domenica 29 agosto 2010


Appena saliti sul treno, dopo una giornata di chili e chilometri e sonno da scontare, siamo quantomeno spaesati. È tutto il giorno che siamo spaesati, ma dal treno non ce lo aspettavamo. Ci saremmo attesi un rifugio, una pausa di solitudine dopo ore a contatto con gente dagli zigomi molto diversi dai nostri, che parla una lingua di cui non abbiamo idea. Invece non c'è privatezza, un vagone con forse cento persone, tutti gli occhi mirati su di noi. Agorafobi e claustrofobici allo stesso tempo, puntiamo le braccia sulle panche che diventeranno letti, tenendo la schiena rigida. Cerchiamo di scambiarci le prime opinioni, ma non funziona, con tutti che ci guardano parlare.

Sono i capifamiglia a farsi coraggio per primi:

“Gavarizie pa ruschi?” E fin qui ci arrivo

“No”, faccia spremuta come se avessi un limone in bocca, braccia a W verso l’alto, come una Kalì senza malformazioni

“Amerika?”

“No, Italya, Fransia”, puntando col dito verso i titolari delle rispettive nazionalità

“Aha!”, e finisce qui.

È una famiglia? Due? Tre? Fratelli, sorelle, gente che non si è mai incontrata prima?

Denti d’oro, donne dai vestiti lunghi a fiori, come quelli che mette mia nonna per lavorare in campagna. Bambini calmi, concentrati, coccolati senza quell’orgoglio di molte donne occidentali, che ti esibiscono il pupo per dimostrare di essersi realizzate. Canottiere, catene, ciabatte di pelle su calzetti bianchi. Gli uomini si passano coltelli di mano in mano, tastano l’affilatura, soppesano, bilanciano con un dito fra la lama e l'attacco dell’impugnatura. Il coltello qui conta. Non per niente nella valle del Ferghana è diventato un oggetto d'arte, con manici intagliati e lame istoriate.

Poi parte un giro di nomi indistinguibili, quanto i nostri per loro. Per spiegare il mio, non sono ancora arrivato all’idea di citare Polo e dubito che qui si conosca van Basten. Poi silenzi. Interrotti da parole, ancora troppo pensate prima di uscire.

"Italya, Fransia, but live Holland". "Amsterdam, Holland: tulip, mulino, Robben, van Persie"

"Amsterdam, Fransia?"

"No, Amsterdam, Nederland, Netherlands, Holland".

"Ola, da, ola"

Alle 8 è già quasi notte e noi non abbiamo ancora pensato al cibo che non abbiamo. L'orizzonte, attraverso la finestra sporca ha il colore dello yogurt ai mirtilli, con una grossa bacca nera e luminosa al centro. Prima ancora di sentire la fame, quella che ormai si delinea come un famiglia, signore sui trentacinque, moglie e due o tre figli, ci offre della focaccia vagamente gommosa, ricamata di fiori. È il non, il pane uzbeco, girato nei forni con timbri di legno con chiodi all'estremità, che formano a puntelli la sagoma di un fiore stilizzato, in modo da stampare una figura sulla pasta.

Dalla borsa esce anche una teiera di ceramica, bianca e blu, con disegni stilizzati di piante del cotone. In breve tutti nei dintorni brandiscono lo stesso tipo di teiera, con coppette abbinate, e fanno la fila al samovar del vagone, per aggiungere acqua calda alle foglie di tè verde. Il cerimoniale imporrebbe di versare un po' di acqua ancora priva di sapore nelle coppette e riversarla poi nella teiera, per tre volte. Una cerimonia che viene seguita senza troppo zelo. Una cosa che qui hanno imparato dal sovietismo è che non vale la pena di dare troppo peso alle tradizioni.

Chi crede nell'Islam o nei segni si passa le mani sulla faccia, per lavarsela della benedizione di Allah. Poi arrivano due coppe anche per noi. Dai panieri escono uova sode, alcune signore portano cesti da cui si può comprare salame di carne macinata finissima, tranne per i cubi di grasso, la parte ricca della carne. Veniamo invitati a mangiare. Appena le nostre mani rimangono vuote, ci viene offerto qualcosa di nuovo.

