giovedì 24 marzo 2011

Ad un banco nella parte centrale del mercato coperto, sotto il foro circolare al centro della cupola, contratto accanito sul prezzo di un coltello con la lama istoriata. Finita la trattativa, per santificare l’accordo, scambiamo qualche parola isolata con i coltellai e il discorso scivola diretto sul mondiale. Ci raccontano che mentre stavamo tracciando la nostra scia di passi sulle montagne di Nurata, l’Italia esordiva con un pareggio e la Francia perdeva la seconda partita e cominciava già a pensare ai biglietti per tornare in Europa.

Ma da qui ci si sente lontani, non si riesce a partecipare davvero al dolore delle nostre nazioni. Ed è un bene, perché mentre in Europa fioriscono i dibattiti e sbocciano le polemiche, noi passiamo ore a discutere sul prezzo e sulla qualità del tè, compriamo fette d’anguria, cumino e miscele di spezie. Mangiamo piccoli chicchi di uva da vino, come sempre la più saporita, e vaghiamo sotto i portici degli edifici esterni, inglobati nel mercato, occupati dagli artigiani del legno e dei metalli. Camminiamo fra cassapanche ricoperte di fogli di latta inchiodati secondo geometrie regolari e Lilù riesce finalmente a comprare uno dei timbri in legno per girare il pane, con chiodi spuntati che punteggiano nella forma di pasta un motivo floreale.

Intanto i portici ci proteggono dal sole incandescente e dagli acquazzoni violenti che ad intervalli lo velano.

Chorsu è un’isola di confortevole caos, un centro commerciale orientale, dove si può comprare qualsiasi cosa, sulle bancarelle, ma anche per strada. E probabilmente la gente pensa che visto che tocca cucinare, tanto vale farlo in una pentola enorme e vendere il cibo davanti a casa, a chiunque passi con dello spazio vuoto nello stomaco. Quello che non si vende rimane per cena e per una volta, se non si mangia significa che è andata bene.

Invece il centro è geometrico, sovietico e marziale, fatto di viali troppo grandi per il traffico e parchi che inneggiano a glorie vere o fittizie, mentre i ragazzini si tuffano nei canali d’acqua verde.

Orientarsi è impossibile. Le vie sembrano cambiare nome spesso, anzi, scambiare i nomi e al posto della via dei ristoranti troviamo uno stradone buio, con solo una pizzeria popolata da personaggi da letteratura russa. Sembra sia una persecuzione per me, quella di dover mangiare pizza nei posti più remoti dell’impero sovietico. Neanche un anno dopo Irkutsk, tocca a Tashkent.

Al tavolo di fronte al nostro c’è un giovanotto basso e panzuto, dall’aria russa. Quando si alza cammina impettito, reso goffo dalle scarpe a punta che lo costringono a spostarsi scaricando il peso sui talloni, con le punte dei piedi rivolte all’esterno come Pippo in un fumetto. Si pavoneggia fra tre belle ancor più russe di lui, che sembrano assecondare qualsiasi cosa dica. Sullo schermo in fondo alla sala scorre EuroNews senza audio. Ignorata dai frequentatori della pizzeria, appare la mappa dell’Uzbekistan. Dalle immagini intuiamo che ci deve essere stato un incidente in Chirghizistan, dove poco prima della nostra partenza la minoranza uzbeca era stata attaccata. Ma qui nessuno ne parla e nessuno sembra scomporsi all’apparizione della mappa del suo paese alla televisione europea. Viene naturale minimizzare.

Ci stupisce di più il fatto che la pizzeria non serva la Margherita (anche chiedere una pizza al salame senza salame non sembra un’opzione praticabile) ed è rimasta una sola pallina di gelato. Il conto invece include da solo la somma delle nostre spese dell’ultima settimana. Lo paghiamo con 60 banconote da 500 sum e ci avviamo verso un bar vicino alla nostra pensione, un cortile coperto da tettoie di paglia sui lati, con divani su cui stendersi. Guardare Inghilterra – Algeria e tifare con gli altri per Ravshan Irmatov, il fischietto di Tashkent, è l’unica cosa rimasta da fare prima arrivare con calma all’aereoporto, mostrare ripetutamente il passaporto e prendere l’aereo alle 4 di mattina.

Il ragazzo che guida il taxi verso l’aeroporto dice di essere uzbeco, ma di parlare solo russo. I genitori gli hanno insegnato la lingua del dominatore, invece della loro, per rendergli il futuro più semplice, un po’ come i miei genitori hanno deciso di allevare me e mio fratello in italiano invece che in dialetto come tutti i nostri coetanei.

