domenica 22 novembre 2009

Nove settembre

La tentazione è troppo forte. Il baracchino bianco è là di fronte e alla fine la doccia ce la facciamo. Fuori è già caldo e i capelli si asciugano al sole. Quasi tutti gli altri gruppi sono partiti, fuoristrada sovietici e pullmini giapponesi sono spariti presto. Qualcuno potrebbe essersi esposto ad una sveglia al freddo, pur di non perdere un’ora. Gente che ha tenuto la sveglia sull’ora di quando lavora, che si sa, perdere il ritmo è uno dei peccati della nostra epoca.

Comunque partiamo anche noi, neanche troppo tardi, che prendersela comoda va bene, ma non serve arrivare al punto in cui vorrebbe arrivare Cass.
Un’altra giornata in sella, stavolta al fuoristrada. Ci dirigiamo verso ovest, di più non so dire. Punti di riferimento non ce ne sono. Le città sono semoventi come le tende a tortiera, un quadrato in muratura con scritto locanda può essere un ritrovo isolato e diventare un paese in un pomeriggio. Ci si sposta, ma nell’enormità non notiamo nessun movimento. Nessun carro, nessun camion carico di tende, nessuna carovana. Si muovono da soli, come animali selvatici senza il problema di marcare il territorio.

Anche la nostra è una giornata solitaria. Le uniche tracce di civiltà sono antiche, già partite da secoli verso la Cina, l’Europa, l’America. Mura misteriose che si alzano dalla prateria. Ci fermiamo, solo mura, nessun'altro indizio. L’archeologo tedesco, un ragazzo della nostra età, occhiali con la montatura spessa, capelli lunghi e ricci raccolti in una coda, barbetta d’ordinanza, finge di non vederci. Forse ce l’ha con i turisti. Ma forse no, ce ne accorgiamo quando ci prende lo stesso impulso. Il silenzio è contagioso e nel fuoristrada si sentono solo i rumori della pista. Non automobili in direzione contraria, ma il rattolìo degli assali nelle buche, gomma che arranca su pietra e terriccio secco, il tuffo nei rivi stretti, l’uscita slittando sulla terra bagnata per scivolare poi su quella secca. Fanno silenzio gli animali, le aquile, i cavalli, le capre, i cammelli e gli yak. Forse ci ricordiamo di essere animali anche noi. Non una parola, mentre la bestia che ci custodisce nel suo utero socialista arranca nei prati. Solo una volta ci superano due uomini al galoppo, tabarri grigi con un panno giallo alla vita.

È una giornata verde scuro e blu. Immobile come l’aria. C’è un piccolo monastero che sembra un convento. Moderno, bianco del recinto che lo circonda. Dall‘esterno dei muri bassi non si vede nessuno. Fuori una ger isolata e un gazebo dipinto dei colori del lamaismo, arancione e azzurro, rosso e verde. Colori vivi intonati col cielo. Attorno il vuoto. Mangiamo sotto il gazebo, evitando l’ombra, perché fuori dalla mano calda del sole, alzata su di noi in segno di benedizione, fa quasi fresco.
E dalla ger esce un bambino di tre anni, a cavallo di una macchina di plastica rossa, blu e gialla. L’unica persona fra la tenda e il conventucolo. È felice di trovare compagnia, cinque persone scodellate dal ventre della terra in una scatola di ferro verde scuro, temprato dagli sforzi di proletari russi, calmucchi, uzbechi o tuvani. Abbandoniamo l’arte zen della digestione di salame, cetrioli, biscotti e buche mattutine per calciare Garbömbög verso l’infinito. Il bambino è dotato di una buona potenza nel tiro, ma soffre nelle fasi più tecniche del gioco. Ma ride e negli occhi leggi che la solitudine per lui è una circostanza imprescindibile, lo stato naturale dell’essere, ma senza essere una sensazione da perseguire volontariamente. Gioca, dà fondo alla sua necessità di socialità, ma quando partiamo non si scompone. Sa che partire è necessario e non si è mai aspettato che non lo facessimo.