“Syr Darya!”, ci fa un signore magro, scuro e sorridente quando passiamo su di un ponte di ferro. Il primo dei due fiumi che con molte licenze delimitano il nord e il sud del paese. Si chiamava Iaxartes e qui sanno che lo si conosceva già millenni fa. Qui l'acqua è orgoglio. Oro invisibile per chi riesce a tappare le falle nelle tubature esposte alle intemperie.

La famiglia riordina cibo e posate, dentro sacchetti di nylon con gli unici due o tre disegni comuni in tutto il paese. Quello giallo e rosso del tè e quello azzurro e bianco con scritto "styled in Italy". Gli stessi due modelli, dalla capitale ai mercati più impolverati nel Kyzyl Kum.

Ora il tavolino lo prendono due signori in canotta bianca. Uno grassoccio e chiacchierone, dai tratti eurasiatici, una specie di Craxi all'orientale, l'altro magro, silenzioso e di fisionomia russeggiante. Si passa alle armi pesanti: pollo all'unto e vodka, anzi, "schnaps", come dicono loro. Insistono che si assaggi. In effetti la schnaps non sa di vodka. Non avevo mai associato la sfera di influenza russa con altri superalcolici che la vodka.

Il termine "sposato", in russo, non l'ho mai imparato. Quello che capisco è l'indice rivolto verso di me e poi verso Lilù, poi gli indici delle due mani si toccano e si allontanano ripetutamente, in un gesto famigliare.

"No married", come se comprendessero il "married". Invece capiscono la testa e l'indice, che si spostano a destra e sinistra.

Poi prendono coraggio anche le donne, si avvicinano, una parla tre parole di tedesco. Una ragazza sui venticinque, forse più giovane, timida, ma distinta di portamento, dice di essere Lehrer, Schule, Biologhia. Più tardi Lilù mi dirà che sembrava decisamente interessata a me. Ci rendiamo conto che avendo capito che non siamo sposati, i viaggiatori uzbechi presumono che siamo semplicemente amici, o compagni di viaggio.

Craxi, l'uomo della schnaps, torna trascinando un bambino sui dodici anni, faccia e ciuffo da ragazzino sveglio delle pubblicità dei giocattoli, occhi profondi e scuri. Dicono che parli inglese e in parte è vero, per quanto inglese possa parlare un ragazzino della sua età. Riesce a rendere comprensibile il suo nome, Mamur. È un giovane tennista promettente e sta tornando a casa da un torneo nella capitale. Ha un fratello di otto anni circa, Cosciù. Anche lui sa due parole d'inglese, anche se non è altrettanto abile nell'articolarle.

Loro saranno i nostri interpreti e la prima domanda da interpretare è quanto guadagniamo in Europa, o così sembra. Rispondiamo di proposito in modo prolisso, in un inglese complicato, prendiamo tempo farfugliando che il biglietto di quel treno in Europa costerebbe cinquanta volte tanto. Raggiungiamo il nostro obiettivo, il messaggio si perde fra una lingua e l'altra e nessuno osa insistere dopo un paio di esplicazioni altrettanto complicate.

Anche per via di questa domanda cerchiamo di giocare di modestia. Limitiamo al massimo le fotografie, in modo da non sfoggiare inutilmente le nostre macchine fotografiche digitali. Poi, appena trovo il coraggio di estrarre la mia scatoletta argentata per qualche foto ricordo, il fratello di Mamur sparisce e torna con un apparecchio professionale nero, grande più della sua testa, scattando fotografie a nastro e a caso.

Finiamo così, foto ricordo e un altro giro di schnaps, con l'odore del pollo che aleggia più di quanto avesse aleggiato da viva la gallina dalla quale la carne proviene. Ci si ritira tutti allo stesso tempo, perché in un ambiente così affollato è necessario sincronizzare il sonno, in modo che chi chiacchiera non svegli chi dorme. Gli uzbechi sembrano gente altruista.

La notte è placida. Le fermate sono poche e il rumore dei nuovi passeggeri ridotto e rispettoso. Il lenzuolo è troppo corto, ma la temperatura è quella giusta per non aver bisogno di essere coperti.

Quando mi sveglio Lilù sta già bevendo tè con la famiglia che ci aveva offerto la cena. Così mi alzo e partecipo alla colazione di patate. Compriamo dei dolci per ricambiare la generosità, ma sul vagone, solo i bambini più piccoli accettano il dono. Gli adulti rifiutano con una decisione sufficiente a convincerci a non insistere.