I genitori del taxista non sapevano che un giorno, all’inizio degli anni ’90, senza neanche volerlo con convizione, il loro paese si sarebbe trovato indipendente da un giorno all’altro. Più che uno svezzamento, il passaggio da una mano all’altra di un nuovo vecchio padre, lo stesso Karimov che era già stato soviet.

Il fatto che nessuno si fosse mosso per l’indipendenza è un altro segno di un paese che si accontenta. Non chiede grandezza, ma si concentra sulla vita quotidiana. Qui vince l’umiltà di un passato grandioso, ma non esibito. Pochi Hotel Tamerlano, al massimo una statua di pietra nera all’imbocco di un viale a Samarcanda. Pochi Ristoranti della Via della Seta. Solo vita quotidiana, anche nel centro storico restaurato di Khiva o in quello di Bukhara. Apertura verso chi visita, ma senza il desiderio di vivere la loro vita.

Questi sono i casi in cui staticità non è pigrizia, ma soddisfazione. Non è conservazione, ma preservazione. Sono i casi in cui appagamento non significa abbandonarsi all’inerzia, come da noi, ma aver bisogno solo di cose che hai già.

Intanto, dopo una colazione di manzo e piselli, ci addormentiamo all’alba, sopra il deserto cazaco e poco dopo atterriamo nel solito vento freddo che spolvera il Nord Europa.

Da qui comincia la vita reale. Una vita reale diversa da quella dei profughi uzbechi del Chirghizistan, scappati ai cecchini mercenari che hanno ucciso e devastato tutto ciò che rimaneva di uzbeco ad Osh e hanno tenuto a portata di mirino quelli che si azzardavano a raccogliere i cadaveri. Il governo ammette 400 morti, ma si parla di 2000. Là, a poche centinaia di chilometri da dove noi stavamo mangiando pizza e guardando calcio. La gente può essere amichevole, lasciarti entrare in contatto, accoglierti, ma per la vera vita, per quella non basta comprare un biglietto aereo.

sabato 12 marzo 2011

C’è grande allegria sul minibus che a Jizzax fa da taxi collettivo fra l’autostazione e il mercato, da dove parte chi vuole condividere il suo mezzo sulla via per Tashkent.

È l’allegria delle situazioni estreme. Più di dieci persone incastrate in un furgoncino stampato in un cubo di Rubik di veicoli, che provengono da tutte le direzioni e cercano la combinazione giusta per uscire da un’enorme spianata asfaltata e raggiungere le vie laterali.

Sui sedili imbottiti di gommapiuma ci sentiamo tutti complici nella sventura e non c’è nulla da fare, meglio pensare ad altro o aiutarsi a vicenda a farlo. Prima o poi ne usciremo e ci ricorderemo degli altri protagonisti della stessa storia, che ognuno di noi racconterà in modo diverso a persone diverse in luoghi diversi.

Anche qui gli unici stranieri sono ospiti d’onore e fuoco dell'attenzione. Ormai abbiamo affinato la tecnica per spiegare le cose importanti su di noi in russo a collage. Italya, Fransia, viviamo Gollandia, rabota perevodnischi, no, non sposati (gesto dell’anello con dito che nega), ma insieme lo stesso. Si sentono orgogliosi perché abbiamo scelto il loro paese fra tanti, e al contempo si vergognano per il traffico, ma risolvono l’imbarazzo detonando risate a pieno ventre. Così è, meglio adattarsi. La maggior parte di loro è in città per affari, o per visitare il mercato. Non è un caso che mentre i servizi di linea partono da una stazione apposita, i taxi collettivi aspettano sempre davanti al mercato principale. Il megastore dei poveri.

Il taxi che troviamo noi si riempie in pochi minuti, non è un problema trovare altre persone dirette verso la capitale. Sul sedile posteriore, con me e Lilù, siede un ragazzo che parla un po’ di inglese. Dice che lavora a Tashkent, è un pittore. Ci mostra le fotografie delle sue opere sul telefonino, sono dipinti appena stilizzati, in stile naif, con tematiche storiche locali: Tamerlano e le sue fortezze, nobili e mercanti medievali. Nella periferia di Jizzax chiede all’autista di fermarsi lungo la strada. Dice che vuol farci assaggiare i migliori somsa della zona e ci accompagna verso un banco di cemento con fori circolari del diametro di circa 40 centimetri. I fori si aprono su cavità rotonde, le cui pareti sono completamente coperte di pagnotte incollate al cemento a cuocere. Sono i somsa e non sono pagnotte, ma croste di pane sottili e croccanti, che se premute si spezzano per rilasciare l’aroma di verdure cotte e carne grassa di capra. Un’endovena di sostanze nutritive che costringe il nostro organismo ad investire tutte le risorse nella digestione e abbandonare gli organi non coinvolti nelle braccia del sonno. Mi sveglio solo perché ci tengo a vedere il tratto di strada che attraversa il territorio cazaco, pur senza passare per frontiere. Nei confini artificiali dell’Asia centrale, disegnati secondo motivi etnici e non geografici, in questo punto l’Uzbekistan era troppo stretto e non c’era posto per una strada, così per arrivare alla capitale è necessario passare in territorio straniero.

