giovedì 9 settembre 2010

Dentro le mura è un mondo diverso. Dentro le mura è un'isola. Silenzio, gelsi, ciliegi, poche capre legate nei giardini e case di polvere, dello stesso colore della strada e delle pareti della città. Ci aspettiamo un'area turistica, come siamo abituati a vederne in Europa. Invece, a parte pochi cartelli che indicano gli alberghi, troviamo abitazioni comuni, perfino modeste, con cucine all'aperto, coperte da alberi che crescono fra quattro muri. Anche il bed and breakfast che scegliamo ha la struttura di un'abitazione locale, con le stanze che si aprono attorno ad una corte centrale quadrata. La stessa struttura delle decine di moschee e madrasse sull'isola e oltre.
Il centro antico di Khiva è tutto all'interno delle mura, protetto dalle onde di traffico che dall'esterno si sbattono contro i contrafforti di sabbia. Ma non è una divisione fra monumenti e vita quotidiana: la gente continua a vivere fra i minareti, i sepolcri e le antiche scuole coraniche. Basta prendersi la briga di cercare il retro delle moschee per trovarsi davanti a gelsi, forni all'aperto e qualche macchina sovietica che non si capisce da dove possa essersi infilata, considerando quanto sono strette le vie della città. Le strade sono piste da biglie squadrate, canali scavati fra pareti di fango secco, piene di scalinate, salite e discese, pavimentate dagli stessi mattoni giallastri di cui sono fatte le pareti.
Lungo le strade, o meglio, i sentieri, poche bancarelle, e centinaia di porte. Le porte piccole delle case private, quelle istoriate dei laboratori d'artigianato. E falsi ingressi, archi enormi per accedere alle madrasse, affiancati da modelli identici in scala ridotta per le stanze degli studenti del Corano. Niente finestre, solo porte. Istoriate di motivi geometrici. L'Islam proibisce di rappresentare figure riconoscibili e serve quindi aggirare la legge con l'ingegno, assegnare significato ai grafemi, alla loro foggia, lunghezza, altezza, posizione. Tutto può avere un significato, o più di uno.

Siamo chiusi in una scatola di giocattoli, fra minareti che sembrano della Thun, ricoperti di piastre turchesi. Uno, che sarebbe dovuto diventare il più grande al mondo, è mozzo, incompleto, sembra il reattore di una centrale nucleare, smaltato d'azzurro. È l'elemento che rende riconoscibile una città che nella storia forse non ha avuto modo di distinguersi, ma ci è mancato davvero poco.
È un'isola fantasma. Gli abitanti ci sono, ma si percepiscono appena, persi dietro alle moschee. Anche i turisti ci sono, ma è raro sentirli, pullman ordinati di pensionati francesi che girano dispersi, meravigliandosi prima a destra, e poi a sinistra. Forse si rinchiudono nelle corti aperte delle due ciaicane turistiche, dall'atmosfera artefatta per il loro sollievo, per non tradire proprio completamente le loro aspettative. Forse si godono l'hotel-madrassa, mimetico anche lui, volutamente senza insegna, per non fare rumore. Di sicuro non sono all'entrata ovest, dove si radunano gli autoctoni. A pochi metri dal minareto nucleare c'è una ciaicana e i gestori si stupiscono a vederci sedere sui loro taphsan, non avvezzi alle morbide natiche europee.
E dall'esterno delle mura, il sabato, risuona l'odore della carne arrostita. Così, come in Europa al tempo delle grandi scoperte, dopo un po' la curiosità ci spinge oltre l'isola murata. Usciamo dal nostro scatolone pieno di giocattoli, incontro alla vera vita, che qui come da noi è fatta di carne al fuoco e lunghe tavolate con tovaglie cerate. C'è un matrimonio all'aperto e gente che balla. Ma non dura a lungo. Prima che scenda la notte la festa è già finita, o forse proseguirà più lontano, in qualche arcipelago al riparo degli occhi degli stranieri, davanti ai quali è necessario mostrare il proprio lato migliore e sobrio. Allora ci spostiamo anche noi, alla scoperta dei sette mari interni in questo paese allergico all'acqua, che si è già bevuto il lago d'Aral.

Il fatto è che, da quando siamo arrivati, fra Tashkent e Urgench, al di fuori del viaggio in treno e della cassetta dei giocattoli di Khiva, il mare sembra parecchio mosso. A parte l'ardua giornata di Tashkent, questa sensazione non ha una motivazione. È più un istinto da marinaio dolomitico.

O forse sono le visioni familiari, perfino accoglienti, ma in fondo sempre inquietanti.
Come il ristorante al largo della porta nord di Khiva, al bordo di un bacino d'acqua stagnante, sotto un padiglione circolare aperto. L'odore è di palude, ma il cibo è fra i migliori che troviamo sulla via. Sapori forti ma di ristoro. Carne grassa, tanta sostanza, senza spazio per la presentazione.
Forse è questo. Come una bellezza violenta spunti dagli oggetti del passato e venga conservata come unica bellezza possibile, dopo che la funzionalità industriale sovietica ha reso peccaminosa l'estetica applicata alla modernità.

Anche al passato, invero, qualora non coperto dall'Unesco. Una bruttezza attraente, come nelle scene dei film di Kusturica, anche se qui lo slavo è d'importazione.
Lo scopriamo camminando ancora un po' oltre le mura. L'ingresso di quella che prima dei tempi del Turkestan sovietico doveva essere stata una moschea, ora con gli archi in stile arabo bordati da tubi di luci colorate. È divenatta una discoteca, con musica turca, russa e forse iraniana o uzbeca ad alto volume. E poi scopriamo, senza sapere della sua esistenza, il palazzo dei khan, lasciato a secco dai fondi dell'Unesco, confinato in un parco per soli autoctoni. Stavolta gli archi sono flaccidi. Fra grossi alberi, un luna park e la notte che scende, l'atmosfera è vagamente tetra. Ne usciamo presto e torniamo al sicuro fra le mura, fra le luci rosse, verdi e blu che illuminano gli archi di notte. Ma perversamente decisi ad uscirne presto.

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