Viaggiamo nel mezzo del deserto. Dune dopo dune, messe in prospettiva solo da file di piloni in legno per l'elettricità. I pochi paesi hanno capanne di fango, dello stesso colore delle dune, delle strade e della polvere che copre carri, bestiame e persone.

Ormai la curiosità di tutti ha superato la timidezza e siamo costantemente a udienza da qualcuno. Tutti ci invitano a casa loro, soprattutto Craxi, che insiste. Alla fine accettiamo, anche se è evidente che non ci presenteremo mai. Perché poi? Ce lo chiederemo solo qualche giorno dopo. Forse paura di perdere tempo e deviare dal programma? Craxi vuole convincerci ad evitare Nukus e Moynaq, se ne vergogna. Vuole portarci dove sa lui e noi vorremmo vedere anche i posti di cui vergognarsi.

Ci vorranno ancora uno o due giorni prima di capire che avere un programma è il modo migliore per perdersi ciò che vale la pena di vedere.

Passiamo tutta la mattinata in testa al vagone, fra le porte di accesso e quella del bagno, nell'atrio di ingresso, dove possiamo abbassare il finestrino per fare fotografie più nitide. Mamur e Cosciù ci mostrano il loro villaggio, mentre il treno gli sfila davanti. Qui abitano le persone di apparenza più agiata fra quelle incontrate, con racchette da tennis e vestiti sportivi ma eleganti. Fango secco su fango. Questa è un'altra cosa che scopriremo più avanti: solo perché hai i mezzi per farlo, non significa che tu debba voler vivere in città, in una casa moderna, fra quelli che noi chiamiamo comfort.

Quando torniamo ai nostri posti, la famiglia che ci ha salvati dalla fame è già scesa. È un peccato non averli salutati e il vagone è già più vuoto e silenzioso.

Il treno non fa molte fermate, ma i centri abitati sono tutti concentrati nell'ultimo tratto del percorso. Dopo poche ore scendiamo anche noi, a Urgench, oltre mille chilometri fisici e culturali da Tashkent. L'Unione sovietica è confinata fra gli archi alti e il lampadario barocco della stazione. All'esterno comincia il Khorezm, tra file di taxi improvvisati e autisti che spingono i visitatori a scegliere proprio il loro.

Lasciamo il traffico dietro di noi e camminiamo lungo la linea retta asfaltata che dovrebbe portare verso il centro, poi, dopo esserci soffritti e rosolati per duecento metri, saliamo su uno dei minibus che si fermano per indurci alla ragione e ci facciamo portare a Khiva. Trenta chilometri di asfalto impolverato, piante che crescono pallide e carri trascinati da asini dalla palpebra pigra.

E poi, fra case di periferia, mercati arrabattati e ciaicane improvvisate, ci troviamo di colpo sotto le mura della cittadella di Khiva. Non mi era mai capitato prima, di trovarmi ai piedi di un castello di sabbia. L'effetto è impressionante. E non ci siamo ancora entrati.

sabato 14 agosto 2010

È proprio questo il pensiero che ci perseguita all’inizio. Perché siamo venuti qui? Più per scoprire un paese o perché il nome fa ridere? E se vince la seconda, cosa ci facciamo in un posto dove siamo andati solo per il nome?

Prendi l’arrivo. Fra controlli e carte da compilare, usciamo dall’aeroporto di Taskhent alle 5 di mattina, è già giorno quasi pieno, perché da queste parti il fuso orario è più tradizione che convenienza, verso le 6 siamo nella stanza d’albergo che abbiamo prenotato via internet, credendo di arrivare per le 3.30. Alle 6.30, appena addormentati, ci svegliano dicendoci di averci dato la stanza sbagliata. Andiamo a letto alle 7.30, perché la stanza va preparata, e la sveglia suona alle 9. Sulla via per la colazione, ci avvertono che non risulta che abbiamo pagato, telefoniamo all’agenzia on-line, dove per fortuna scopriamo che c’è stato un malinteso (o meglio, i gestori dell’hotel hanno ricevuto il pagamento sul conto in banca, mentre si sarebbero aspettati soldi veri).
Alle 10 siamo pronti per partire, sollevati dal problema risolto e nonostante la calura, ci godiamo la camminata dalla periferia alla stazione centrale, scoprendo il motivo della pianta di cotone, che trionfa su ogni muro, la gentilezza della gente, il traffico di veicoli sovietici e coreani e la luce bianca che filtra fra le nuvole. Passiamo in stazione, perché l’idea è quella di partire subito, prendere un treno e correre fino al punto più lontano, per trasformare il viaggio in un lungo ritorno.
Ma leggere gli orari non è facile. I treni non passano tutti i giorni e noi non abbiamo idea di come si dica venerdì in russo. Non ci resta che sperare che gli orari scaricati da un sito internet piuttosto informale siano validi.