Osservo giusto per curiosità, perché non ci sono grandi differenze rispetto all’Uzbekistan. L’unica è una ragazza alta, di un biondo giallo che non vedevamo da settimane, che costeggia la strada in bicicletta con addosso un top corto e aderente. In effetti in Uzbekistan tutti parlano russo, ma nessuno ha tratti somatici europei. In Cazachistan invece pare che la minoranza russa sia molto più consistente.

Per il resto solo carri e qualche trattore Belarus a tre ruote. I compagni di viaggio ci risvegliano ancora per indicarci il Syr Darya, che segna l’inizio della regione della capitale.

E dopo i villaggi di Nurata, Tashkent sembra enorme, o meglio lo è, una delle città più grandi dell’Unione sovietica, la maggiore fra quelle al di fuori del suolo russo.

Questa volta evitiamo il centro e troviamo una pensione nella zona del Chorsu, l'enorme mercato generale, che straborda da una cupola bianca e verde sovietico, che da lontano sembra un disco volante.

L’idea è quella di passare le ultime due giornate a vagare, fra il mercato e il centro, e riportarsi in pari con i risultati delle partite dei mondiali.

mercoledì 16 febbraio 2011

All’aperto è un sonno rumoroso, duro, freddo e polveroso, ma la scomodità rende meno fastidiosa l’idea di alzarsi. Yan è già partito, prima che i colori tornassero a riempire di giorno questa parte del mondo. Lo abbiamo salutato la sera prima, un altro compagno di viaggio che se ne va senza scambio di recapiti. Forse le sue storie avventurose non erano sempre credibili, ma era da ammirare se non altro per la naturalezza nell’interagire con chi gli stava intorno.
Noi partiamo dopo una colazione al rosa dell’alba, con il giovane pastore e la scia degli occhi sospettosi di sua moglie Zilola, una ragazza poco più che adolescente, che ha lasciato la famiglia di etnia tagìca (ceppo persiano) per vivere qui, adattandosi a parlare solo uzbeco, una lingua turca e molto diversa dalla sua. Forse è gelosa di noi, che ci portiamo via il suo unico legame con questo posto.

E non ha nessuna ragione di temere, perché trattiamo suo marito come un principe, mentre lui ridacchia per tutta la via con suoni di saliva aspirata, chiedendosi perché mai questi stranieri abbiano deciso di lasciargli l’onore di fare tutta la strada a dorso d’asino, nonostante le sue ripetute offerte di chilometri a sbafo su zampe altrui.
Ha addosso vestiti troppo larghi per il suo corpo magri, che lo fanno sembrare un rappista di periferia. Non intenzionalmente, ma perché sua madre i vestiti li ha scelti a caso al mercato, o forse li ha presi fra quelli smessi da suo padre. Tanto qui non serve apparire meglio di quello che si è, perché comunque tutti ti conoscono già molto bene per quello che sei davvero.

In cima ad un monte giallo vediamo finalmente la piana desertica, libera davanti ai nostri piedi e in fondo emerge un nastro d’alluminio, quello del lago Aydar Kul, largo e stretto, un fossato che protegge il Cazachistan.
E noi ci avviamo verso il lato opposto, verso una parete protetta, che fa da paravento alla destinazione dell’ultima tappa.

C’è un ruscello più ampio di quello del giorno prima, che scende in una valle con pendenze appena più dolci. Un mulino dovrebbe pompare l’acqua verso le case stese sulla parete, ma la ruota è rotta, in attesa che qualcuno trovi il tempo per ripararla. I campi sono piccoli, raccolti in un riquadro, sul versante opposto rispetto a quello abitato. Nel fondovalle, davanti al mulino, c’è posto anche per una strada, quella da cui la mattina successiva prenderemo l’autobus verso Forish e Jizzax.

La fattoria dove ci fermiamo è un altro prato disseminato di alberi sparsi, con un tapshan livellato sul pendio inclinato. Stavolta il capofamiglia ha un’aria cittadina. Sembra una persona istruita e ha modi che, in combinazione con la sua tunica ricamata, lasciano intuire un passato urbano. È sicuramente la persona più elegante che vediamo da diversi giorni. Ha un’aria saggia, ma la conversazione è difficile come sempre e lui sembra trovare il dialogo per segni ed intuizione troppo superficiale. Ci rivolge uno sguardo che sembra severo, poi fa una battuta che fa ridere tutti quelli che comprendono la sua lingua e se ne va verso i suoi appartamenti.

