa per avvisarmi che sta arrivando un controllo. Ho solo il tempo di nascondere la lattina aperta sotto il sedile. Se dovesse rovesciarsi, lo zaino di Oleg ne pagherebbe le conseguenze. Speriamo che le rotaie siano lisce e regolari. Speriamo per dieci minuti. Oleg è rosso in viso. Ci allungano un foglio di carta a due facce, una con il testo russo e l’altra con quello mongolo, entrambi in cirillico. Le riempiamo a caso. Scott dice che la sua esperienza negli Stan insegna che non importa. Se hanno fretta va bene così, se vogliono divertirsi o arrotondare il salario, un problema lo trovano comunque. Ma prima di cercare le penne per uscire dalla Russia, prima di qualsiasi pensiero romantico o nostalgico su questa terra che lasciamo dopo più di una settimana, alzo al cielo la lattina aperta e la lancio dal finestrino. La prossima pisciata bussa già alle porte, ma domani è un altro giorno e fra un’ora è già Mongolia.

giovedì 3 dicembre 2009

Dieci e undici settembre

Stamattina, dopo l’idillio, è tutto un po’ più opaco. Il sole, il lago, l’atmosfera e la faccia di Agghi, con i suoi baffi adolescenti e i capelli quasi biondeggianti a spazzola unta. Ha una faccia molto cinematografica, Agghi, zigomo rialzato da cowboy, di quelli da pronunciare con la a lunga, aperta e molto accentata. Gli manca solo la sigaretta per essere Clint Eastwood, perché i turisti paganti gli hanno proibito di fumare nella sua macchina. Che poi, per fare una battuta che non piace neanche a me, ma la dico lo stesso perché fa ridere perché non fa ridere, east sì, ma wood mica tanto, qui in giro.
Invece Ciuca è sempre più tenera. Non si capisce se è davvero una bambina o lo sembra solo, con i dentoni e gli occhi a spiraglio, per l’occasione ancora più chiusi e ombreggiati del nero di chi non te la racconta giusta. Ciuca non riesco ad immaginarmela senza le braghe a righe incrociate e la giacca a vento marrone nocciola, che ha sempre avuto addosso nei tre giorni in cui l’ho conosciuta. Elegante, Ciuca, come tutti i mongoli di città. A venire dalla Russia, ci pare che abbiano preso gli abitanti di Milano o Parigi per trasferirli sulle strade di Beirut.
Ciuca non ce la racconta giusta no, ma Tomas sì, che nonostante la bufera, stanotte l’ha sentita in un duetto notturno, dove la sua voce alta faceva da contrappunto ideale ai muggiti viscerali del metallaro delle grandi praterie. Le folate del vento erano un’orchestra di violini in questo melodramma d’amor rustico.

Ciuca rimane in effetti fuori uso per tutta la giornata, il suo inglese diventa la lingua dei mangiatori di semolino secco. Agghi non ci sta e guida come un turbine su strade che inventa o disegna da solo. Ho già sperimentato che la prateria suscita sentimenti di eroismo sfigato in chi soffre le pene del cuore.
Noi siamo stanchi e abbiamo freddo. E fame, perché ormai tutte le nostre vivande hanno aspirato capra e anche i biscotti cantano le gesta di un animale che un tempo, a forza di incornate, era riuscito a diventare capobranco. Prima di essere ucciso, nell’uso mongolo, con un’incisione in una parte non vitale del basso collo e un braccio che entra nella laringe e strappa la gola. Oggi la Mongolia sembra la cima dello Stelvio, solo spianata.

È la giornata del ritorno. Ci fermiamo un paio di volte per rendere omaggio a vecchie mura. La spiegazione di Ciuca è incomprensibile, ma nessuno ci fa più caso.

Verso il tardo pomeriggio incontriamo l’asfalto. Entriamo ad Ulan Bator come Kristian Ghedina entrava sulla Trettrè. Gli autisti locali non seguono regole, se non quelle imposte nel proprio interesse dall’ostacolo fisico. Non si può dire che siano spericolati, perché non corrono più di tanto e, anche se non si fermano ai semafori, quando un pedone gli si piazza davanti, inchiodano e lo lasciano passare, senza colpo di clacson ferire. Agghi invece no. Trasporta tre turisti occidentali, ha un adesivo sul retro che dice “Tourism – Typicm” e non c’è modo di fermarlo. In più, come ormai noto, è imbranato. Trattengo il rimbrotto, ricordando la faccia da agnellino che ha fatto quando gli ho chiesto di non fumare nella ger, ma quando vedo l’anima di un anziano quasi andarsene per mano sua, trattenuta solo dalle punte delle setole della sua lunga barba bianca, caccio il grugnito dello yak. Stavolta però Agghi tira dritto, con la disperazione di chi per tre giorni ha avuto un’ottima potenziale moglie seduta di fianco, per lasciarsela sfuggire per mano di un metallaro con una barba che sembra un pube.

Una volta messo piede sulla terraferma, sfuggiamo all’ostello dove ci voleva portare Oleg, stilosetto e zeppo di cartelli a computer in lingua americana. Ci fermiamo in una casa accogliente, una casa con scritto "Hostel" all'esterno. Una camerata da sei tutta per noi, di fianco ad un'altra tutta per due ragazze inglesi. La padrona, un’anziana signora mongola, che come molti qui parla la lingua di Shakespeare e di Jay-Z, ci detta le regole della casa e ritira la nostra sbiancheria per andare a lavarcela. Il letto è il più comodo al mondo, la doccia è calda, il riscaldamento è il primo che sento da marzo. Le ragazze ci invitano ad una quiz night organizzata da loro, dove non arriveremo mai perché qui tutto chiude a mezzanotte e noi mangiamo fino alle 11.30. Carne di ogni sorta, tranne la capra, ottima Chinggis Beer, una delle cene più gustose di sempre, in un ristorante ispirato alla Via della Seta, con noi che di pulito abbiamo solo la tuta da ginnastica in mezzo a mongoli in giacca e cravatta.

La città l’abbiamo lasciata per l’ultimo giorno. Il giorno che abbiamo tenuto nel caso il fuoristrada ci avesse piantato nella prateria. Che cazzata, col senno di poi. Comunque in centro c’è questa piazza d’armi enorme, che tanto in Mongolia di spazio ce n’è. C’è in mezzo la statua di Suchbatàr, l’eroe nazionale, perché ogni nazione ha il suo eroe nazionale, di solito sconosciuto altrove. C’è un municipio di pietra rosastra con davanti un’enorme statua di un uomo grasso intronato, che si dice sia lo stesso Suchbatàr qualche chilo dopo la rivoluzione, ma alla fine si scopre essere Gengis Khan, che comunque da ste parti si chima Temujin o Chinggis, come la birra e la vodka. Ci sono diversi palazzi color pastello, tanto per imitare i cugini russi e soprattutto c'è, in fondo a cotanta piazza d'armi neoclassica, un grattacielo a vela, simile a quello di Dubai, però mignon. Il tutto sembra un'imitazione cinese o americana della Città ideale, nel senso del dipinto, con la pinna dorsale di un
enorme squalo robot che naviga sotto il pelo del cemento.

È moderno e un po’ affastellato, il centro di Ulan Bator, come ti immagini possa essere. Negozi di souvenir e quantità inverosimili di centri informatici, internet cafè e mangerie che crescono senza piano regolatore, ma con un gusto nell'accostamento leggermente migliore rispetto ad Irkutsk. C'è l'ambasciata della Corea del Nord, un'inferriata da serraglio con sopra il filo spinato, come nei film, un monumento a quando prendersi sul serio ti fa diventare ridicolo e quella della Francia, una maison coloniale massiccia, con piante esotiche e lindo soleggiato candore che ti fa sospettare che sia stata concepita per Tahiti o la Nuova Caledonia. Minacciosa, ma con stile. Un po’ come il tirannosauro del museo di scienze naturali. La Mongolia è una coltivazione estensiva di fossili e il museo di quella che i locali americaneggiano con orgoglio in Iuu Bii è grande, ma completamente focalizzato sulle due sale sulla paleontologia. Un viavai di protoceratopi, uno dei quali stecchito mentre se la fa con un velociraptor, un anchilosauro che sembra il carrarmato di Leonardo, quello da Vinci, e sto tirannosauro che regge una buchetta di vetro piena di dollari e tugrik chiedendoti se non è che per caso c’hai spicci.

C’è tutta sta gente giovane che gira per le strade di Iuu Bii, con i sacchetti della spesa del supermercato locale, che sono identici a quelli che vendono a New York, con la scritta “I Cuore NY”, che se solo ci fosse scritto “I Cuore UB” ogni turista ne comprerebbe una risma. Invece così sono i locali a comprarne a risme, tutti sti giovani si vestono come noi. Come in Europa, neanche come in America. Colori sobri e tagli raffinati. Dopo la Russia e le sue giacche di pelo finto arancio fosforescente sembra di essere tornati in un cittadone europeo.

A pranzo si mangia una doppia razione di booz, che sono ravioli al vapore ripieni di una capra squisita. Cass però dissente, citando problemi intestinali. Durante il viaggio Cass ha divorato tre quarti di confezione delle mie pillole per la dissenteria, manco fossero Ricola. Poi saliamo sul bus per dare un’occhiata al palazzo degli ultimi Khan. I biglietti non esistono, ma c’è una bigliettaia sui sedici anni che si infila fra la calca per assisterci per tutto il tragitto, salvandoci dai 300 metri della fermata sbagliata.

Al palazzo dei Khan ci si arriva dritti come un fuso dalla piazza principale, ma quando ci si arriva è già periferia, all’ombra di un casermone giallo con terrazzi di legno, che ha l’aria di essere abitato da espatriati americani. Un palazzo scrostato, quello dei Khan, a differenza di quello degli americani, ma dall’aria vissuta, vera, molto più vera di quelli identici che vedremo a Pechino. Un palazzo di Buddha che escono dalle erbe infestanti, pieno di padiglioni scrostati e sbiaditi all’esterno, ma ancora perfetti, arancio, oro, blu, nelle sale coperte dalle intemperie. Nel padiglione principale, la roba dei Khan, mappe di Ulan Bator, animali impagliati, mobili di legno prezioso e una ger di pelli tigrate. Un gusto basato su strutture diverse dalle nostre, ma mirato come il nostro allo scopo di piacere.