Il fuoristrada si arrampica su colline pelate e dietro ad una di loro si apre un mare, anzi un lago, perché nell’infinito le distanze ingannano. Un lago tempestoso di acque neroblù. Il sole è quasi coperto ora, il vento ci colpisce a folate. Il fuoristrada si ferma appena raggiunta la riva. L'idea è quella di montare le tende, tende tradizionali, triangolari, per l’ultima notte. Ma non ho voglia di accamparmi, propongo una camminata. L’idea è accolta senza entusiasmo. Indico un punto dietro una collina, lungo la riva, dico che là sembra riparato dal vento. Parto senza attendere una risposta e l’unico a seguirmi è Tomas, che nella sua vocazione di intermediario ha preferito evitare di esporre il suo parere, ma è a favore della camminata. Per la prima volta parliamo di Cass e della sua pigrizia. È solo qui che Tomas mi confessa che la cosa dispiace anche a lui.

È una camminata che ci rende liberi, a piedi, l’unico modo per rendersi conto delle dimensioni della terra, misurare cubito per cubito usando le scarpe da ginnastica come calibro.
Il terreno è forato da roditori invisibili, ogni foro collegato da una minuscola pista in linea retta. Una rete viaria più capillare di quella umana, in questo paese.
Dietro la collina c’è una mandria di cavalli al pascolo. Vederci li spaventa e li spinge verso l’acqua. Le nostre fotografie dei cavalli nell’acqua potrebbero essere poster nella camerettaa di qualsiasi adolescente europea.
Sulla riva spicca una bottiglia verde di Sprite, di un verde intenso perché il liquido che fa da base al verde non è gazosa trasparente, ma un altro liquido bianco, che ormai conosciamo. Scatto altre fotografie di Tomas con la bottiglia, nel caso qualcuno volesse fare una campagna pubblicitaria in favore del latte di cavalla fermentato.
Troviamo uno spiazzo che sembra prottetto dal vento, un rientro del lago con uno svallamento dolce, con ciuffi d’erba gialli e rari cespugli. Decidiamo che potrebbe essere il punto adatto per piazzare le tende. Torniamo indietro e troviamo tutto come alla nostra partenza. Addirittura lo sportello sul lato destro, riparato dal vento, è ancora aperto, come lo avevo lasciato io. Tutti e tre i passeggeri dormono e provo un senso di tristezza. Amarezza per Olof, che non proverà mai quel senso di libertà che gli sarebbe costato così poco. Dopo tutti questi chilometri, questo tempo e questi soldi spesi, fermarsi cinque metri dal traguardo per riprendere il fiato sembra un peccato.
Chissà se conosce la storia di Dorando Petri.

L’equipaggio della jeep accetta la nostra proposta e ci portiamo nello svallamento per fare campo per la notte. La nostra valutazione però era errata. Probabilmente la camminata ci aveva riscaldati, facendoci sentire un calore inesistente. Ora invece pare che il vento tiri forte come nel punto da cui siamo partiti. Pazienza. Montiamo le tende, con la scatoletta verde parcheggiata fra noi e il vento, come un ombrello da borsetta in una tormenta.
Con il passare del tempo il vento raschia via il calore dall’aria. Ripeto il nostro rituale animista, entro nel lago a piedi nudi e pratico la sacra minzione, ma appena vedo una limaccia supersonica sfrecciare fra i miei piedi salto a piedi pari sui sassi scomodi della riva, prima che la sanguisuga mi si attacchi.

E poi sono tutti stanchi. Vorrei fare un’altra camminata, ma il massimo che cavo è una partitella di calcio. Chissà perché non mi viene in mente di andare da solo, forse sono pigro anch’io. Ormai fa freddo e dobbiamo tenere la giacca a vento abbottonata bene perché il vento gelato non ci sorprenda nel basso ventre. Anche Agghi si unisce alla partita su questo campo enorme e irregolare, a forma di curva parabolica. Garbömbög è un pallone da pallavolo regolamentare e non ha il peso di un SuperTele, ma il vento riesce comunque a portarcelo via, noi lo recuperiamo e il gioco diventa lanciare bordate controvento, con il pallone che ci viene restituito regolarmente. Da una baracca di legno in cima alla collina, uno dei pochi edifici concepiti per poggiare in un unoco posto per tutto il loro ciclo vitale, esce un ragazzo con una barbetta di stampo occidentale e una maglietta da metallaro moderato. Fa due tiri anche lui, ma è bravo quanto Agghi e dopo pochi minuti smette. Strano, perché il nostro stereotipo suggerirebbe che per sopravvivere nella prateria serve parecchio ingegno nelle operazioni pratiche. La verità è che Ulan Bator è una città come le altre e non serve puntare a sopravvivere. Si può vivere comodi, anche senza ingegno.

