lunedì 10 gennaio 2011


Quella città là, con i casermoni rovinati, i viali che sembrano autostrade, le statue sovietizzanti e le moschee, è Samarcanda, la nobile, la capitale della Via della Seta, pia e blasfema città di mercanti e di mullah. E oggi a Samarcanda pioviggina e gli hotel sono pieni. Distante dalla canicola di Bukhara, anni luce dalla città nascosta di Khiva.

Gur Emir, il mausoleo di Tamerlano, là nell'angolo di un’enorme isola pedonale triangolare, è esibito come un passo di un antico testo sacro con un evidenziatore giallo. Il Registan, la piazza inquadrata su tre lati da tre madrasse, il simbolo della città, è in un’area pulita e giardinata, attrezzata per sfruttare il turismo. Non al meglio, ma secondo standard organizzativi molto migliori rispetto ai monumenti del resto del paese. Manca lo spirito pionieristico, lo scoprire meraviglie nascoste, ma forse si chiama organizzazione turistica ed è giusto che sia così, almeno per chi abita qui e può così beneficiare di questa ricchezza.

I dubbi mi sorgono solo pensando che chi abita nei palazzi di Samarcanda non sembra necessariamente più felice degli abitanti delle case con i muri di fango e paglia di Khiva. Con il solo vantaggio che a Samarcanda le partite dei mondiali di calcio si vedono in diretta e la gente può tifare in diretta per l’arbitro: il signor Irmatov di Tashkent, che arriverà a dirigere partite importanti, fino a portare l'Uzbekistan alla semifinale fra Olanda e Uruguay.

Dei mondiali, gli uzbechi seguono solo l’arbitro, e comunque non l’Italia. Gli unici azzurri che conoscono sono Totti e Baggio. D’altra parte, non si può rimproverare ad un popolo di non conoscere Quagliarella.

Appena arrivati, dopo aver appoggiato gli zaini e rubato giusto due amarene dall'albero, camminiamo fino al Registan, saliamo fino alla moschea di Bibi Khanum, sulla cima di un pendio e ci troviamo di fronte alla collina di Afrosiab, coperta dalle tombe di un cimitero, in mezzo al quale si arrampicano in cordata le cupole azzurre del complesso di mausolei di Shah-i-Zinda.

È pomeriggio inoltrato, siamo euforici per essere qui, saliamo sulla collina, con l’idea ufficiale di dirigerci verso il palazzo dei sovrani della città, ma sappiamo che è troppo lontano e quello che vogliamo davvero è camminare soli, abbandonare l’effetto che si prova trovandosi improvvisamente in una grande città dopo giorni di solitudine. Camminiamo lungo una strada fra il cimitero e prati d'erba gialla, entriamo nei prati attraverso una spaccatura in un muro a secco e ci arrampichiamo fino in cima.

Siamo soli, nessuno in vista attorno a noi e dalla cima ci sentiamo in confidenza con le cupole di Bibi Khanum, che alla nostra stessa altezza sembra vogliano parlarci. La moschea è ancora più maestosa, incoronata fra le case basse e semplici di una zona residenziale.

Torniamo indietro in questo labirinto di casette, incollate come in un unico complesso abitativo, fra strade che curvano quando vogliono. I ragazzi che incontriamo per strada ci guardano con pudore, tenendo gli occhi ad angolature innaturali, per allontanare il volto il più possibile da noi, e poi accigliati e ci rivolgono un “Hello” a mezza voce, tanto che spesso non siamo sicuri che lo abbiano pronunciato davvero. L’Hello è così frequente e timido che abbiamo il sospetto che la cortesia verso lo straniero sia comandata da uno di quei murales patriottici, di cui non capiremo mai il contenuto, ma solo i colori, il verde, bianco e blu della bandiera nazionale.

La strada si fa gradualmente più viva, si aprono porte da cui escono bottiglie di bibite fosforescenti, sigarette e magliette con scritto Arsenal, Chelsea o Barselona, sempre e rigorosamente con la S.

Poi la strada si interrompe bruscamente: in mezzo è stato montato un cancello in ferro, uno sbarramento metallico che chiude completamente alla vista il resto della via. Ci avviciniamo fra l’ombra degli edifici e del cancello stesso, apriamo la piccola porta alla base e vediamo la luce: siamo sulla strada principale che collega il Registan alla sommità della collina, un ampio viale alberato fra negozi di tappeti, ciaicane e souvenirifici istituzionalizzati. La periferia, che si accalca ai bordi della strada come il pubblico di una gara ciclistica, è tenuto nascosto e protetto dietro le transenne. Riparata dagli occhi dei turisti, che potrebbero avere un’opinione troppo realistica di quello che succede dietro le quinte.

Anche il nostro albergo rispecchia la struttura urbanistica della città (e di Bukhara qualche giorno prima). Si estende su di un complesso di edifici ad un solo piano, con corridoi fra pareti tassellate di portoni che si aprono su giardini con gelsi, ciliegi, fichi, albicocchi e amareni. Dicono che le colazioni ricche di marmellate e macedonie siano fatte interamente con i prodotti dei giardini.

È a colazione che incontriamo i pochi altri turisti. Due belgi sulla cinquantina, che hanno percorso la nostra via attraverso Khiva e Bukhara, una giovane coppia tedesca, arrivata in moto attraverso la Turchia, l’Azerbaigian e il Turkmenistan. Viaggiando si nota come tedeschi si muovano spesso a motore privato. Forse sono terrorizzati dalla scarsa prevedibilità dei mezzi pubblici in questi paesi, forse si sentono più liberi con un mezzo che possono guidare personalmente. In ogni caso il mezzo di trasporto è un simbolo di stato molto importante nel loro paese (ho conosciuto tedeschi che portano fotografie della loro Golf nel portafogli). Saranno loro a presentarci Yan.

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