La sera le inglesi ci invitano in un posto che non troveremo mai, peccato per il rock alternativo mongolo. Ma forse era roba da espatriati, meglio così, perché mentre lo cerchiamo finisce che ci trascinano in una discoteca di bassissimo livello, unici occidentali, che non gli pare vero di averci trascinati là, a farci fare la figura degli ospiti speciali, o dei magnaccia. Ci liberano un tavolo, dissipando gli astanti come un banco di pesci diviso a metà da Mosè che apre le acque, mentre il meglio del diciottennume locale ci si si contende. Oleg ha il fuoco di Odino negli occhi. Io vado in bagno, un ragazzino mi provoca timidamente per fare a pugni con lo straniero. Gli sorrido e lui non se l’aspetta.
Oggi ho fatto fare buona figura all’Occidente. Anche Oleg lo ha fatto, perché all’ostello ci torniamo noi tre da soli.

domenica 22 novembre 2009

Nove settembre

La tentazione è troppo forte. Il baracchino bianco è là di fronte e alla fine la doccia ce la facciamo. Fuori è già caldo e i capelli si asciugano al sole. Quasi tutti gli altri gruppi sono partiti, fuoristrada sovietici e pullmini giapponesi sono spariti presto. Qualcuno potrebbe essersi esposto ad una sveglia al freddo, pur di non perdere un’ora. Gente che ha tenuto la sveglia sull’ora di quando lavora, che si sa, perdere il ritmo è uno dei peccati della nostra epoca.

Comunque partiamo anche noi, neanche troppo tardi, che prendersela comoda va bene, ma non serve arrivare al punto in cui vorrebbe arrivare Cass.
Un’altra giornata in sella, stavolta al fuoristrada. Ci dirigiamo verso ovest, di più non so dire. Punti di riferimento non ce ne sono. Le città sono semoventi come le tende a tortiera, un quadrato in muratura con scritto locanda può essere un ritrovo isolato e diventare un paese in un pomeriggio. Ci si sposta, ma nell’enormità non notiamo nessun movimento. Nessun carro, nessun camion carico di tende, nessuna carovana. Si muovono da soli, come animali selvatici senza il problema di marcare il territorio.

Anche la nostra è una giornata solitaria. Le uniche tracce di civiltà sono antiche, già partite da secoli verso la Cina, l’Europa, l’America. Mura misteriose che si alzano dalla prateria. Ci fermiamo, solo mura, nessun'altro indizio. L’archeologo tedesco, un ragazzo della nostra età, occhiali con la montatura spessa, capelli lunghi e ricci raccolti in una coda, barbetta d’ordinanza, finge di non vederci. Forse ce l’ha con i turisti. Ma forse no, ce ne accorgiamo quando ci prende lo stesso impulso. Il silenzio è contagioso e nel fuoristrada si sentono solo i rumori della pista. Non automobili in direzione contraria, ma il rattolìo degli assali nelle buche, gomma che arranca su pietra e terriccio secco, il tuffo nei rivi stretti, l’uscita slittando sulla terra bagnata per scivolare poi su quella secca. Fanno silenzio gli animali, le aquile, i cavalli, le capre, i cammelli e gli yak. Forse ci ricordiamo di essere animali anche noi. Non una parola, mentre la bestia che ci custodisce nel suo utero socialista arranca nei prati. Solo una volta ci superano due uomini al galoppo, tabarri grigi con un panno giallo alla vita.

È una giornata verde scuro e blu. Immobile come l’aria. C’è un piccolo monastero che sembra un convento. Moderno, bianco del recinto che lo circonda. Dall‘esterno dei muri bassi non si vede nessuno. Fuori una ger isolata e un gazebo dipinto dei colori del lamaismo, arancione e azzurro, rosso e verde. Colori vivi intonati col cielo. Attorno il vuoto. Mangiamo sotto il gazebo, evitando l’ombra, perché fuori dalla mano calda del sole, alzata su di noi in segno di benedizione, fa quasi fresco.
E dalla ger esce un bambino di tre anni, a cavallo di una macchina di plastica rossa, blu e gialla. L’unica persona fra la tenda e il conventucolo. È felice di trovare compagnia, cinque persone scodellate dal ventre della terra in una scatola di ferro verde scuro, temprato dagli sforzi di proletari russi, calmucchi, uzbechi o tuvani. Abbandoniamo l’arte zen della digestione di salame, cetrioli, biscotti e buche mattutine per calciare Garbömbög verso l’infinito. Il bambino è dotato di una buona potenza nel tiro, ma soffre nelle fasi più tecniche del gioco. Ma ride e negli occhi leggi che la solitudine per lui è una circostanza imprescindibile, lo stato naturale dell’essere, ma senza essere una sensazione da perseguire volontariamente. Gioca, dà fondo alla sua necessità di socialità, ma quando partiamo non si scompone. Sa che partire è necessario e non si è mai aspettato che non lo facessimo.

Il fuoristrada si arrampica su colline pelate e dietro ad una di loro si apre un mare, anzi un lago, perché nell’infinito le distanze ingannano. Un lago tempestoso di acque neroblù. Il sole è quasi coperto ora, il vento ci colpisce a folate. Il fuoristrada si ferma appena raggiunta la riva. L'idea è quella di montare le tende, tende tradizionali, triangolari, per l’ultima notte. Ma non ho voglia di accamparmi, propongo una camminata. L’idea è accolta senza entusiasmo. Indico un punto dietro una collina, lungo la riva, dico che là sembra riparato dal vento. Parto senza attendere una risposta e l’unico a seguirmi è Tomas, che nella sua vocazione di intermediario ha preferito evitare di esporre il suo parere, ma è a favore della camminata. Per la prima volta parliamo di Cass e della sua pigrizia. È solo qui che Tomas mi confessa che la cosa dispiace anche a lui.

È una camminata che ci rende liberi, a piedi, l’unico modo per rendersi conto delle dimensioni della terra, misurare cubito per cubito usando le scarpe da ginnastica come calibro.
Il terreno è forato da roditori invisibili, ogni foro collegato da una minuscola pista in linea retta. Una rete viaria più capillare di quella umana, in questo paese.
Dietro la collina c’è una mandria di cavalli al pascolo. Vederci li spaventa e li spinge verso l’acqua. Le nostre fotografie dei cavalli nell’acqua potrebbero essere poster nella camerettaa di qualsiasi adolescente europea.
Sulla riva spicca una bottiglia verde di Sprite, di un verde intenso perché il liquido che fa da base al verde non è gazosa trasparente, ma un altro liquido bianco, che ormai conosciamo. Scatto altre fotografie di Tomas con la bottiglia, nel caso qualcuno volesse fare una campagna pubblicitaria in favore del latte di cavalla fermentato.
Troviamo uno spiazzo che sembra prottetto dal vento, un rientro del lago con uno svallamento dolce, con ciuffi d’erba gialli e rari cespugli. Decidiamo che potrebbe essere il punto adatto per piazzare le tende. Torniamo indietro e troviamo tutto come alla nostra partenza. Addirittura lo sportello sul lato destro, riparato dal vento, è ancora aperto, come lo avevo lasciato io. Tutti e tre i passeggeri dormono e provo un senso di tristezza. Amarezza per Olof, che non proverà mai quel senso di libertà che gli sarebbe costato così poco. Dopo tutti questi chilometri, questo tempo e questi soldi spesi, fermarsi cinque metri dal traguardo per riprendere il fiato sembra un peccato.
Chissà se conosce la storia di Dorando Petri.

L’equipaggio della jeep accetta la nostra proposta e ci portiamo nello svallamento per fare campo per la notte. La nostra valutazione però era errata. Probabilmente la camminata ci aveva riscaldati, facendoci sentire un calore inesistente. Ora invece pare che il vento tiri forte come nel punto da cui siamo partiti. Pazienza. Montiamo le tende, con la scatoletta verde parcheggiata fra noi e il vento, come un ombrello da borsetta in una tormenta.
Con il passare del tempo il vento raschia via il calore dall’aria. Ripeto il nostro rituale animista, entro nel lago a piedi nudi e pratico la sacra minzione, ma appena vedo una limaccia supersonica sfrecciare fra i miei piedi salto a piedi pari sui sassi scomodi della riva, prima che la sanguisuga mi si attacchi.

E poi sono tutti stanchi. Vorrei fare un’altra camminata, ma il massimo che cavo è una partitella di calcio. Chissà perché non mi viene in mente di andare da solo, forse sono pigro anch’io. Ormai fa freddo e dobbiamo tenere la giacca a vento abbottonata bene perché il vento gelato non ci sorprenda nel basso ventre. Anche Agghi si unisce alla partita su questo campo enorme e irregolare, a forma di curva parabolica. Garbömbög è un pallone da pallavolo regolamentare e non ha il peso di un SuperTele, ma il vento riesce comunque a portarcelo via, noi lo recuperiamo e il gioco diventa lanciare bordate controvento, con il pallone che ci viene restituito regolarmente. Da una baracca di legno in cima alla collina, uno dei pochi edifici concepiti per poggiare in un unoco posto per tutto il loro ciclo vitale, esce un ragazzo con una barbetta di stampo occidentale e una maglietta da metallaro moderato. Fa due tiri anche lui, ma è bravo quanto Agghi e dopo pochi minuti smette. Strano, perché il nostro stereotipo suggerirebbe che per sopravvivere nella prateria serve parecchio ingegno nelle operazioni pratiche. La verità è che Ulan Bator è una città come le altre e non serve puntare a sopravvivere. Si può vivere comodi, anche senza ingegno.

Con la sera arriva il freddo vero e un po’ ci sentiamo in trappola, senza edifici caldi dove rinchiuderci. Rimane solo il fuoristrada. Ceniamo sui sedili, gli stessi che più tardi Agghi chiamerà letto.
Il metallaro autoctono si unisce a noi e accendiamo un falò. All’inizio porta alcune stecche di legno, ma poi proseguiamo a cespugli secchi e sterco di diversa provenienza zoologica. Lo sterco brucia bene, è profumato. Meglio del legno. I mongoli cominciano a parlare la loro lingua, solo Ciuca sa l’inglese e tendono ad isolarsi da noi, affascinati dalle storie che racconta il Dersu Uzala from Hell. Quando insistiamo Ciuca traduce, la storia del primo carro armato nelle tre baracche che qualora integrate da un paio di tende fungono da villaggio. Un carro armato inviato da Stalin, pare che il volgo l’avesse scambiato per un animale da catturare con corde. Constatato che le corde non bastavano, i villici lo avevano cosparso di grasso per dargli fuoco. La forza del socialismo deve essere apparsa piuttosto convincente da queste parti.