Con la sera arriva il freddo vero e un po’ ci sentiamo in trappola, senza edifici caldi dove rinchiuderci. Rimane solo il fuoristrada. Ceniamo sui sedili, gli stessi che più tardi Agghi chiamerà letto.
Il metallaro autoctono si unisce a noi e accendiamo un falò. All’inizio porta alcune stecche di legno, ma poi proseguiamo a cespugli secchi e sterco di diversa provenienza zoologica. Lo sterco brucia bene, è profumato. Meglio del legno. I mongoli cominciano a parlare la loro lingua, solo Ciuca sa l’inglese e tendono ad isolarsi da noi, affascinati dalle storie che racconta il Dersu Uzala from Hell. Quando insistiamo Ciuca traduce, la storia del primo carro armato nelle tre baracche che qualora integrate da un paio di tende fungono da villaggio. Un carro armato inviato da Stalin, pare che il volgo l’avesse scambiato per un animale da catturare con corde. Constatato che le corde non bastavano, i villici lo avevano cosparso di grasso per dargli fuoco. La forza del socialismo deve essere apparsa piuttosto convincente da queste parti.

Bruciato tutto lo sterco disponibile alla vista e al tatto entriamo nelle nostre tende. Io dormo con Cass, che nonostante la dose pomeritdiana appoggia la testa e parte. Io invece devo disfare la valigia e stuzzicare la mente con mille soluzioni per coprire me e i due sacchi a pelo che da soli non bastano. Alla fine Cass e io dormiamo bene e ci perdiamo i rumori di cui ci parlerà Tomas.

giovedì 12 novembre 2009

Otto settembre

Il segreto dell’estate mongola è non alzarsi troppo presto. Noi ci alziamo alle 8 e il termometro ha già passato i 20. Un’ora prima avrebbe fluttuato attorno allo zero.

Sto bene, ho dormito quanto basta, so di campeggio. Davanti a me la prateria, terra con ciuffi d’erba, a distanza regolare, come uno che si è fatto trapiantare i capelli. Lo stagno a distanza, più in là ciò che resta di montagne antiche, le estremità isolate, smangiate e rarefatte degli Altai, che escono dal terreno come le teiere del deserto del Nevada. Fuori dalla ger hanno parcheggiato una moto. Una composizione da poster per adolescenti, manca solo il coiote che urla di profilo e il sogno americano non è mai stato così vicino. Ce lo dice anche Ciuca, a colazione, che gli indiani d’America hanno origini mongole. Dice che la sua lingua è molto simile ad alcuni dialetti di chi ha scoperto l’America prima di Colombo. Ascoltando bene, la cosa non sembra certo impossibile.

Dopo colazione, accettiamo una gita a cavallo fra le dune. Uno spettacolo, le dune. Il deserto è solo un quadrato di un paio di chilometri, un box con la sabbia per un bambino di famiglia troppo ricca. Non riesco a immaginare come possa essersi generato, solo, isolato nella prateria. Dune e cespugli, tutta corteccia, poche foglie. Ci guida il membro più anziano della famiglia che ci ospita. Non il capofamiglia, traduce Ciuca, quello deve essere giovane. Il nonno non è più in grado di governare le capre. Meglio lasciarlo col suo gregge di turisti mansueti.

Ma il nonno ci sa fare con i turisti. Baffo rado da adolescente, elegante nella sua tunica scura, con un cappello fra il buttero e il gaucho, orgoglioso della sua spilla con la bandiera tedesca. Certi turisti girano con borse di spilline idiote da regalare alle tribù che incontrano sulla via. Anche la Lonely Planet consiglia di farlo. I nordeuropei hanno spesso un fare paternalistico con chi è nettamente inferiore a loro sul piano della civiltà (ma non si dice). Spesso vale anche per gli italiani.

La Mongolia è uno dei paesi più poveri al mondo, dicono. Forse anche perché qui in pochi hanno una casa, mentre gli altri vivono in una ger di feltro da montare e smontare in mezz’ora. Forse perché nessuno possiede terra. La terra è gratuita, ce n'è per tutti e nessuno viene espropriato. In un paese dove non ci si preoccupa di razionalizzare, rendere efficiente, ottimizzare, il termine “estensivo” non trova applicazione. Vale per l’agricoltura e l’allevamento, animale e umano.
A dire la verità non è più così: da tre anni è stata approvata una legge che istituisce la proprietà privata, ma non sono molti ad aver cambiato stile di vita, pare. Almeno a vedere le ger piantate ovunque, anche in città, in mezzo ai cantieri.