Questo ultimo giorno lo passiamo a leggere, scrivere e dormire sul tapshan, mentre la famiglia, che non ci viene neanche presentata, rimane a distanza, immersa nella vera vita. Il cibo ce lo portano dei bambini che scappano immediatamente e anche se un ragazzo si offre di mostrarci la zona, ad iniziare dal mulino, il giro dura meno di mezz’ora. La situazione mette a disagio, ma stavolta non faccio nulla di attivo per cambiarla, perché sono stanco morto e una mezza giornata di riposo non è una prospettiva cattiva.

È un giorno di decompressione, per fermarsi e assimilare i dettagli di quello che abbiamo fatto finora. Serve per lisciarsi le penne prima del viaggio verso Tashkent, che comincerà prima dell’alba, con l’unica corriera per Forish e poi Jizzax.

È una corriera che si riempie un po’ alla volta, si ferma ad ogni villaggio o casa isolata, e ancora ai bordi della strada quando qualcuno alza il braccio, e si riempie di signore coperte di foulard e signori con il cappello quadrato, che in questa zona è nero con un motivo bianco a forma d'ala.

Le ruote rotolano giù da quella che per i nostri piedi era stata una salita, rimescolando la polvere della strada in terra battuta. Dalla nuvola di terra escono due gruccioni di un azzurro elettrico, con le ali arancioni, e mi risveglio fra il traffico di Jizzax.

martedì 8 febbraio 2011

Da questa valle verde sembra impossibile immaginare i saliscendi ruvidi che ci assalgono appena fuori dal villaggio. Il verde, con alberi ed erba alta, è tutto nei punti che rimangono perennemente in ombra, come una foresta di peli in un’ascella di proporzioni bibliche. Le zone esposte al sole invece sono di un giallo epatico. Peli verdi nell’ascella di un alcolizzato. Un paragone cattivo, perché in mezzo alla pelle opaca, questi peli hanno il colore di smeraldo dell’erba e degli alberi sparsi e disorganizzati di quelli che vorrebbero essere frutteti, ma sembrano più giardini all’inglese. Privi della regolarità dei filari dell’agricoltura estensiva, gli alberi sono piantati con gli spazi di un giardino.

Il fatto è che la canicola risparmia solo chi riesce a nascondersi, rifugiarsi nei punti più remoti delle valli, ripararsi come in trincea. Rifugi come questi sono i punti di partenza e arrivo delle nostre camminate, ma fra uno e l’altro passiamo attraverso pendii dolci, ma esposti, nudi.

La mattina si parte presto, dopo una colazione nutriente di mandorle, uva passa glassata, pane, tè e marmellata d’abicocca. Rubiamo due mele in miniatura per la camminata e ce le infiliamo in tasca. Queste mele, di stagione a giugno, sembrano essere uno dei frutti preferiti degli uzbechi. Il sapore è quello di una mela delle proporzioni che conosciamo, ma la consistenza è più farinosa, simile a quella di una renetta. Buone, ma i frutti che preferisco, i più dolci fra tutti, sono le more dei gelsi, molto diffuse, perché si raccolgono dall'albero che produce le foglie più adatte per ingrassare i bachi da seta.

Il mio zaino è il più pesante e mi tiene schiacciato contro il terreno. È pieno di vestiti lunghi che in tre settimane non userò mai. Niente jeans, sempre e solo l’unico paio di pantaloncini corti, che di sera lavo a rate, in modo da poterlo trovare asciutto la mattina seguente.

La giacca a vento sepolta sul fondale dello zaino è un oggetto decisamente estraneo. Quando mi capita fra le mani, mentre disfo lo zaino, mi fa rendere conto delle distanze. Da quassù, un mondo dove servono le giacche a vento sembra impossibile.

Procediamo in colonna, fra capre senza pastore e macchie di cespugli resistenti, di struttura stopposa. Chilometri senza vedere un albero, ma dove ce n’è uno, c’è anche un villaggio, vita. In testa alla colonna c’èla nostra guida, un ragazzo magro con un sorriso largo e onesto, protetto dalla cappa di un paio di baffi neri. Avrà trentacinque anni, orgoglioso nel suo cappellino con il simbolo dei blaugrana e la scritta Barselona.