Bruciato tutto lo sterco disponibile alla vista e al tatto entriamo nelle nostre tende. Io dormo con Cass, che nonostante la dose pomeritdiana appoggia la testa e parte. Io invece devo disfare la valigia e stuzzicare la mente con mille soluzioni per coprire me e i due sacchi a pelo che da soli non bastano. Alla fine Cass e io dormiamo bene e ci perdiamo i rumori di cui ci parlerà Tomas.

giovedì 12 novembre 2009

Otto settembre

Il segreto dell’estate mongola è non alzarsi troppo presto. Noi ci alziamo alle 8 e il termometro ha già passato i 20. Un’ora prima avrebbe fluttuato attorno allo zero.

Sto bene, ho dormito quanto basta, so di campeggio. Davanti a me la prateria, terra con ciuffi d’erba, a distanza regolare, come uno che si è fatto trapiantare i capelli. Lo stagno a distanza, più in là ciò che resta di montagne antiche, le estremità isolate, smangiate e rarefatte degli Altai, che escono dal terreno come le teiere del deserto del Nevada. Fuori dalla ger hanno parcheggiato una moto. Una composizione da poster per adolescenti, manca solo il coiote che urla di profilo e il sogno americano non è mai stato così vicino. Ce lo dice anche Ciuca, a colazione, che gli indiani d’America hanno origini mongole. Dice che la sua lingua è molto simile ad alcuni dialetti di chi ha scoperto l’America prima di Colombo. Ascoltando bene, la cosa non sembra certo impossibile.

Dopo colazione, accettiamo una gita a cavallo fra le dune. Uno spettacolo, le dune. Il deserto è solo un quadrato di un paio di chilometri, un box con la sabbia per un bambino di famiglia troppo ricca. Non riesco a immaginare come possa essersi generato, solo, isolato nella prateria. Dune e cespugli, tutta corteccia, poche foglie. Ci guida il membro più anziano della famiglia che ci ospita. Non il capofamiglia, traduce Ciuca, quello deve essere giovane. Il nonno non è più in grado di governare le capre. Meglio lasciarlo col suo gregge di turisti mansueti.

Ma il nonno ci sa fare con i turisti. Baffo rado da adolescente, elegante nella sua tunica scura, con un cappello fra il buttero e il gaucho, orgoglioso della sua spilla con la bandiera tedesca. Certi turisti girano con borse di spilline idiote da regalare alle tribù che incontrano sulla via. Anche la Lonely Planet consiglia di farlo. I nordeuropei hanno spesso un fare paternalistico con chi è nettamente inferiore a loro sul piano della civiltà (ma non si dice). Spesso vale anche per gli italiani.

La Mongolia è uno dei paesi più poveri al mondo, dicono. Forse anche perché qui in pochi hanno una casa, mentre gli altri vivono in una ger di feltro da montare e smontare in mezz’ora. Forse perché nessuno possiede terra. La terra è gratuita, ce n'è per tutti e nessuno viene espropriato. In un paese dove non ci si preoccupa di razionalizzare, rendere efficiente, ottimizzare, il termine “estensivo” non trova applicazione. Vale per l’agricoltura e l’allevamento, animale e umano.
A dire la verità non è più così: da tre anni è stata approvata una legge che istituisce la proprietà privata, ma non sono molti ad aver cambiato stile di vita, pare. Almeno a vedere le ger piantate ovunque, anche in città, in mezzo ai cantieri.

Il nonno invece è quanto di più vicino al concetto di imprenditore si possa trovare nella prateria. Dimostra anni di gestione del turismo in stile buon selvaggio. Sa fare fotografie con macchine digitali e telefonini, ci invita ad arrampicarci su una duna di corsa per fotografarci nell’atto. Rabbrividisco quando si mette a disegnare per noi, cavalli e ger con un bastone nella sabbia. E immagino il sorriso quasi commosso sulle labbra del turista euramericano mentre segue l’esibizione del buon selvaggio. Conosce alla perfezione i luoghi più fotogenici e in mezzo al suo deserto da diorama, si ferma e finge di guardare lontano con il monocolo che gli ha regalato qualche nostro predecessore. Ci fa capire in qualche modo che i turisti gli fanno sempre dei regali. Mentre Tomas e Oleg si chiedono cosa dargli, io mi sento imbrazzato, come un diavolo solo e nudo in mezzo al paradiso. Ma anche il diavolo si commuove in paradiso e il sole, le dune, l’altezza dal terreno sul dorso del cavallo e la gioia di non essere più single, mi fanno sentire libero almeno quanto il bovaro delle celebri sigarette.

L’anziano cavallaro ripete i nostri nomi, Tomas, io, poi “cass” indicando il cavallo. Oleg è come sempre a distanza di sicurezza, spaventato dal suo animale pericoloso.Più tardi scopriamo che Cass non è il cavallo, ma la sua interpretazione di Olof. Tomas, Marco, Olof: Tama, Maca, Cass.

Smontiamo dai cavalli fisici e saliamo su quelli ad idrocarburi della nostra jeep sovietica. Incontriamo decine di aquile dalla testa bianca, spesso posate ai bordi della strada, sugli övöö, cumuli di sassi coperti di leggeri panni azzurri. Dicono che per ingraziarsi il genius loci alcuni autisti si fermino ogni volta per costringere l’equipaggio a girargli attorno tre volte. Per fortuna Agghi non è così pio e si accontenta di un colpo di clacson.

A metà strada ci fermiamo per il solito pranzo con gli stessi ingredienti della colazione e della cena. Con la sola differenza che a mezzogiorno subentra il salame e a cena fa il suo ingresso la capra. Cetrioli, pomodori, surrogato di Nutella e biscotti ci fanno intravvedere la mano del signore olandese dietro l’organizzazione. Agghi è carnetariano e si rifiuta di mangiare qualsiasi cosa non abbia respirato o ruminato prima della macellazione, o che non provenga da una creatura che lo abbia fatto. In Mongolia, di orti, se ne vedono pochissimi. Dimostrarsi un vero uomo ha un alto valore sociale.

Mentre mangiamo scherziamo ancora una volta sull’airag, la bevanda nazionale mongola, fatta di latte di cavalla fermentato, “Fermented mare milk”, riportano tutte le guide, usando sempre gli stessi tre termini. Già da qualche giorno l’airag è diventato oggetto di battute ricorrenti e Ciuca ci anticipa che presto potrebbe venire il momento di provarlo davvero. Un po’ ci spaventiamo, perché nessuno aveva ancora parlato di assaggiarlo, ma l’effetto dell’ilarità è molto più forte.

Nel primo pomeriggio, immersi nella canicola, scorgiamo a distanza una concentrazione di ger e un enorme recinto in muratura bianca, colore pulito, innaturale fra gli ocra e i verdi della prateria. È il monastero di Karakorum, antica capitale della Mongolia, già visitata da Marco Polo. Ora, fuori dal tempio, rimangono solo le tende.

È divertente visitare un monastero tenuto a modo mongolo, all’interno delle mura campi di erba alta, non mi stupirei di trovarci animali al pascolo. Ma gli interni degli edifici religiosi sono stupefacenti, arancio, rosso, blu, giallo tuorlo. Mi divertono le donne anziane in pellegrinaggio, che si comportano esattamente come i nostri anziani nei monasteri cattolici più in voga.

In Europa si parla del buddismo come di una religione pura, incontaminata, fatta di meditazione, sentimenti importanti e dedizione, così non posso che sentirmi sollevato a vedere i monaci in preghiera, quelli più giovani con espressioni visibilmente annoiate. È sempre una soddisfazione, riportare a terra gli uccelli che sembrano volare troppo in alto, corvi che da terra sembravano falchi.

Nel buddismo, come nel cristianesimo, quello che affascina, che converte anime, sono i simboli. Le parole che appagano di più perché non vengono dette, ma lasciate intendere. Il simbolo della bandiera mongola, ricalcato dai muri del monastero di Karakorum: il fuoco, il tao, la luna, il sole, le colonne della vita o della ragione. Pensandoci bene, tutta bellezza, forza, eleganza, meditazione in potenza, nessun significato stabile e univoco e che ognuno ci legga quello che vuole, come nella Bibbia.

Il simbolo fa da stipite anche al portone del monastero. Di fronte tre tende azzurre, tende quasi tuareg, non ger, una con un’aquila addestrata a farsi fotografare, un’altra non so cosa venda, la merce esposta male non attira la mia attenzione europea. L’ultima non sembra vendere niente, non espone messaggi o cartelli, ma Ciuca va a colpo sicuro. Là sotto, al riparo dal vento più che dal sole, proveremo l’airag.

La mia famiglia, come da tradizione locale anaune, ogni anno a giugno raccoglie ceste di fiori di sambuco per farne uno sciroppo molto dolce, tagliato con poco acido citrico, da diluire con l’acqua. Agli ospiti non piace mai, ma noi siamo abituati al suo sapore. Capita che qualche bottiglia chiusa male fermenti. Quello è il sapore dell’airag, un sapore fermentato, non nuovo, né particolarmente strano. Neanche buono, ma è tutta questione di abitudine. Come per il sambuco e più avanti per la birra, anche per l’airag. Un altro paio di tazze e ci potrebbe anche piacere.

Ciuca ci porta al mercato nero, che qui è il nome che si dà a qualsiasi mercato gestito da zingari. Per 3000 tugrik, 3000 lire, ci aggiudichiamo un pallone da pallavolo bianco, giallo, blu, con scritto ГАРБӨМБӨГ, che in mongolo significa pallavolo. Lanciamo Garbömbög nei prati di Karakorum, come sempre all’apparenza infiniti, ma contornati da montagne lontane che sembrano appartenere a un altro piano, come il cielo che fa da sfondo ai presepi. Fra il monastero e un campo di ger ad uso turistico (ridicolo, per 1500 lire ti puoi fare anche la doccia!) ci lanciamo nel più sacro degli atti liturgici, la partita di pallone. Corriamo calpenstando erbe grigie secche che spirano in un profumo leggero, misto di canfora e menta. Ci concediamo bordate che non usciranno mai dal nostro campo, schiviamo cespugli che causano una reazione tattile identica a quella dell’ortica, gridiamo per svegliare i turisti olandesi, svizzeri, francesi, spariti dalla vista, forse chiusi nella tenda spoglia (che tristezza, un interruttore per corrente!) a meditare come bambini che imitano il papà per sentirsi adulti. Li vedo alzarsi alle 5 nelle loro sicure case europee, per meditare, senza mai risolvere i loro problemi di stress, perché non hanno capito che un'ora in più di sonno vale molto più di una di yoga.