A questo punto abbiamo fame e ci mettiamo alla ricerca di un bancomat per prelevare i nostri primi sum, valuta con lo stesso cambio de tugrik mongolo e della lira italiana. I bancomat non esistono, così cerchiamo una banca. Le banche esistono, ma non vogliono lasciarci prelevare. Prelevare in sum è impossibile, ci servono dollari, e si dice che in città il contante scarseggi. Trasciniamo corpo e borsone da una banca all'altra, mimando e usando parole di caratura internazionale, quali dollar e credit card, quando finalmente qualcuno ci avvisa che l'unico modo per prelevare è farlo dall’ufficio di cambio di un hotel a cinque stelle. Ormai stiamo camminando da tre ore, con lo zaino pieno in spalla. Il sudore ci percorre la schiena a gocce e anche il Grand Hotel ha finito i dollari. Sorridendo, la ragazza alla reception ci confida che siamo stati fortunati a non esserci fatti ingoiare la carta di credito. Fortuna a parte, l’ultima possibilità di raccattare di che vivere è camminare un’altra mezz’ora verso un hotel di una catena russa, dove francamente dubitiamo di poter prelevare gli ultimi dollari rimasti in città.

Siamo in Uzbekistan da dodici ore e il treno per Urgench, se passa, passa fra due. Noi invece siamo demoliti. Però stavolta ci va bene. Certo, non tutti i tipi di carta di credito sono ben accetti, ma io ho quella giusta. Anzi, il garzone dell’hotel parla inglese e ci trova tutte le informazioni sui treni. Quello per la periferia dell’Asia passa effettivamente fra 2 ore e poco più. Di più, possiamo comprare i biglietti dall’hotel e lo facciamo, perché abbiamo già provato prima a metterci in coda allo sportello della stazione e non è il caso di ritentare l’impresa. Parlare a segni si può, ma solo se l’interlocutore ha intenzione di ascoltare.
Ci rimane un’ora e mezza di libertà. Visitiamo la parte più sovietica del centro. Una piazza con la statua di Amur Timur, detto Timur lo Zoppo, Tamer-Lame, Tamerlano. Per Timur c’è anche un museo rotondo, dipinto di bianco e di quel verde pastello che si trova dappertutto nel mondo sovietico. Poi c’è una specie di casa bianca, chiaramente la sede del governo, perché America o Asia, la sede del governo deve essere una casa bianca, possibilmente in stile neoclassico. Questa è affiancata da un enorme radiatore di cemento, l'Hotel Uzbekistan, quello dove venivano tenuti gli stranieri fino a meno di vent’anni fa. E poi c’è la Broadway di Tashkent, un nome che promette Lamerica fin dall’inizio e mantiene la promessa, nonostante il gusto di un prato verde. Anche la nostra fame è degna de Lamerica e per una volta contravvengo ad una delle mie regole di viaggiatore: mai mangiare in un posto dove alla porta sta un buttadentro. Stavolta il buttadentro è una gentile signora dai fianchi larghi e i capelli sbiancati, chiaramente russa, che ci promette di cucinarci qualsiasi cosa vogliamo, ma senza rivelarci (in realtà lo sospettiamo) che deve andare a comprare gli ingredienti al negozio. E così un’ora se ne va, mangiando prima il dolce, una tortona da matrimonio di cartone, mentre si aspetta una scaloppa con contorno di riso al ketchup. E ci sentiamo come turisti che vengono dalla parte obesa de Lamerica quando andiamo, con loro che pretenderebbero di farci pagare 50 centesimi per lo zucchero del tè. Va bene, va bene, stavolta abbiamo imparato, alla prossima non ci faremo fregare.