Il nonno invece è quanto di più vicino al concetto di imprenditore si possa trovare nella prateria. Dimostra anni di gestione del turismo in stile buon selvaggio. Sa fare fotografie con macchine digitali e telefonini, ci invita ad arrampicarci su una duna di corsa per fotografarci nell’atto. Rabbrividisco quando si mette a disegnare per noi, cavalli e ger con un bastone nella sabbia. E immagino il sorriso quasi commosso sulle labbra del turista euramericano mentre segue l’esibizione del buon selvaggio. Conosce alla perfezione i luoghi più fotogenici e in mezzo al suo deserto da diorama, si ferma e finge di guardare lontano con il monocolo che gli ha regalato qualche nostro predecessore. Ci fa capire in qualche modo che i turisti gli fanno sempre dei regali. Mentre Tomas e Oleg si chiedono cosa dargli, io mi sento imbrazzato, come un diavolo solo e nudo in mezzo al paradiso. Ma anche il diavolo si commuove in paradiso e il sole, le dune, l’altezza dal terreno sul dorso del cavallo e la gioia di non essere più single, mi fanno sentire libero almeno quanto il bovaro delle celebri sigarette.

L’anziano cavallaro ripete i nostri nomi, Tomas, io, poi “cass” indicando il cavallo. Oleg è come sempre a distanza di sicurezza, spaventato dal suo animale pericoloso.Più tardi scopriamo che Cass non è il cavallo, ma la sua interpretazione di Olof. Tomas, Marco, Olof: Tama, Maca, Cass.

Smontiamo dai cavalli fisici e saliamo su quelli ad idrocarburi della nostra jeep sovietica. Incontriamo decine di aquile dalla testa bianca, spesso posate ai bordi della strada, sugli övöö, cumuli di sassi coperti di leggeri panni azzurri. Dicono che per ingraziarsi il genius loci alcuni autisti si fermino ogni volta per costringere l’equipaggio a girargli attorno tre volte. Per fortuna Agghi non è così pio e si accontenta di un colpo di clacson.

A metà strada ci fermiamo per il solito pranzo con gli stessi ingredienti della colazione e della cena. Con la sola differenza che a mezzogiorno subentra il salame e a cena fa il suo ingresso la capra. Cetrioli, pomodori, surrogato di Nutella e biscotti ci fanno intravvedere la mano del signore olandese dietro l’organizzazione. Agghi è carnetariano e si rifiuta di mangiare qualsiasi cosa non abbia respirato o ruminato prima della macellazione, o che non provenga da una creatura che lo abbia fatto. In Mongolia, di orti, se ne vedono pochissimi. Dimostrarsi un vero uomo ha un alto valore sociale.

Mentre mangiamo scherziamo ancora una volta sull’airag, la bevanda nazionale mongola, fatta di latte di cavalla fermentato, “Fermented mare milk”, riportano tutte le guide, usando sempre gli stessi tre termini. Già da qualche giorno l’airag è diventato oggetto di battute ricorrenti e Ciuca ci anticipa che presto potrebbe venire il momento di provarlo davvero. Un po’ ci spaventiamo, perché nessuno aveva ancora parlato di assaggiarlo, ma l’effetto dell’ilarità è molto più forte.

Nel primo pomeriggio, immersi nella canicola, scorgiamo a distanza una concentrazione di ger e un enorme recinto in muratura bianca, colore pulito, innaturale fra gli ocra e i verdi della prateria. È il monastero di Karakorum, antica capitale della Mongolia, già visitata da Marco Polo. Ora, fuori dal tempio, rimangono solo le tende.

È divertente visitare un monastero tenuto a modo mongolo, all’interno delle mura campi di erba alta, non mi stupirei di trovarci animali al pascolo. Ma gli interni degli edifici religiosi sono stupefacenti, arancio, rosso, blu, giallo tuorlo. Mi divertono le donne anziane in pellegrinaggio, che si comportano esattamente come i nostri anziani nei monasteri cattolici più in voga.

In Europa si parla del buddismo come di una religione pura, incontaminata, fatta di meditazione, sentimenti importanti e dedizione, così non posso che sentirmi sollevato a vedere i monaci in preghiera, quelli più giovani con espressioni visibilmente annoiate. È sempre una soddisfazione, riportare a terra gli uccelli che sembrano volare troppo in alto, corvi che da terra sembravano falchi.