La sera, dopo una cena con una capra che diventa sempre più arcigna da ingoiare, entra un uomo sulla cinquantina, pelle gialla squamata dall’età e dal vento, vestito con un costume tradizionale blu e rosso. Vede la bottiglia di airag che Ciuca si è comprata. Lei non c’è e lui ne chiede un sorso ad Agghi. Lui, sdraiato sul letto di tappeti a leggere un libro dall’aspetto più vecchio che antico, con cavalli in copertina, gli fa un segno di assenso. Lui si attacca e se la scola, lasciandone un decilitro perché vuotarla è maleducato.

Poi ci parla, in un inglese di circostanza. È un musicista e ci invita ad ascoltare la sua musica altrettanto tradizionale nella tenda di una coppia svizzera con una macchina fotografica che sembra un obice. Partecipiamo tutti, da tutto il campo. Tutti i maschi, una decina, hanno la barba, tranne il giapponese. Certe cose le devi fare per essere credibile. Cass, col suo pizzetto curato, è l’unico a non esserlo, in questo caso forse il più onesto di tutti.

lunedì 2 novembre 2009

Sette settembre

Dopo l’intensità della prima giornata in Mongolia, dopo essere usciti dalla sua unica città per scoprire il vuoto, aver trovato alloggio in una tenda di feltro con le fotografie dei cavalli e del Dalai Lama, aver consumato parti della capra più gustosa della mia vita, verso le 9 di sera, la batteria d’automobile che tiene viva la luce nella nostra ger comincia a farci capire timidamente che lei ora non serve più. Si spegne a poco a poco, mentre Oleg è già collassato, per primo come da prassi, e Tomas e io continuiamo a riflettere sulle ragazze e quanto sia moderno essere piantati su Facebook.



Lui si trattiene, non pronuncia frasi troppo importanti, mi ha confessato che la ragazza olandese con la quale sta da due mesi gli ha rivelato di stare con lui per gioco. Anche se pare che dalla sua partenza i messaggi che gli manda siano sempre più nostalgici, è stato già bruciato in passato e non ci tiene ad essere ricordato come quello delle ultime parole famose.

Io sento già il sapore di una nottata insonne, sulla mia panca di legno con strati di tappeti, coperto da un sacco a pelo. Mi lavo i denti senza dentifricio, dopotutto mio padre, che fra canini e molari ci lavora, mi ha sempre detto che non fa molta differenza. Eseguo l’ultima pisciata al gelo, puntando verso la luna piena che illumina la sabbia di un colore giallo sabbia. Cerco di commuovermi per lo scenario che ho davanti, ma faccio fatica. Il freddo è dentro e fuori.

Solo il feltro della tenda riesce miracolosamente a creare per noi una bolla un po’ più tiepida. Appena la luce si spegne completamente mi rassegno all’insonnia.
Comincio subito a pensare. Dopotutto l’evento rimane ancora misterioso. Cosa può essere successo in questa settimana senza contatti? Perché questa modalità così triste? Non è da lei, deve essere stato qualcosa di destabilizzante, una calamita contro il quadrante della sua bussola, in grado di spostare gli equilibri.

Penso a Francoforte e al ragazzo della sua amica, un napoletano verboso e intellettualoide (e io stesso incarno la conferma che le piacciono quelli così) che già le aveva annunciato di preferire lei alla sua compagna attuale. Per la prima volta in vita mia sono geloso, anche se è più un caso di “se devi farlo, per favore almeno non con lui”.

Penso che se solo fosse possibile sentirla, almeno per capire cosa è successo…
Penso che teoricamente la cosa sarebbe possibile. Dopotutto il telefono di Tomas funziona, ma non posso svegliarlo e chiedergli di usare il suo prezioso credito.

“Tomas?” "Darf ich mal dein Telefon ausleihen?” Credo che se lo aspettasse, perché la sua voce non suona stupita né scocciata. Si alza, vedo solo il guscio lucido che passa nella mia mano, digito il numero olandese, identico al mio fino alla penultima cifra, blatero impacciato un’offerta di risarcimento in euro, corone, tugrik o yuan.

Non mi aspetto che K risponda. Ad Amsterdam sono le 4 del pomeriggio, lei è un’impiegata modello e solitamente si tiene alla larga dal telefono. Anche se non è spento e il rumore della vibrazione è sufficiente per essere percepito, non è comunque detto che abbia il permesso di rispondere.



K risponde. Con un “h’lo” multifuzione, valido per tedesco, inglese e olandese. Mi è sempre piaciuta la sua voce al telefono. Ha una melodia che sa di anni di coro popolare, con alti molto intonati. La sua voce da sola mi rincuora comunque subito, qualsiasi cosa mi voglia dire.

È sorpresa di sentirmi, reazione non inattesa. È piuttosto il suo tono, pacato, come se niente fosse cambiato fra di noi.

Non le chiedo come sta, le chiedo subito ragioni. È stupita. Dice di non sapere di avermi lasciato, dice di aver semplicemente nascoso alcuni dati sul suo profilo, tra cui quello relativo alle relazioni. Dice di non essersi accorta del messaggio che dichiara che “K is no longer listed as in a relationship” e cambia tono. Ora piange. Si sente sola, dice. Non ha ricevuto nessuno dei messaggi che lo ho mandato dal telefono di Tomas nei giorni scorsi e l’email, beh, io le avevo scritto che per alcuni giorni non avrei potuto controllarla. Per questo non aveva risposto.

Spengo il telefono e Tomas, che dal suo letto ha carpito che la conversazione in italiano ha preso un tono inaspettato, non mi lascia un secondo: “Das klang interessant!” Questo sì che suonava interessante, con il suo accento scandinavo vellutato. Gli spiego, la sua sorpresa aumenta. La mia no, rido in faccia alle cose importanti della vita e mi addormento.

venerdì 30 ottobre 2009

Nove gennaio: antefatto

Ma l’otto gennaio cade in un periodo infausto.
K sta male. Già in settembre avevo sottovalutato l’importanza per lei della perdita del nonno. Da quel punto le cose erano precipitate. In Germania una tesi di laurea può durare un anno. K aveva appena superato la metà. Dalle sue parti la vita si prende sul serio e lei si era forzata ad un ritmo da salariata, otto ore di studio al giorno.

Si può chiedere alla mente umana di fare più di quello che è in grado di tollerare, ma per assumere energia dove serve è necessario rilasciarla in altri punti. La fatica mentale dello studio aveva corroso la carne che isolava i sui nervi, esponendoli pericolosamente agli elementi esterni.

E io non capivo. Non capivo se erano i nervi o lei a parlare. Non capivo le accuse che mi venivano rinfacciate. La mia stupida mania di ragionare mi portava a discutere affermazioni che non avevano basi logiche. Là ho imparato che nessuno ha mai ragione o torto. Dipende tutto dal punto in cui si osserva. Il problema è solo quando si cambia punto di vista nell’arco di tre minuti.

E persistevo nel mio difetto, credere nel dialogo: discorsi di ore che non facevano che stremarci ulteriormente, soprattutto per chi doveva parlare la lingua dell’altro. In queste ore giravamo la verità, di solito dal nostro lato, ma anche da quello dell’altro, nei momenti di pentimento. Ma solo dopo ore la verità era dallo stesso lato per entrambi.

E si finiva sempre per fare la pace, al momento di lasciarci. Alla fermata di Harlemmermeerstation, alla stazione di Aalten, o la sera al computer, ci si lasciava sempre in concordia.

Il giorno prima di comprare il biglietto le chiedo cosa ne pensa. Ma qui non so come continuare. Io dico che mi aveva detto di andarci, a fare sto viaggio. Lei dice di no. La versione più probabile è che per quanto sia sicuro che ne abbiamo parlato, nessun Sì e nessun No siano stati spesi e il messaggio è uscito dalle incrinature causate da diversi modi di interpretare le implicazioni semantiche di frasi forse volutamente ambigue.

Per K la mia idea di partire è un affronto. È vero, non la porto con me, ma questo è perché a lei quel tipo di viaggio non interessa e se voglio fare un viaggio che a lei non interessa, il momento migliore è l'anno in cui lei avrà appena iniziato a lavorare e non avrà giorni di ferie da passare con me. Inoltre, dopo cinque anni a vedersi una volta ogni due mesi, non mi pongo neanche il problema per tre settimane di distanza.

E io non capisco le sue ragioni. Cè qualcosa che cerca di farmi capire, ma non riesco ad afferrare. Si vede che a volte è disperata perché vede che non afferro, ma io, per quanto ci provi, non riesco a farlo.

Ma poi arriva la laurea. K si calma, si trasferisce ad Amsterdam con me, trova subito lavoro e anche questi discorsi diventano meno frequenti. L'estate tonifica e anche le settimane prima del viaggio passano tranquille. Anche nei messaggi spediti e ricevuti nei primi giorni a Mosca si legge pace e concordia. E poi silenzio, fino a quel giorno, ad Ulan Bator.

lunedì 26 ottobre 2009

Otto gennaio: preambolo

Sul treno, la sera della partenza da Mosca per Irkutsk, sono pensieroso.
La stanchezza rende i pensieri più cupi, e io lo so che è solo colpa della stanchezza, cerco di convincerne il mio inconscio, ma non riesco ad allontanare la delusione.

Mi sento come se avessi sprecato del tempo. A Mosca abbiamo avuto solo due giorni e tre notti e abbiamo passato troppo tempo seduti per bar e locali, o nell’ostello.
La cosa ci sta, gli altri erano avvelenati, ma quello che veramente mi preoccupa è Olof. Ci frena, rallenta l’andatura, ci impone soste fastidiosamente frequenti, nei posti sbagliati, cerca la vita di casa sua.
Ci dice “ragazzi, la vacanza è fatta anche per rilassarsi". Non gli rispondo che se avessi voluto rilassarmi sarei andato al mare, ma trattenermi mi costa energia.