Io e lo zaino stiamo in fondo, anche perché non sono qui per fare esercizio fisico, ma per guardare, e se mi va bene, vedere. E sono fortunato, perché il passaggio degli altri davanti a me spaventa un’upupa, una sagoma colorata di rame e nero, che mi taglia quasi la strada e sparisce in un secondo dietro le curve dei colli. Un colore vivo che è irreale, stona fra queste tinte bruciate. Quando parlo del mio avvistamento, nessuno sembra particolarmente impressionato. E li capisco, perché se fossi nato in città come loro, probabilmente anch’io considererei la gioia di vedere per pochi secondi un animale selvatico un'emozione per puri nerd. Una cosa come quella che ho letto con orrore nell’autobiografia di Jonathan Franzen, un catalogo di avvistamenti. "Ho avvistato 326 specie nella mia carriera di birdwatcher”.

Sorprendere un animale selvatico è una soddisfazione che non ha spiegazioni. Forse è pura curiosità, forse addirittura voyeurismo, inteso come passione per il vedere cose. Ma se non fosse per queste due cose, che senso avrebbe partire da casa?

Ci fermiamo davanti ad un edificio senza infissi, all’ombra di una parete rocciosa, pieno di rami coperti di foglie che alimentano come frutti migliaia di bachi da seta bianchi e grossi, e poi, dopo altri chilometri di salita e discesa in un panorama sempre più cotto, ci fermiamo in paradiso: una valle scavata in profondità dalla pazienza di un ruscello, con alcune case con le pareti di terra secca appoggiate sulle pendici. In fondo alla valle ripida, il ruscello rallenta in una pozza fresca dove i piedi gelano di sollievo davanti ad un riparo con una tettoia e un tapshan all’aperto, costruito come un ponte sul ruscello.

Questa è la nostra tappa per oggi. Passiamo il tempo a parlare a gesti con Yan, la guida e la famiglia che ci ospita. Abbiamo affinato l’arte, stavolta la conversazione è quasi fluida, riusciamo a comprendere e farci comprendere, anche grazie alle poche parole russe memorizzate da un dizionario che abbiamo trovato il giorno prima. “Montagna”, “traduttore”, “Olanda”, “pianura”, "canali", "pastore", "agricoltore", poco altro.

Ci raccontano di loro, ci portano addirittura a vedere le loro stanze, che a quanto pare è un onore riservato a pochi. Vivono bene. Le stanze sono pulite, accoglienti, con le pareti coperte di tappeti e arazzi. È in posti come questi che capisci che chi è considerato povero non deve per forza vivere male.

Le donne ci insegnano a cucinare il plov all’aperto, su di un focolare in terra. Riso, carote gialle tagliate a scaglie, uva passa e cumino, un sapore dolce da abbinare alla carne di capra.

E visto come viene regolata la fiamma, qual’è la differenza con un fornello a gas? Forse solo il tempo d’accensione.

Lilù e io dormiamo all’aperto, fra il suono costante dell’attività degli insetti che copre quello dell’acqua e le incursioni in ricognizione di un pipistrello che si muove come un volano bruno e nero e ha scelto come base le travi del soffitto della tettoia di fronte al nostro tapshan.

venerdì 28 gennaio 2011

Andremo verso Forish, ai piedi della catena dei monti di Nurata, ma dal lato opposto rispetto a quello dove siamo già stati. È un paese minuscolo. Yan ha trovato da qualche parte il nome di un'associazione che organizza camminate sulla catena, passando la notte presso famiglie locali, in paesi dove spesso si arriva solo a piedi o sulla schiena di un asino.

Ma anche arrivare a Forish non è facile. Dobbiamo cambiare tre taxi condivisi. In tre possiamo permetterci di pagare anche per il quarto passeggero, ma dobbiamo comunque trattare sul prezzo.

Trattare è una di quelle cose che funzionano solo se ne sei convinto, se ti piace farlo. Noi cerchiamo di farlo sempre, per non rinforzare la convinzione che in Occidente possiamo permetterci di spendere senza pensarci e per non invogliare i locali a vendere i loro servizi solo ai turisti, anche se in Uzbekistan il problema ancora non sembra esistere. Forse però esageriamo, perché spesso ci accorgiamo che gli abitanti di questa terra di mercanti ci fanno pagare quanto pagano i locali.

E il nome "taxi" è solo una designazione, perché si tratta per lo più di persone che devono spostarsi per motivi personali e cercano di condividere le spese per il carburante.
La prima tappa è semplice. Da Samarcanda è facile trovare qualcuno diretto a Jizzax, una delle più grandi città del paese.
Jizzax è relativamente vicina a Forish, ma pochissimi viaggiano in questa direzione remota e i taxi costano molto di più. Pazienza. I taxi partono da un mercato e noi possiamo permetterci di far aspettare gli autisti mentre mangiamo delle frittate splendidamente unte: quello che ci vuole per riempire lo stomaco di chi non mangia da ore. Nel frattempo la pazienza degli autisti è provata e le offerte si abbassano. Dopo pranzo la spuntiamo per 25.000 sum in tre (conversione 1:1 con la lira italiana), la cifra che ci era stata indicata come normale a Samarcanda.