Nel buddismo, come nel cristianesimo, quello che affascina, che converte anime, sono i simboli. Le parole che appagano di più perché non vengono dette, ma lasciate intendere. Il simbolo della bandiera mongola, ricalcato dai muri del monastero di Karakorum: il fuoco, il tao, la luna, il sole, le colonne della vita o della ragione. Pensandoci bene, tutta bellezza, forza, eleganza, meditazione in potenza, nessun significato stabile e univoco e che ognuno ci legga quello che vuole, come nella Bibbia.

Il simbolo fa da stipite anche al portone del monastero. Di fronte tre tende azzurre, tende quasi tuareg, non ger, una con un’aquila addestrata a farsi fotografare, un’altra non so cosa venda, la merce esposta male non attira la mia attenzione europea. L’ultima non sembra vendere niente, non espone messaggi o cartelli, ma Ciuca va a colpo sicuro. Là sotto, al riparo dal vento più che dal sole, proveremo l’airag.

La mia famiglia, come da tradizione locale anaune, ogni anno a giugno raccoglie ceste di fiori di sambuco per farne uno sciroppo molto dolce, tagliato con poco acido citrico, da diluire con l’acqua. Agli ospiti non piace mai, ma noi siamo abituati al suo sapore. Capita che qualche bottiglia chiusa male fermenti. Quello è il sapore dell’airag, un sapore fermentato, non nuovo, né particolarmente strano. Neanche buono, ma è tutta questione di abitudine. Come per il sambuco e più avanti per la birra, anche per l’airag. Un altro paio di tazze e ci potrebbe anche piacere.

Ciuca ci porta al mercato nero, che qui è il nome che si dà a qualsiasi mercato gestito da zingari. Per 3000 tugrik, 3000 lire, ci aggiudichiamo un pallone da pallavolo bianco, giallo, blu, con scritto ГАРБӨМБӨГ, che in mongolo significa pallavolo. Lanciamo Garbömbög nei prati di Karakorum, come sempre all’apparenza infiniti, ma contornati da montagne lontane che sembrano appartenere a un altro piano, come il cielo che fa da sfondo ai presepi. Fra il monastero e un campo di ger ad uso turistico (ridicolo, per 1500 lire ti puoi fare anche la doccia!) ci lanciamo nel più sacro degli atti liturgici, la partita di pallone. Corriamo calpenstando erbe grigie secche che spirano in un profumo leggero, misto di canfora e menta. Ci concediamo bordate che non usciranno mai dal nostro campo, schiviamo cespugli che causano una reazione tattile identica a quella dell’ortica, gridiamo per svegliare i turisti olandesi, svizzeri, francesi, spariti dalla vista, forse chiusi nella tenda spoglia (che tristezza, un interruttore per corrente!) a meditare come bambini che imitano il papà per sentirsi adulti. Li vedo alzarsi alle 5 nelle loro sicure case europee, per meditare, senza mai risolvere i loro problemi di stress, perché non hanno capito che un'ora in più di sonno vale molto più di una di yoga.

La sera, dopo una cena con una capra che diventa sempre più arcigna da ingoiare, entra un uomo sulla cinquantina, pelle gialla squamata dall’età e dal vento, vestito con un costume tradizionale blu e rosso. Vede la bottiglia di airag che Ciuca si è comprata. Lei non c’è e lui ne chiede un sorso ad Agghi. Lui, sdraiato sul letto di tappeti a leggere un libro dall’aspetto più vecchio che antico, con cavalli in copertina, gli fa un segno di assenso. Lui si attacca e se la scola, lasciandone un decilitro perché vuotarla è maleducato.

Poi ci parla, in un inglese di circostanza. È un musicista e ci invita ad ascoltare la sua musica altrettanto tradizionale nella tenda di una coppia svizzera con una macchina fotografica che sembra un obice. Partecipiamo tutti, da tutto il campo. Tutti i maschi, una decina, hanno la barba, tranne il giapponese. Certe cose le devi fare per essere credibile. Cass, col suo pizzetto curato, è l’unico a non esserlo, in questo caso forse il più onesto di tutti.

lunedì 2 novembre 2009

Sette settembre

Dopo l’intensità della prima giornata in Mongolia, dopo essere usciti dalla sua unica città per scoprire il vuoto, aver trovato alloggio in una tenda di feltro con le fotografie dei cavalli e del Dalai Lama, aver consumato parti della capra più gustosa della mia vita, verso le 9 di sera, la batteria d’automobile che tiene viva la luce nella nostra ger comincia a farci capire timidamente che lei ora non serve più. Si spegne a poco a poco, mentre Oleg è già collassato, per primo come da prassi, e Tomas e io continuiamo a riflettere sulle ragazze e quanto sia moderno essere piantati su Facebook.