Tomas mi aveva avvertito un mese prima, dopo averlo reclutato. “Non so, l’anno scorso è venuto con noi al Nord, a vedere il sole di mezzanotte, ha portato delle scarpe di pezza che dopo dieci minuti erano inservibili. Quando eravamo in cammino era sempre cento metri indietro e a me toccava fare la spola fra lui e il resto del gruppo".

Olof ci racconta candidamente di essere stato ad un festival musicale ed aver visto due concerti in tre giorni, perdendosi il suo gruppo preferito perché era troppo stanco.

Sembra uno così, si butta nelle avventure per eliminare ogni carattere avventuroso, come uno che fa i 3000 metri siepi girando attorno agli ostacoli, o che si compra un cavallo, ma non si fida a cavalcarlo e lo tiene nella stalla, non si sa se per la gioia di guardarlo o per mostrarlo agli altri.

Olof si unisce un mese prima della partenza, mentre stiamo cercando qualcuno che parli russo. Olof non parla russo, ma l’anno scorso è stato a Pechino ed è rimasto affascinato. Ci è rimasto due giorni e dice che due giorni bastano, ma ci torna comunque volentieri.

Olof però è garbato, gentile, generoso, sempre tranquillo. Quando ha un'idea, cerca di fartela intuire prima di esporla. È l’elemento estraneo del gruppo e lo sa, lo ammette senza dirlo e il più delle volte lascia che siamo noi a decidere. Ci rallenta, ma ci frena anche dalla smania di fare tutto e niente. Col passare dei giorni si lascia coinvolgere sempre di più e non si lamenta mai se non si fa quello che vuole lui. Olof diventa subito Oleg, perché per pronunciare il suo nome servono una calma e una pazienza che solo lui ha. La O è una U lunghissima, che si ferma con una pausa, prima dello schiocco del "lof".

Olof ci salva la vacanza. Se l’ambasciata russa a Stoccolma non gli avesse imposto di presentare un itinerario e i biglietti, se non avessimo speso tutte quelle corone prima di partire, e fossimo andati all’avventura, come Tomas e io volevamo fare, probabilmente avremmo perso troppo tempo inseguendo biglietti, saremmo rimasti in scompartimenti separati e non avremmo potuto fermarci abbastanza in Mongolia o peggio, avremmo rischiato di perdere l’aereo.

Ma quella sera sono pensieroso, perché vedo in pericolo i piani di un anno, tutte le mie letture, gli studi, la preparazione.

È il 30 novembre dell’anno scorso quando Tomas viene a trovarmi ad Amsterdam.

Tomas e io ci conosciamo da sette anni. Ci siamo trovati in Erasmus, a Colonia, abbiamo cominciato a parlare una sera in un locale sulla Luxemburgerstraße e abbiamo capito subito di avere molto da raccontarci.

Tomas e io uniti siamo un generatore di idee inutili ma divertenti, come quando ci siamo presi una giornata intera per percorrere l’intero percorso della metropolitana terrestre di Colonia, muniti di due fusti di birra (Harald e Karl-Heinz), più come decorazione che con mire alcoliche e manifesti inneggianti all'impresa, coinvolgendo una quindicina di altri studenti.

In quei tre mesi prima che lui tornasse a casa non abbiamo avuto modo di frequentarci spesso, ma dopo l’Erasmus siamo riusciti a trovarci sempre un paio di volte all’anno, quasi sempre in luoghi diversi. È venuto in visita apostolica in tutte le tappe del pellegrinaggio dei miei studi, mentre io sono stato da lui in Svezia per un mese, prima a casa sua in un paese perso fra i boschi, poi mi ha accompagnato a Stoccolma, dove ho conosciuto Olof e ho dormito per una notte a casa sua, poi siamo saliti sulla sua Volvo cadente diretti verso la sua casa sul lago Vättern, per terminare nel suo appartamento di studente a Göteborg. Mi ha presentato alla sua nonna ricca e poco amata, ho scoperto più tardi, per disturbarla, passandomi tacitamente per il suo ragazzo.

Cafè Amsterdam, Ulan Bator

Il 30 novembre arriva ad Amsterdam in treno, dopo un mese in viaggio, traducendo al computer durante il viaggio per mantenere se stesso e le sue idee. Viene da un giro dell’Europa in treno, dalla Svezia alla Slovacchia per trovare sua sorella che studia Medicina in un paesino, a Roma da Nicola, alla stazione di Prato ha avuto 30 secondi per fare ciao ad Ilaria e Margherita, poi un pomeriggio a Parigi, Bruxelles e infine Amsterdam.

Quella sera usciamo a vedere un concerto, poi giriamo per i bar attorno a Leidseplein, beviamo birra belga, ma neanche troppo. Di sicuro è più l’euforia che l’alcol a portarci a pianificare il prossimo incontro. Escono nomi sparsi, Camerun, Patagonia, ma Tomas è entusiasta dell’idea del viaggio in treno. Nomina la Transiberiana e mi chiedo come ho fatto a non pensarci prima.

La risposta è semplice: ci ho pensato, ma non ho mai preso l’idea sul serio. Sembrava una cosa troppo grande, complicata, forse pericolosa.
Era una di quelle cose che si sognano, ma non si fanno mai. Ci si pensa, è bello sapere che è possibile, è un’ottima scappatoia per un giorno nel quale dovremo fuggire da qualcosa. È utile e dilettevole porsi un traguardo irraggiungibile. E poi, pensandoci bene, Novosibirsk e Ulan Bator non si sa nemmeno se esistano davvero.

Ma Tomas non è un sognatore e quando propone di fare qualcosa, lo intende davvero.

Chinatown, Amsterdam

A inizio gennaio, la depressione del periodo grigio dell’anno mi impone di fare programmi. Cerco voli a basso prezzo per l’Africa. Il 5 gennaio contatto Tomas con un paio di idee, ma lui ha già tutto programmato. Austrian Airlines, Amsterdam – Mosca, Pechino – Amsterdam. Il giorno dopo in ufficio non ho lavoro, lo contatto su Skype e compriamo i biglietti dal 29 agosto al 19 settembre, il massimo delle ferie che posso permettermi dal lavoro.

domenica 18 ottobre 2009

Fine agosto, inizio settembre

A Mosca, in una strada appena dietro la Piazza Rossa, vicino al centro commerciale GUM, si ferma una macchina sul bordo della strada, con la musica a palla. Roba che succede ogni giorno ovunque, poiché la prole dalla madre dei tamarri, si sa, è sparsa per il mondo. Ma in Russia, la signora, deve essersi data parecchio da fare. La canzone che tutta la via ha modo di apprezzare dice “voulez vous, voulez vous, voulez vous dancer”, anzi, è più un vullevù, perché il resto della canzone è in italiano.

Non è il momento migliore del viaggio. O meglio, per quanto mi riguarda potrebbe anche esserlo. È la mattina dopo una delle rare notti in cui sono riuscito a dormire quanto basta. Un toccasana dopo gli eccessi della prima notte e l’eccesso di zelo della prima sveglia, dopo le quattro ore di sonno della notte della partenza. Ho una fotografia con Tomas e me, alle 5 di mattina, alla partenza, sul treno fra Centraal e Schipol, la prima immagine del viaggio, la mia faccia scavata come doveva essere quella di qualche antenato negli anni in cui in Trentino si faceva la fame.

Devo aver avuto un aspetto migliore il giorno dopo, dopo 26 ore di veglia, ma in compenso la soddisfazione di alzarti in un letto non tuo, a migliaia di chilometri da casa, dopo una serata nei locali di Mosca, guidati dai più giovani impiegati dell’ambasciata svedese. Che poi non è che sia uno schiavo della vita notturna, ma a Mosca, direi, fa parte del gioco. Ti muovi, sei nettamente straniero. Non di faccia, io e i miei compagni potremmo tutti essere russi. Ma il modo di vestirsi, quello sì che fa diverso. Giri in discoteca e le ragazze ti guardano fisso negli occhi. Anche i ragazzi, ma è per sfidarti e allora meglio darsi sconfitti in partenza. Nei locali tutto costa relativamente poco, per un secondo ti assale la sindrome dell’oligarca, ma no, lascia che sia Tomas a comprare lo Шампaнское. “Che tristezza”, pensi, ma lo lasci fare, e un bicchierino se te lo passano lo butti giù anche tu, sempre a fare l’intellettuale da 0,99. Che schifo, lo sciampanskoe, alla Coop vendono di meglio.

Molto meglio la Sibirskaya Korona, lo si capisce al primo pasto. Ristorante self service, l’unico non etnico, foderato di legno e odore di cavoli. Guardano calcio inglese e ci vuole del tempo perché ti allunghino sti tre boccali. Tutto sa di casa cantoniera: in Russia si mangia male. Tranne al ristorante caucasico sull’Arbat. Кебаб di manzo per te, pollo e agnello per gli altri. Ma è quello il maggiore indiziato. La mattina dopo i due nordici hanno lo stomaco avvelenato. Per questo non è il momento migliore, per loro. Perché tu hai dormito anche il loro sonno, mentre loro torcevano tutti gli organi fra il torace e l’inguine, sapendo di non poter strizzare via il male. Perché tu la vuoi vedere, sta città, anche di giorno, li trascini al Cremlino e loro ci provano, di buona lena.

Comunque secondo me Oleg fa finta, di star male. Lui non propone a parole. Ma il suo sguardo è insistente, così Tomas, che è buono e coglione, glielo concede, e lo propone lui di andare allo Starbucks. Oleg si ciuccia mezzo litro di caffè e rinasce. Nel deserto della Mongolia, nella Città Proibita, periodicamente ricorderà quel caffè a costo europeo, allo Starbucks di Mosca. E periodicamente lamenterà ritorni del Male, ciucciandosi metà confezione delle mie pillole olandesi, un miracolo farmaceutico scoperto tardi.