Per tornare in stazione prendiamo la metropolitana, perché dicono che ne vale la pena, di vedere come hanno arredato ogni stazione, come un salotto profumato di oli combusti, stile arzigogolato, ma geometrico, puro modernariato. Quello che non sappiamo è che la polizia è solita fermare i turisti zainodotati per arrotondare lo stipendio. Ed è una fortuna che non lo sappiamo, perché nell’incoscienza manteniamo la calma durante la perquisizione e anche se scopriremo solo più tardi che forse è stata quella donna di passaggio a salvarci la cassa, quando ci lasciano andare non ci sentiamo particolarmente miracolati. Anche se resta comunque il pensiero di perdere il treno, legato a quanti minuti dovremo aspettare la coincidenza al momento del cambio. Per fortuna l’attesa dura solo due minuti, arriviamo in stazione, corriamo al binario e, finalmente sollevati, consegnamo il biglietto al controllore, molto meno formale dei colleghi russi, che ci fa segno di salire a bordo.

E il sollievo dura trenta secondi, perché appena saliti ci accorgiamo di essere finiti in quella che fra Mosca, Pechino e Vladivostok si chiama terza classe.

Ci sediamo sulle panche dello scompartimento aperto, senza porte e pareti, pronti per una notte stretta, rumorosa, faticosa. Ci guardiamo negli occhi, perplessi. Ne è valsa la pena? Ed è da qui che cominciamo a conoscere questo paese. Perché siamo stanchi, sudati, incerti, ma non ci permettono di buttarci giù.

domenica 1 agosto 2010

L’Uzbekistan c’è, ma non ci si pensa. Lo nomino, da anni, per scherzo, quando è bene gettare nella conversazione il nome di un posto lontano, o semplicemente assurdo. “Dove abiti?” “Diemen: tra Oosterpark e l’Uzbekistan”. “Politici onesti? Forse in Uzbekistan”.
Era diventato una specie di tormentone, l’Uzbekistan, usciva spesso nelle conversazioni. Non era un paese, ma una metafora.

Poi, un giorno, nell’inverno quando si pensa all’estate per trovare motivazione a resistere, io e Lilù parliamo di cosa fare e si dice di fuggire dal lavoro opprimente. Maldive? Naa, diciamo Vanuatu, Lesotho, anzi Uzbekistan.
E poi a febbraio ho visite: vengono Nicola, l'amico mio di Roma, e Tomas, il mio fratello scandinavo, col quale ho attraversato la Siberia.
Sento che è il mommento di anticipare a Lilù i miei piani. Io e gli altri pensiamo al Brasile: Pelè, Garrincha, Lula, Jobim. Lilù mi guarda, ha occhi come marmo grigio, la fronte si aggrotta come il cammino di un bruco e le estremità delle labbra si abbassano. Perplessa, mi dice “Ma come, non andavamo in Uzbekistan?” “Sì, certo, in Uzbekistan ci passiamo, però prima andiamo in Swaziland”. Lei mi guarda. Esattamente nell’istante in cui si accorge di essere stata presa per il culo, io mi rendo conto che sarebbe pronta a farlo davvero.

“Aspetta, non ti prendo in giro, facciamolo”.
”Lo dici per farmi piacere, va' pure con in tuoi amici".
“No, davvero, andiamo”
“Davvero-davvero?”
“Ti sembro il tipo che spara cazzate?”
“Veramente sì”
“Vero, stavolta no però, giuro”.

E ormai sono curioso. Mi rendo conto di non sapere nulla sull’Uzbekistan. Samarcanda si sa che esiste, ma cosa c’è a Samarcanda? E il resto? Il giorno in cui diventa chiaro che il Brasile rimarrà privo di noi (Tomas ha comprato casa, Nicola non può prendere ferie), ho già cercato e trovato decine di fotografie, mi sono meravigliato davanti a Bukhara, ho scoperto l’esistenza di Khiva, ho letto articoli sulla lavorazione della seta e dei tappeti. E lo sapevate che ai tempi dei soviet l’Uzbekistan era il maggiore produttore di cotone al mondo? E che per rendere possibile l’impresa è stato prosciugato il Lago d’Aral.
Alla fine quella di andarci è una decisione spontanea.