È sempre fra un mercato e l'altro che si muovono i taxi e anche a Forish ci fermiamo fra cocomeri verdi e mele minuscole, il tutto chiuso fra pareti sbrecciate, che stonano di fronte ad un monumento moderno in stile sovietico, ma dipinto della bandiera bianco verde blu. Forse i colori sono l'unica cosa che cambia davvero.

L'ufficio dell'associazione che organizza le camminate è al colmo di una collina. Un edificio con pareti perfettamente rette, come non ne vedevamo da un po'. Dalla collina, al tramonto, il panorama invoglierebbe a partire immediatamente. Le montagne ci offrono un saggio gratuito di quello che vedremo nei giorni a venire, giallo come le piramidi, con peli ascellari verdi nelle valli più in ombra. Poi la grande pianura e un'altra catena bassa in fondo, oltre la pianura. Ci accoglie un signore tedesco sulla cinquantina, che quasi un anno prima, mentre si stava preparando per trasferirsi in Etiopia con la moglie, è stato dirottato qui in Uzbekistan dall'associazione per cui lavorava.
Helmut ci fa scegliere il percorso. Yan camminerà per cinque giorni, attraversando la catena, noi possiamo permettercene solo tre e scegliamo un percorso più breve.

Per arrivare alla prima stazione dobbiamo prendere un altro taxi, che ci guida in linea retta, facendoci rimbalzare verso il primo paese e la prima famiglia.

Arriviamo ad un cancello che apre un varco in un muro a secco. All'interno un prato tenuto in ombra da alberi da frutta, con un tapshan e diverse capre sparse. Solo a distanza escono delle case ad un piano, un rifugio per gli animali ed un bagno all'esterno, con un secchio che dovrebbe funzionare da doccia.

Ci abita una famiglia con due figlie sui 10 anni. Sono amichevoli, simpatici, sembrano apprezzare l'umorismo che si può esprimere senza parole, ma la lingua è un confine più protetto di quello di una repubblica dell'Asia centrale. Le bambine non si pongono il problema. Ci portano a vedere gli animali e ci consegnano come fossero perle delle palline da ping pong di formaggio di capra. Poi ci offrono il tè e per la prima volta da giorni possiamo sederci a riposare mangiando albicocche e ciliegie.
A notte fonda, con le luci addormentate, la mia ragazza di città mi confessa di non aver mai visto stelle così luminose.

martedì 18 gennaio 2011

Anche a Samarcanda ci avventuriamo nei mercati. Da queste parti, è un ottimo modo per conoscere la vita locale. Basta evitare quelli più famosi, quelli vicini ai monumenti, o almeno tenersi lontani dai cartelli tradotti in inglese. Signore ambulanti, senza la necessità di un tavolo o un bancone, vendono pani rotondi e ricamati, ragazzi offrono sciroppi di colore fosforescente da bere sul posto, di sapore difficile da identificare. Si trovano cappellini quadrati, utensili da casa e lavoro, verdura. I cocomeri escono direttamente dai bagagliai dei furgoncini UzDaewoo e gli articoli di vestiario sono gli stessi ovunque: abbondano i falsi di Adidas e Nike, ma il marchio più popolare è Gucci, quasi più ricercato degli accessori con i marchi delle squadre di calcio. Le magliette rosa con scritto Chelsea in giallo, o quelle verdi che inneggiano al Real Madrid e ovviamente ovunque gli articoli firmati Barselona.
Carri ad asino motore escono dal mercato con noi, in direzione Shah-i-Zinda. Shah-i-Zinda è una linea quasi retta in salita, un sentiero che si arrampica in cordata sulla collina di Afrosiab, in mezzo ad uno dei cimiteri più vasti che abbia mai visto. La via è chiusa ai lati da decine di mausolei antichi, con la forma di tanti piccoli depositi di Paperon de Paperoni. I più spettacolari sono quelli posti più in alto, completamente ricoperti di piastre di ceramica blu e verde. È un ambiente sereno e silente, ci fa riposare dallo stress, passare un pomeriggio sottomarino esposti fra la luce blu e verde della maiolica.