Intanto, seduti alla caffetteria, la città abbiamo ancora da cominciare a vederla e sto perdendo la pazienza. Tomas anche e con la maggioranza ristabilita si attraversa di nuovo il fiume per tornare sulla Piazza Rossa. Sul ponte, la Moscova, le cupole d’oro come pomelli d’ottone, dall’altra parte un enorme palazzo, bianco, quadrato, con punte affusolate, probabilmente concepito da Stalin dopo aver letto Tolkien. La prospettiva coperta dal manifesto pubblicitario più grande che tu abbia mai visto, Il radiatore della BMW è in rilievo, metallo su carta. E dietro la schiena San Basilio, una giostra senza cavalli, rossa e bianca. Sola, isolata, piantata in mezzo alla piazza. Le torri del Cremlino e gli altri palazzi, rosso merlot, sono molto più alti e maestosi. Gli edifici bianchi sul lato esterno, di fronte alle mura violacee, sono spalti per turisti e intellighenzia. All’interno, il Cremlino, è Russia come si sapeva che la Russia sarebbe stata. Fredda di pareti bianche pulite, di architettura monumentale, pini siberiani. Un parco di meli. La piazza della catterale, bianche le pareti, bianco il pavimento, bianco tutto come solo in Novaja Zemlja, con cento pomelli d’ottone, che potrebbero essere minareti, moschee, case di gnomi. Bukhara, Teheran, Dersu Uzala. Il parlamento, il giallo uovo più freddo che ci sia, che col verde bianco e violaceo dei pini siberiani si accompagna con un pugno in un occhio. Fuori.

Il gusto dei russi si vede nel loro parco macchine. Un effetto opprimente di contegno dato dall’assenza di colori che non siano bianco, nero, alluminio. E dai fuoristrada spigolosi, Land Rover, Mercedes come quelli della polizia italiana, spesso corazzati. Spiccano, come macchie di sangue sul tuo lenzuolo bianco, le Lada antiche dei prolet, carrozzerie marinate al sole, spesso anche a colori, sbiaditi. Non pulite, non verniciate, non quadrate.

C’è un’eleganza, nei palazzi di Mosca, che non c’è in niente altro nel resto della città e ci si chiede da dove venga. Convive con l’esibizione della forza, anche nelle persone, con un’aura malinconica, romantica, delicata ma non decadente. È come un quadro di Seurat con piccoli punti rosa, ma anche verde e se guardi da vicino vedi il rosa e percepisci il verde, oppure da lontano vedi il verde e percepisci il rosa. Vedi uno e noti l’altro, ma devi usare due parti diverse del cervello per concepire entrambi.

Forse dico Seurat perché è al Pushkin. È il Pushkin che fatica ad esserci. Non c’è dove paghi il biglietto per entrare la prima volta. Hai sbagliato museo, ma un giro te lo fai, fra le proprietà confiscate ai nobili durante l’Ottobre. Mentre state per scappare per cercare il vero Pushkin prima che chiuda, la signora all’ultimo piano vi nota, si rallegra di vedere dei giovani, per lei automaticamente francesi, nonostante la mia profusione di “Italija”, racconta storie legate ai dipinti. Capisco solo “ballerina”. È un peccato. Solo lei non si arrende alle barriere linguistiche.

E per trovarlo, il vero Pushkin, ci vuole ancora un pezzo. C'è un altro Pushkin, più grande, con opere meno note di nomi più sonanti, ma a me interessano gli impressionisti. Ci passiamo davanti a ripetizione, all’entrata, ma nessuno vuole arrendersi all’idea che quella porta da studiolo conduca a cattedrali di Rouen, pranzi sull’erba e arazzi ricamati di Léger. Il gioco più divertente è decifrare i nomi degli artisti nei cartellini scritti in cirillico. Bан Гог, anyone?

Mi rallegra, il Pushkin. Non perché voglia fare quello sensibile che l’arte lo commuove davvero, ma è uno spazio intimo, pareti di colori caldi, luci gialle al tungsteno incandescente, paesaggi impressionisti, un soggiorno Tex-Mex. Il negozio di souvenir più piccolo di qualsiasi museo d’arte mondiale: un tavolone con sopra una decina di libri sgualciti, qualcuno anche in inglese. Una via d’accesso che è una corsia d’ospedale. E poi su per le scale e diventa questa specie di soggiorno con entrata ridotta per studenti.

È pieno di europei. Mentre nella Piazza Rossa i turisti erano cinesi, sudamericani, vietnamiti, arabi, al Pushkin si parla europeo. Solo chi ha ricordi piacevoli può ricordarsi del passato.

Quando guardo le icone, i miei compagni credono sia religione e mi guardano con l’espressione tollerante che hanno al Nord nei confronti di chi viene da paesi dove si fanno ancora quelle cose. Anche perché io per impressionarli ho detto che sono cattolico praticante. Invece è una specie di tributo a mia madre, che quando aveva tempo, le icone se le faceva da sola, con colori a olio e foglia d'oro. Le guardo anche per lei, che se glielo dico è contenta come se le avesse viste di persona. Voglio comprargliene una, ma non le trovi così, nei mercatini. Finisce che ne prendo una stampata, di plastica su compensato, di quelle che le anziane russe tengono in casa per pregare, per poi subito rendermi conto della sua tristezza. Come regalare il Tavernello a un sommelliere.

Mai vista una quantità di souvenir pari a quella delle bancarelle di Mosca. Qualsiasi cosa sovietica è culto, soprattutto se militare, spille, borracce, maschere antigas, caschi dei MiG, ma anche orologi squadrati, macchine fotografiche, indumenti invernali, matriosche orrende, magliette celebrative o meno, spille con stelle, falci e martelli, stemmi della Dinamo, dello Spartak, della Lokomotiv e del CSKA.

La seconda sera vogliamo andare a letto presto. Prima di mezzanotte siamo già all’ostello. Ma ci perdiamo già sulla porta. Ci sono un cinquantenne americano e una ragazza irlandese (“Did you see the Kremlin? I went there but I didn’t find the entrance, ended up just eating an ice cream”). L’americano gestisce l’ostello. Un tipo garbato, che con la gente ci sa fare, profilo quasi indiano americano, lunghi capelli bianchi, accento del Sud degli Stati Uniti talmente forte che lo individuo perfino io. Andiamo al minimercato a comprare birra. Ci racconta di aver fatto il Vietnam, gli ultimi 9 mesi, a Saigon, con l'ordine di richiamare all'ordine i soldati americani che si lasciavano attrarre dalle donne locali.

Sembra onesto, o forse è la sua abilità a raccontare che merita di essere pagata con la fiducia, ma gli americani vanagloriosi abbondano in ogni ostello. Solitamente cinquantenni, barba bianca, pieni di storie da raccontare. Per scoprire se raccontano la verità, basta contare quante delle loro storie parlano di furti, rapine, assalti, pistole. Sempre all’ostello a Mosca ne conosciamo uno che in un'unica traversata in treno è stato derubato (“he got my last 50$ out of my pockets, I go, you keep them dude, what can I do?") e assalito da un omosessuale messicano nel suo letto in terza classe ("I turned myself on my back and didn’t move all night”).

È incredibile quanta gente si trovi nella sala comune degli ostelli durante il giorno. Uno pensa che i turisti siano là per guardarsi in giro, a Mosca di solito ci si capita una volta nella vita, invece molti passano il tempo a sonnecchiare, bere birra, parlare con altri turisti o viaggiatori, addirittura guardare film. Non dirmi che Leon non te lo puoi guardare sul divano di casa, quando torni.

C’è questa coppia di ventenni inglesi. Passano il pomeriggio a sonnecchiare nella stanza comune (“Did you see the Kremlin? We went there, but it was too expensive, ended up here because we were tired”). Hanno sei mesi per raggiungere l’Australia in treno, partendo da Londra. Si fermano un giorno qua, mezza giornata là. Forse hanno un’agendina con i nomi dei posti dove sono stati per raccontarlo agli amici. Senza agendina rischierebbero di dimenticarsi qualche nome.

Più tardi passano i tedeschi. Un gruppo di almeno quindici tardoadolescenti. Io li ammiro i tedeschi, nessun altro sarebbe in grado di portare quindici ventenni attraverso la Siberia. Intanto loro fanno la fila all’angolo computer. Osservo gli schermi, tutti collegati a Facebook. Immagino che dopo la traversata uno possa avere diversi spunti per messaggi di stato memorabili. Come lo so che hanno fatto la traversata? Due o tre di loro hanno la maglietta con scritto I ♥ Novosibirsk, solo che al posto del cuore c’è il simbolo dell’Adidas. Potrebbero aver studiato ad Akademgorodok, là vicino, l'enorme città universitaria sovietica, ora apparentemente in declino. La mafia non investe in educazione.

È già l’ultimo giorno a Mosca, facciamo la spesa per il viaggio in un negozio dal sapore sovietico. Uno stanzone intonacato con scaffali con le merci, dietro ad un bancone a ferro di cavallo. Se vogliamo qualcosa, dobbiamo chiederlo alla cassiera, che ci tiene a farci sapere di essere tutt’altro che entusiasta all’idea di dover prendere un prodotto qua e uno là, dovendosi spostare di continuo. Copriamo te, pane, acqua, biscotti per quello di noi che non riesce ancora a fare colazione salata. I prezzi sono occidentali, ma anche i russi fanno la spesa là. Tornando all’ostello troveremo un supermercatino di tipo tradizionale, a prezzi più bassi e qualità migliore, ma ci accontenteremo di un po’ di pasta cinese istantanea e una bottiglietta di kvas.

Abbiamo solo il tempo di vedere il tramonto nel parco monumentale, aspettandoci di trovare busti di Lenin che sono stati epurati da un po’, camminare per una decina di minuti dalle parti dove abitano i russi e poi dobbiamo caricarci gli zaini sulle spalle e correre verso la stazione Yaroslavl per prendere il treno.

domenica 11 ottobre 2009

Due settembre

Però la prima sera, in treno, Irkutsk è ancora lontana e stappiamo Baltika e Sibirskaya Korona con le ragazze tedesche.

Due bottiglie a testa, mica bagordi, ché domani ci si sveglia presto per vedere gli Urali. Le ragazze hanno un gioco con tanti cartoncini con parole in russo. Sta a noi non favellanti provare a leggere il cirillico e loro devono interpretare la nostra lettura e indovinare il significato. U domina incontrastata. Forse anche per questo va avanti a giocare anche quando le altre si sono già stancate da un po’. Una di loro vorrebbe andare a letto e prova a sdraiarsi sulla cuccetta di sopra. Ma in treno la buonanotte è una prova corale e necessita di coordinazione. Comunque anche le altre sono sul punto di cedere e smettono di parlare inglese. Oleg rimane fuori da subito perché non capisce il tedesco, ma resta là, imperterrito, perché vedere gente e bere birra sono i motivi che lo hanno spinto a viaggiare e per una volta, timidamente, ha davanti a sé quello che vuole.