Lui si trattiene, non pronuncia frasi troppo importanti, mi ha confessato che la ragazza olandese con la quale sta da due mesi gli ha rivelato di stare con lui per gioco. Anche se pare che dalla sua partenza i messaggi che gli manda siano sempre più nostalgici, è stato già bruciato in passato e non ci tiene ad essere ricordato come quello delle ultime parole famose.

Io sento già il sapore di una nottata insonne, sulla mia panca di legno con strati di tappeti, coperto da un sacco a pelo. Mi lavo i denti senza dentifricio, dopotutto mio padre, che fra canini e molari ci lavora, mi ha sempre detto che non fa molta differenza. Eseguo l’ultima pisciata al gelo, puntando verso la luna piena che illumina la sabbia di un colore giallo sabbia. Cerco di commuovermi per lo scenario che ho davanti, ma faccio fatica. Il freddo è dentro e fuori.

Solo il feltro della tenda riesce miracolosamente a creare per noi una bolla un po’ più tiepida. Appena la luce si spegne completamente mi rassegno all’insonnia.
Comincio subito a pensare. Dopotutto l’evento rimane ancora misterioso. Cosa può essere successo in questa settimana senza contatti? Perché questa modalità così triste? Non è da lei, deve essere stato qualcosa di destabilizzante, una calamita contro il quadrante della sua bussola, in grado di spostare gli equilibri.

Penso a Francoforte e al ragazzo della sua amica, un napoletano verboso e intellettualoide (e io stesso incarno la conferma che le piacciono quelli così) che già le aveva annunciato di preferire lei alla sua compagna attuale. Per la prima volta in vita mia sono geloso, anche se è più un caso di “se devi farlo, per favore almeno non con lui”.

Penso che se solo fosse possibile sentirla, almeno per capire cosa è successo…
Penso che teoricamente la cosa sarebbe possibile. Dopotutto il telefono di Tomas funziona, ma non posso svegliarlo e chiedergli di usare il suo prezioso credito.

“Tomas?” "Darf ich mal dein Telefon ausleihen?” Credo che se lo aspettasse, perché la sua voce non suona stupita né scocciata. Si alza, vedo solo il guscio lucido che passa nella mia mano, digito il numero olandese, identico al mio fino alla penultima cifra, blatero impacciato un’offerta di risarcimento in euro, corone, tugrik o yuan.

Non mi aspetto che K risponda. Ad Amsterdam sono le 4 del pomeriggio, lei è un’impiegata modello e solitamente si tiene alla larga dal telefono. Anche se non è spento e il rumore della vibrazione è sufficiente per essere percepito, non è comunque detto che abbia il permesso di rispondere.



K risponde. Con un “h’lo” multifuzione, valido per tedesco, inglese e olandese. Mi è sempre piaciuta la sua voce al telefono. Ha una melodia che sa di anni di coro popolare, con alti molto intonati. La sua voce da sola mi rincuora comunque subito, qualsiasi cosa mi voglia dire.

È sorpresa di sentirmi, reazione non inattesa. È piuttosto il suo tono, pacato, come se niente fosse cambiato fra di noi.

Non le chiedo come sta, le chiedo subito ragioni. È stupita. Dice di non sapere di avermi lasciato, dice di aver semplicemente nascoso alcuni dati sul suo profilo, tra cui quello relativo alle relazioni. Dice di non essersi accorta del messaggio che dichiara che “K is no longer listed as in a relationship” e cambia tono. Ora piange. Si sente sola, dice. Non ha ricevuto nessuno dei messaggi che lo ho mandato dal telefono di Tomas nei giorni scorsi e l’email, beh, io le avevo scritto che per alcuni giorni non avrei potuto controllarla. Per questo non aveva risposto.

Spengo il telefono e Tomas, che dal suo letto ha carpito che la conversazione in italiano ha preso un tono inaspettato, non mi lascia un secondo: “Das klang interessant!” Questo sì che suonava interessante, con il suo accento scandinavo vellutato. Gli spiego, la sua sorpresa aumenta. La mia no, rido in faccia alle cose importanti della vita e mi addormento.