Se si ignora la loro posizione isolata in mezzo al traffico turistico e stradale, i monumenti di Samarcanda sono i più impressionanti del paese. Samarcanda è una città moderna, fatta di parchi, viali ed uffici postali. Le zone residenziali di periferia sono le stesse di qualsiasi altra città, con ristoranti all-you-can-eat ed uffici in affitto negli edifici ancora in costruzione. Interi quartieri di scheletri di cemento in un formicaio di operai e gente che aspetta l'apertura di un nuovo sportello bancario (dal quale noi non possiamo prelevare), camminando nel parco fiorito dedicato al poeta Alisher Navoj.

Samarcanda è l'ultima delle tappe obbligate. Da qui potremmo scendere verso Termiz e il confine con l'Afghanistan, potremmo passare Tashkent e scendere nella valle del Ferghana, perché da qui non si sa niente degli scontri fra i chirghizi e gli uzbechi in corso proprio in quella zona. Potremmo andare a Shahrisabz e poi sulle prime pendici del Pamir. Potremmo, ma dobbiamo scegliere una sola meta e il compito è arduo.

Termiz sembra l'ipotesi più interessante, ma ci rimangono pochi giorni e qualcuno dice che serva un permesso speciale per raggiungere il confine con l'Afghanistan. Il Ferghana invece si dice sia una zona industrializzata e poco sia rimasto delle carovane che passavano sulla via verso la Cina. Ci sediamo a colazione l'ultima mattina, prima di partire per Shahrisabz e poco dopo si uniscono i motocicristi tedeschi, che ci presentano Yan, reporter francese della Magnum, in vacanza forzata dopo aver perso l'attrezzatura fotografica in qualche aeroporto dell'Asia centrale. Con lui camminiamo verso la banca nazionale, unico posto dove è possibile prelevare i sum da usare da qua fino al nostro ritorno a Tashkent. Yan è un personaggio interessante e ci racconta delle sue missioni fotografiche in Afghanistan e nelle zone di guerra del mondo. Giubbotti antiproiettile, scoppi di bombe e trovarsi in situazioni nelle quali ci si sente un verme a schiacciare il grilletto dell'otturatore.
Dice che fra pochi minuti partirà per tre giorni di cammino sui monti di Nurata. Ci chiede se vogliamo unirci, per dividere il prezzo dei taxi condivisi. Noi abbiamo già scelto Shahrisabz e lo lasciamo, sperando di rivedere il suo nome un giorno nelle didascalie del Newsweek. Ci fermiamo a rubare qualche amarena, pensando alle nuove madrasse da visitare, rendendoci conto all'unisono che probabilmente saranno uguali a quelle che abbiamo visto a Khiva, Bukhara, Samarcanda. Discutendone fra di noi rimaniamo stizziti per come nessuno dei due sia stato in grado di prendere la decisione che avrebbe preferito davvero. Senza motivo, forse solo per seguire i punti consigliati nella guida.

Ci accusiamo a vicenda, ma in realtà ciascuno di noi due sa di star accusando se stesso. Per interrompere una situazione sterile decido che c'è ancora speranza. Forse Yan non è ancora partito. Lo vado a cercare, ma non so dove sia la sua camera e in giro non lo si trova. La proprietaria dell'alloggio ci dice che Yan ha pagato e a questo punto probabilmente è partito. Così ci carichiamo gli zaini sulla schiena, facciamo per avviarci verso la rotatoria di Bibi Khanum, per trovare un taxi da condividere verso Shahrisabz, quando dall'ultima porta sul viale verso l'uscita principale esce Yan.

"Yan! Ci sei ancora!"
"Stavo per partire"
Stavolta non è necessario consultarsi a vicenda
"Aspetta, veniamo anche noi"

lunedì 10 gennaio 2011


Quella città là, con i casermoni rovinati, i viali che sembrano autostrade, le statue sovietizzanti e le moschee, è Samarcanda, la nobile, la capitale della Via della Seta, pia e blasfema città di mercanti e di mullah. E oggi a Samarcanda pioviggina e gli hotel sono pieni. Distante dalla canicola di Bukhara, anni luce dalla città nascosta di Khiva.

Gur Emir, il mausoleo di Tamerlano, là nell'angolo di un’enorme isola pedonale triangolare, è esibito come un passo di un antico testo sacro con un evidenziatore giallo. Il Registan, la piazza inquadrata su tre lati da tre madrasse, il simbolo della città, è in un’area pulita e giardinata, attrezzata per sfruttare il turismo. Non al meglio, ma secondo standard organizzativi molto migliori rispetto ai monumenti del resto del paese. Manca lo spirito pionieristico, lo scoprire meraviglie nascoste, ma forse si chiama organizzazione turistica ed è giusto che sia così, almeno per chi abita qui e può così beneficiare di questa ricchezza.