Gli unici a continuare l’improvvisato gioco più o meno educativo siamo io, Tomas e U. Il cartoncino passa nelle mie mani. Sta a me provare a decifrare il cirillico. U mi guida lettera per lettera e per indicarle appoggia le sue dita sulle mie, ci guardiamo negli occhi per un secondo, che termina con la mia bocca che si stringe in uno sguardo corrucciato, che dovrebbe spiegare il fatto che so quale sarebbe la prossima mossa da fare, ma non lo posso fare. Lei sembra capire. Sfumano così gioco e comunicazione, soprattutto con le altre, che nel piccolo della cuccetta hanno avuto modo di osservare il tutto.

In pochi minuti le tre sono tutte a letto. Nella prova corale, quando si è sul 3 a 1, l’Uno deve andarsene o adeguarsi. Per una volta è Oleg a risolvere la situazione. Si alza per andare a letto. Tomas lo segue e io vado con loro.
U trova che la solitudine non sia moneta per una chiacchierata e nei giorni successivi, alle fermate, ci si limita ad un saluto, per lei già di sé imbarazzante. L’ostracismo è vivido nella sua iride celeste.

Ma sul treno non saremo soli.

Un pomeriggio, non chiedetemi dove, parliamo fra di noi nel nostro vagone. Sto insegnando ai ragazzi qualche parola in italiano, di quelle che in teoria nessuno dovrebbe usare, ma è bene imparare presto quando si studia una lingua. La parolaccia non la scandisco in modo particolare, non la pronuncio isolata, ma solo all’interno di frasi nelle quali non viene accentuata particolarmente.
La porta dello scompartimento è aperta. Da un momento all’altro, senza averlo mai fatto prima, entra la bambina dello scompartimento vicino, di cinque o sei anni, inneggiando alla fellatio in italiano.

Sento i brividi della vergogna. Le dico qualcosa, la incoraggio a dimenticare. Ma lei è già scappata, per tornare due minuti dopo con una macchinina rossa. Mascìnchi! Ci dice. Io le dico Ferrari, Massa, Raikkonen, macchinina. A lei piace di più l'ultima. Da quel momento siamo nel radar di tutti i bambini del vagone. Tanti. Diventiamo un parcheggio di mascinchi. Loro sembrano capire fin dall’inizio che non parliamo la loro lingua e, mentre la bimba bionda dai capelli mai pettinati sfoglia le nostre guide, per indicare le figure ed insegnarci parole russe, l’amichetto timido sta dietro di lei e ripete affascinato l’equivalente nelle nostre lingue.

A Tyumen, la città più antica della Siberia, sale una signora. Entra nel nostro scompartimento e si accuccia sul letto superiore. Dormirà e leggerà fino ad Irkutsk, spandendo poche parole, con l’aria di chi è costretta, ma preferirebbe non farlo. Cerchiamo di non confermare il suo preconcetto sui turisti stranieri. I bambini invece vivono ancora con l’ora di Mosca e a mezzanotte sono a pieno regime, con le loro mascinchi a pieni giri per coinvolgere noi stranieri. Cerchiamo di indicare la signora che dorme, ma stavolta non capiscono, né si sforzano di farlo.

Entrano in scena i genitori, con un timido tentativo di mandarli a letto. Molto timido. I bambini litigano, la piccola silenziosa cade, apparentemente senza causa, ma in realtà spinta. Urla disperata, più per la perdita dell’onore che per il dolore, perché l’atto di viltà della bionda mai pettinata, fra l’altro decisamente più anziana della compagna di viaggio, è passato completamente inosservato fra i russi. Non per noi, ma non sapendo la lingua non ci viene concesso di fare giustizia.

La calma ci mette del tempo a ristabilirsi. Tomas e Oleg dormono insonorizzati dalla musica in cuffia, io, visto che ci siamo quasi, aspetto una mezz’ora sotto le coperte e scendo a Krasnoyarsk, per dire di esserci stato. Ma le stazioni contano come parte della città, o sono non-luoghi come gli aeroporti?

Propendo per la prima. Le stazioni, un po’ di personalità ce l’hanno. Oltre al fatto che dietro l’edificio principale si può scorgere la città, qualcosa lo raccontano sempre. Ci spiegano di cosa si vive, mostrandoci tramogge per il carbone, pianali per il legname o cisterne per il petrolio, ci parlano dei prodotti locali, con le babushche che vendono mirtilli, gamberi o solamente birra e gli indigeribili piroghi. Ci raccontano quanto il governo sovietico fosse disposto ad investire in una città. La stazione di Novosibirsk è sterminata, Irkutsk solo un’ansa sull’Angara. Nei paesi più piccoli non ci sono separazioni fra stazioni e centro abitato. Dietro ai chioschi dove scopriamo che la cioccolata può causare crisi da astinenza, si può entrare di persona fra le baracche disordinate e il grigio dei posti dove la gente non ha l’ambizione necessaria per curarsi di ordine o esteriorità.

Alla stazione di Krasnoyarsk non c’è niente, ma la struttura è grande, bianca, maestosa e stranamente così pulita da sembrare un aeroporto. Dopo una breve camminata nel freddo mi fermo all’esterno dei vagone e arriva il padre dell’unico bambino maschio. Stupito scopro che parla un po’ di inglese. Si chiama Nicolai, il padre, il bambino Gleb, lavora a Chita, il padre, in piena Siberia, ben oltre Irkutsk, sulla linea verso Vladivostok. Dice che suo fratello viaggia molto per lavoro, è stato anche in Italia, ma lui non è mai uscito dalla Russia, pur percorrendo spesso in treno una distanza superiore a quella fra Europa e America. È una persona modesta, gli manca quel fare da prevaricatore che i russi si sentono in dovere di mantenere anche nei rapporti amichevoli. Sembra una persona sensibile e mi racconta del suo lavoro nel settore petrolifero. Mi sembra di capire che sta scrivendo un manuale. Cito un tema caro ai russi, “oil, eh, money, no?”. Lui fa “no, eh, no, me no much money”. Sembra felice Nicolai, anche se sta tornando al lavoro, nell'est della Siberia.



Il giorno dopo, dopo qualche esitazione, Nicolai ci viene a trovare nello scompartimento, brandendo un telefonino con lo schermo graffiato. Sul telefono ha un paio di canzoni in italiano, me le fa ascoltare e si stupisce che io non le riconosca. È Celentano, e mi chiede di tradurgli i testi in simultanea. Anche Tomas sembra divertito, Oleg invece rimane imperscrutabile come sempre.

In Russia, di musica italiana dal sapore di anni Ottanta se ne sente molta.

lunedì 5 ottobre 2009

Quattro settembre

Quando quella sera, nel loro scompartimento, parliamo con le ragazze tedesche, pensiamo di continuo ad Irkutsk, perché l’inverno, là, beh, abbiamo come un presentimento.

Noi ci staremo solo un giorno e mezzo, alla fine troveremo interessante aver visto la Parigi della Siberia, ma ad essere onesti, ci sentiamo leggeri all’idea di non doverci trattenere.

Così come ci sentiamo leggeri appena scesi dal treno, anche con lo zaino in spalla, camminando dalla stazione verso la città, sul ponte sull’Angara. Muoversi fa piacere e l’aria è dolce come le caramelle al pino silvestre. Arriviamo al tramonto, col vento che spazza via il sole. L’alloggio lo abbiamo già, Oleg lo ha dovuto prenotare in anticipo, altrimenti non avrebbe potuto ottenere il visto per entrare in Russia. All’ambasciata non glielo volevano dare senza prove della sua permanenza e lui non ha capito che all’ambasciata russa, forse gli sarebbe bastato tornarci il giorno dopo e trovare un altro impiegato.

Ma ad Irkutsk, l’alloggio, è buona cosa averlo già. Ostelli pare che non ce ne siano molti, tutti stanno in famiglia. Anche noi in teoria, ma la signora, quando suoniamo alla porta, scende e ci porta ad un appartamento tutto per noi e a noi, a dire il vero, presi così e in quel momento, la cosa non dispiace di certo. Dopo quattro giorni sul treno sembra strano avere spazio per aprire le valigie.

La prima cosa da fare è la doccia. La prima da giorni, ma non ci è mancato per nulla, il quadrato di ceramica con la pioggia artificiale sopra. Nel treno la temperatura era perfetta per stare bene senza sudare. Le provodnizze gestivano l’aria da artiste del PH.

Poi Tomas e io mangiamo un pacchetto a testa di pasta cinese in brodo, mentre Oleg non butta giù cibo da giorni, ancora in preda all’avvelenamento moscovita. Usciamo a cercare lo spirito della città e un internet cafè. Ci è venuto in mente che forse, ora che mancano due giorni, è tempo di organizzare il viaggio in Mongolia e per farlo abbiamo bisogno di un collegamento con l’etere. All’improvviso sentiamo il bisogno di internet come non lo abbiamo sentito da giorni. Inoltre non mi dispiacerebbe avere notizie di K, che, con il silenzio dei telefonini, deve per forza avermi scritto un’e-mail.

Nonostante il vento, l’aria della sera sembra quella del mio paese ad ottobre, anche se un paio d’ore dopo è già novembre inoltrato. La notte è fredda, ma l’aria corre asciutta come il borotalco e l’odore delle piante non è uno stanco decotto estivo, ma sa di linfa, viva e balsamica. Profumo. Aria frizzante, dicono, che ci mette le bollicine in corpo.

Ma le bollicine si sgasano presto. All’angolo fra Ulizza Lenina e Ulizza Karla Marxa, zona universitaria, la via dei locali e della vita notturna, è tutto chiuso. È venerdì sera. I ristoranti sembrano tetri, vuoti e gli internet cafè segnalati sulla Lonely Planet danno l’idea di non esistere.

Andiamo a finire nella hall di un hotel a diverse stelle. Vogliamo chiedere di usare uno dei loro computer, ma all’interno, per caso, troviamo una sala attrezzatissima, dove si nasconde la gioventù della città a giocare a poker in rete. Inviamo dieci e-mail identiche a tutti gli operatori turistici di Ulaanbaatar indicati sulle guide e speriamo di mietere bene la sera successiva. K non ha ancora risposto, il che mi stupisce, ma le scrivo di rispondermi e conto che il giorno dopo lo farà.