I dubbi mi sorgono solo pensando che chi abita nei palazzi di Samarcanda non sembra necessariamente più felice degli abitanti delle case con i muri di fango e paglia di Khiva. Con il solo vantaggio che a Samarcanda le partite dei mondiali di calcio si vedono in diretta e la gente può tifare in diretta per l’arbitro: il signor Irmatov di Tashkent, che arriverà a dirigere partite importanti, fino a portare l'Uzbekistan alla semifinale fra Olanda e Uruguay.

Dei mondiali, gli uzbechi seguono solo l’arbitro, e comunque non l’Italia. Gli unici azzurri che conoscono sono Totti e Baggio. D’altra parte, non si può rimproverare ad un popolo di non conoscere Quagliarella.

Appena arrivati, dopo aver appoggiato gli zaini e rubato giusto due amarene dall'albero, camminiamo fino al Registan, saliamo fino alla moschea di Bibi Khanum, sulla cima di un pendio e ci troviamo di fronte alla collina di Afrosiab, coperta dalle tombe di un cimitero, in mezzo al quale si arrampicano in cordata le cupole azzurre del complesso di mausolei di Shah-i-Zinda.

È pomeriggio inoltrato, siamo euforici per essere qui, saliamo sulla collina, con l’idea ufficiale di dirigerci verso il palazzo dei sovrani della città, ma sappiamo che è troppo lontano e quello che vogliamo davvero è camminare soli, abbandonare l’effetto che si prova trovandosi improvvisamente in una grande città dopo giorni di solitudine. Camminiamo lungo una strada fra il cimitero e prati d'erba gialla, entriamo nei prati attraverso una spaccatura in un muro a secco e ci arrampichiamo fino in cima.

Siamo soli, nessuno in vista attorno a noi e dalla cima ci sentiamo in confidenza con le cupole di Bibi Khanum, che alla nostra stessa altezza sembra vogliano parlarci. La moschea è ancora più maestosa, incoronata fra le case basse e semplici di una zona residenziale.

Torniamo indietro in questo labirinto di casette, incollate come in un unico complesso abitativo, fra strade che curvano quando vogliono. I ragazzi che incontriamo per strada ci guardano con pudore, tenendo gli occhi ad angolature innaturali, per allontanare il volto il più possibile da noi, e poi accigliati e ci rivolgono un “Hello” a mezza voce, tanto che spesso non siamo sicuri che lo abbiano pronunciato davvero. L’Hello è così frequente e timido che abbiamo il sospetto che la cortesia verso lo straniero sia comandata da uno di quei murales patriottici, di cui non capiremo mai il contenuto, ma solo i colori, il verde, bianco e blu della bandiera nazionale.

La strada si fa gradualmente più viva, si aprono porte da cui escono bottiglie di bibite fosforescenti, sigarette e magliette con scritto Arsenal, Chelsea o Barselona, sempre e rigorosamente con la S.

Poi la strada si interrompe bruscamente: in mezzo è stato montato un cancello in ferro, uno sbarramento metallico che chiude completamente alla vista il resto della via. Ci avviciniamo fra l’ombra degli edifici e del cancello stesso, apriamo la piccola porta alla base e vediamo la luce: siamo sulla strada principale che collega il Registan alla sommità della collina, un ampio viale alberato fra negozi di tappeti, ciaicane e souvenirifici istituzionalizzati. La periferia, che si accalca ai bordi della strada come il pubblico di una gara ciclistica, è tenuto nascosto e protetto dietro le transenne. Riparata dagli occhi dei turisti, che potrebbero avere un’opinione troppo realistica di quello che succede dietro le quinte.

Anche il nostro albergo rispecchia la struttura urbanistica della città (e di Bukhara qualche giorno prima). Si estende su di un complesso di edifici ad un solo piano, con corridoi fra pareti tassellate di portoni che si aprono su giardini con gelsi, ciliegi, fichi, albicocchi e amareni. Dicono che le colazioni ricche di marmellate e macedonie siano fatte interamente con i prodotti dei giardini.

È a colazione che incontriamo i pochi altri turisti. Due belgi sulla cinquantina, che hanno percorso la nostra via attraverso Khiva e Bukhara, una giovane coppia tedesca, arrivata in moto attraverso la Turchia, l’Azerbaigian e il Turkmenistan. Viaggiando si nota come tedeschi si muovano spesso a motore privato. Forse sono terrorizzati dalla scarsa prevedibilità dei mezzi pubblici in questi paesi, forse si sentono più liberi con un mezzo che possono guidare personalmente. In ogni caso il mezzo di trasporto è un simbolo di stato molto importante nel loro paese (ho conosciuto tedeschi che portano fotografie della loro Golf nel portafogli). Saranno loro a presentarci Yan.