Torniamo a casa e ci buttiamo a letto. Quella notte, senza il tuc tuc in sei ottavi del metronomo su rotaia, dormo fuori tempo e senza armonia, nel matrimoniale nero, con lenzuola scure e coperta nera a fiori viola.

Ma il giorno dopo si va sul lago Baikal e l’entusiasmo zittisce la stanchezza. Listvianka è a 70 chilometri da Irkutsk e il modo migliore per arrivarci è in autobus. Abbiamo provato ad organizzarci, ma la cosa sembra difficile: pare che ci siano due o tre corriere “ufficiali”, che partono la mattina presto. “Presto” in questo caso significa alle 9, ma le 9 di Irkutsk sono le 4 di Mosca. Dopo la colazione, la signora che ci ospita ci indica la strada per arrivare alla stazione delle corriere. Ovviamente Oleg vorrebbe andarci in taxi, ma sa che quando Tomas e io non lo ascoltiamo non c’è niente da fare e non insiste mai più di tanto. Però l’idea la butta sempre là, anche se sa che la risposta è no.

Camminando verso la stazione incontriamo la città, che, forse proprio perché è in mezzo alla via attraverso la Siberia, è lei stessa una via di mezzo. Si incontrano buriati dai tratti mongoleggianti e russi europei, ci si scontra con gli stili architettonici. Irkutsk è la prova della reale utilità dei piani regolatori urbanistici. Case di legno di sghimbescio, con pareti con angoli mai retti, di assi vecchie, non verniciate, ma con porte e finestre rifinite con cura, colorate e scolpite, intarsiate, come se l'esteriorità non valesse niente, ma la vita all'interno dovesse essere incorniciata nelle finestre. Le case di legno sono tutte diverse, darebbero un’atmosfera particolare alla città, se non fossero isolate, fra palazzoni sovietici, case in mattoni di stile sudeuropeo, imitazioni basate su di un’idea errata di funzionalismo. Stili mescolati, spesso compenetranti, mai in armonia. Passiamo per prima cosa per la piazza centrale, una spianata sovietica, che con il sole timido dell’est a mezza vigogna è una cartolina degli anni Settanta trasformata in realtà. Un’apertura verde, con panche e aiuole rosa, circondata da una strada enorme, impenetrabile, se solo il traffico fosse mai sufficiente a riempirla anche in parte. Tutto attorno, case di un giallo che vorrebbe essere asburgico, ma vira verso il canarino. In fondo si staglia quadrato, rigido, cinereo, sovietico, il palazzo del municipio, separato dalla piazza dalle strisce pedonali più lunghe che abbia mai visto, così lunghe che il semaforo per i pedoni diventa rosso a metà. Il palazzo copre il quartiere delle chiese, quelle ortodosse a pianta rettangolare con due cupole di altezza diversa alle estremità, sormontate da pennoni d’oro, una semplice, bianca con il tetto rosso e un’altra quasi identica, ma completamente affrescata all’esterno. C’è anche una cattolica, la prima in giorni di cammino su rotaia, per i polacchi. In mezzo alla piazza, da un pannello di metallo, raccogliamo il monito del simbolo della città: una pantera nera, con una volpe morta in bocca. Non è un posto facile, questo, ma la domanda è: “ci sono pantere nere in Siberia?” E infatti poi si scopre che è una tigre siberiana con problemi di pigmentazione, mentre la volpe è uno zibellino.

La stazione degli autobus è un piazzale di asfalto ritorto, pieno di minibus tipo Vanette di produzione autarchica. Dalla corriera ufficiale scende una ragazza inglese, che ci racconta che sta aspettando di partire da tre ore e comunque il mezzo è pieno e chissà quando ci si schioda. Meglio provare uno dei minibus, maxitaxi privati che partono quando sono pieni. Molti dei pochi mezzi che circolano in città sono minibus. Chi può permettersi un veicolo lo mette a disposizione della comunità per ripagarlo.

Sulla corriera incontriamo una coppia svedese, che avevamo già notato sul treno verso Irkutsk e incontreremo di nuovo a Listvianka, poi sul treno verso la Mongolia, a Ulaanbaatar in un ostello e in un negozio e sul treno verso la Cina. Sempre più scuri in volto appena ci individuano. Credevano, loro, di essere diversi dagli altri.

E il tratto di strada fra Irkutsk e il lago, dopo l’aeroporto dal quale spuntano le code dei MiG, è uno spettacolo di colori primari. Qui è autunno già da un po’, il bianco della corteccia delle betulle rende il rosso e il giallo delle foglie ancora più lucido, mentre il blu del cielo con il sole issato li completa e li llumina. Il sottobosco è rosso mattone come i licheni e i cespugli, verde scuro come erba che beve di continuo e grigio oleoso come l’acqua dei rivi che scorrono qua e là. La strada è dritta, ma sale e scende su colline che si chiamano montagne. In Russia tutto è più grande, ma le montagne, lasciamo perdere.

I passeggeri fanno cenni volutamente svogliati all’autista, per indicargli di fermarsi ai lati della strada per farli scendere. Questo non risponde mai, ma si ferma, roba che ti chiedi come si fa a sapere che ha capito la richiesta. Nessun ringraziamento viene speso nel corso dell’operazione: è importante mostrarsi sprezzanti. Magari vorresti dirlo, grazie, ma non si usa e poi l’altro potrebbe prenderlo come un segno di debolezza o sottomissione. Noi intanto osserviamo la foce dell’Angara, grigio perla come solo il blu più intenso sa essere. E poi il lago, che sembra un mare, che comincia direttamente ai piedi delle colline rotonde.

Scendiamo, ringraziamo l’autista e il vento ci sorprende subito. Erano mesi che non sentivamo un freddo così. Oleg si fermerebbe in un bar dopo l’altro, invece gli facciamo bastare quello di un negozietto di alimentari, con una veranda sul lago e bicchieri di cartone. Il caffè fa schifo, dice, mentre Tomas e io ci chiediamo cosa si fosse aspettato di trovare. Troviamo un mercato, dove compriamo l’omul, un pesce simile a una piccola trota che vive solo nel Baikal e che viene affumicato e consumato sul posto. Sarà la fame, ma è uno dei pesci più buoni che abbiamo mai mangiato.

Camminiamo lungo la riva, oltre il villaggio. Fuori dalle dacie di legno, spesso dipinte di blu, la gente affumica altro omul, offrendocelo in vendita. Ma noi abbiamo già avuto e ci arrampichiamo su una collina e sulle sue pendici di pini marittimi e funghi ci allontaniamo lungo il lago. Per il nostro ragazzo di città, che ovviamente ha le vertigini, è una tortura. Non lo abbiamo mai sentito invocare così tante volte l’idea di prendere invece un battello. Ma non si lamenta apertamente, propone solamente, e stavolta Tomas non ha intenzione di fermarsi.

Qua e là si trovano rive di ciottoli nascoste, piene di immondizia e resti di falò. Meglio stare verso l’alto, con pini isolati che sulle sommità resistono al vento. Al riparo dalle folate si sta bene, osservando i disegni che l’aria fa sull’acqua in basso, come se gli dei avessero deciso di soffiare per raffreddare il loro tè caldo.

Tomas è una di quelle persone che hanno in mente una lista di cose da fare assolutamete. Una è il bagno nel Baikal. Ma se già l’idea di privarsi di due strati di giacche fa paura, figuriamoci spogliarsi completamente e tuffarsi nell’acqua. Ma Tomas, come si diceva, è un uomo di solidi principi. Mi affida il suo telefonino con telecamera e si lancia. Sembra uno di quegli insetti con le zampe lunghe che si posano sul pelo dell’acqua. Salta in preda al terrore, cercando un punto con acqua abbastanza alta da immergersi, si butta, immerge anche la testa, poi libera un gemito e si fionda verso riva. Il tutto in meno di cinque secondi. Nel giro di due minuti è già vestito. Sopravvivere all’acqua gelata gli consentirà di non soffrire più il vento freddo per il resto della giornata.

Io immergo solo i piedi. Dicono che farlo regali cinque anni di vita. Il bagno intero ne darebbe 25, ma io mi accontento. In più faccio una pisciata: che gioia i riti pagani. Dopo la cerimonia dell’acqua ci incamminiamo verso il punto dove partono i minibus, fermandoci di nuovo al mercato ad immolare un omul a testa per merenda.

Poco prima di partire ci giriamo di nuovo verso il lago e ci accorgiamo di colpo delle montagne innevate che spuntano oltre il lago, lungo tutto il suo perimetro. Non riusciamo a capire come abbiamo potuto non accorgercene prima. Più tardi, anche nelle fotografie, le montagne saranno invisibili, forse confuse con le nuvole e l’acqua. E pensare che quando le notiamo sono così nitide.

Il programma per la serata è semplice: trovare un internet cafè per controllare le risposte dalla Mongolia e mangiare da qualche parte. Oleg vorrebbe vivere la vita notturna, ma il giorno successivo dovremo alzarci alle 4 per prendere il treno per Ulaanbaatar.

Ma i due semplici punti del nostro programma non sono così semplici, perché non si trovano internet café aperti, né ristoranti dall’aria interessante. Giriamo per ore senza meta, nel vuoto del sabato sera siberiano, citando spesso e volentieri le povere ragazze tedesche, che ci aspettiamo di trovarci di fronte da un momento all’altro. Il concetto di “ristorante russo” non esiste e dopo aver scartato fast food e ristoranti giapponesi, non senza proteste da parte di uno di noi, andiamo a finire dall’italiano.

Poi torniamo all’internet cafè del giorno prima. È mezzanotte. K non ha risposto, ma mi viene in mente che mi aveva annunciato che nel fine settimana sarebbe andata a Francoforte a trovare alcuni amici, quindi più che preoccuparmi, mi rallegro della fortunata soluzione del problema escursione in Mongolia, grazie ad un’e-mail ricevuta all’ultimo minuto.

Dormiamo le nostre tre ore, andiamo in stazione, saliamo sul treno e piombiamo nel sonno più profondo fino all'ora di pranzo. Ci svegliamo che le foreste si diradano, e l’autunno è arretrato di nuovo.