mercoledì 30 settembre 2009

Primo settembre


È che a K sta storia del viaggio non andava fin dall’inizio. È stato subito uno scontro fra concezioni differenti. Io ho pensato che, visto che ci tenevo, mentre lei avrebbe preferito viaggiare altrove, sarebbe stato perfetto farlo quest’anno, quando lei, avendo appena iniziato a lavorare, non avrebbe potuto prendere ferie, così dall’anno prossimo avremmo potuto andare da qualche parte insieme. Lei, cresciuta con il sacro valore teutonico della vacanza come attività corroborante per tenere unita la famiglia, è rimasta delusa. Io ho pensato che visto che siamo andati avanti per anni vedendoci una volta al mese quando andava bene, ora che viviamo insieme, tre settimane di distanza non avrebbero dovuto essere un problema. Lei invece ha intuito che vodka e solitudine possono indurre in tentazione l’anima impura.

E dopo aver passato mesi a convincerla del contrario, il treno si ferma a Vyatka. Siamo saliti a Mosca la sera precedente, arrivando alla stazione stanchi e affamati, Tomas e Oleg ancora con le budella fermentate. Attorno alla stazione mille chioschi apparentemente propizi per rinverdire i fasti del bailamme intestinale dei due giorni precedenti. Qualcuno sembra essersi preso la briga di marchiare come solo cani e gatti la vetrina di ognuno di essi. Mossi da necessità scegliamo il meno peggio, una pizzetteria, forse incoraggiati dall’allegria dei tavoloni e delle panche di plastica rossa. Al fatto che non si mangia la pizza all’estero stavolta non ci penso nemmeno, lascio simili speculazioni alla gente pasciuta che anche in viaggio si concede tre pasti caldi al giorno.

Adoro l’idea di dovermela cavare senza conoscere la lingua e stavolta la pazienza della cameriera ci concede ampi spunti di gioco. Il menu è indecifrabile, ma un po’ alla volta riusciamo ad ordinare qualcosa quasi a caso, facendoci capire a gesti o per assonanze. Tunza sarà tonno, vada per quello. La cameriera ci imita una pera, non chiedetemi come, ché tanto non è quello che pensate, e vada per il succo. Solo appena terminata la missione ci salta in mente che Margherita e Coca Cola hanno lo stesso nome in tutto il mondo, ma va bene così, la pizza non è male, per gente che non ricorda neanche l’ultima volta che ha mangiato.

Ma mentre aspettiamo la pizza, il pensiero è al treno, che potrebbe essere già sul binario. Finiamo, paghiamo, carichiamo in spalla gli zaini e andiamo al binario 1, che ci si para davanti di sorpresa. Niente cancelli, inizia direttamente dalla strada, tanto di sorpresa che ci mettiamo un po’ a renderci conto che quello è un binario, senza pensilina, panche o lampioni. Solo lo schermo a LED, con illuminate le caselle che formano il numero 1 e la parola Владивостoк, ci conferma che il convoglio verde scuro che sta arrivando è la lattina che ci ospiterà per i prossimi 4 giorni.

La bigliettaia sembra una signora decente. Certo, ci mette dieci minuti a controllare i nostri biglietti e passaporti, ma credo sia parte del suo dovere e, come scopriremo sul treno fra Irkutsk e Ulan Bator, è già qualcosa sapere che la provodnica fa il suo dovere.

Sul c’è il famoso samovar, il distributore dell’acqua calda che ci accoglie subito, come per confermare che quello che abbiamo letto di lui sulle guide è tutto vero. Ho modo di apprezzare le pareti in finto legno, che riportano la mia mente all’Intercity Brennero-Bologna, quello con gli scompartimenti, originale Anni ’70. Ma dell’intercity manca l’odore di gasolio e l’untuosità dei sedili. Il treno russo è pulito, con scompartimenti da quattro lettini in pelle amaranto, con materassi, coperte di lana, lenzuola, cuscini e federe.

Appena appurato di essere soli nello scompartimento, ci addormentiamo placidi, ché tanto domani ci si alza quando si vuole.

E ci svegliamo nuovi, perché il tuc tuc in sei ottavi del treno concilia un sonno tranquillo e il sole all’esterno, caldo di colore più che di calore, con gli alberi verdi e le dacie rosse e blu dei borghesi moscoviti, ci fa sentire in villeggiatura.

Alla prima fermata scendiamo, più per scoprire il nostro nuovo mondo che per sgranchirci le gambe. Sulla banchina gente del luogo vende secchi pieni di mirtilli neri e rossi. Un russo con la barba di tre giorni grigia e un berretto di jeans vorrebbe 100 rubli per un secchiello di mirtillo rosso. Io gliene offro 30 per riempire un bicchiere di plastica che scalfisce appena il livello del secchio. Lui non comprende le ragioni di tale cattivo senso degli affari e io non conosco le parole per spiegargli che ho solo intenzione di assaggiarli, non di farne marmellata sul treno.

Più tardi il nostro treno, un regionale lento che passa per Yaroslavl, si unisce definitivamente al percorso del Rossiya, la Transiberiana ”ufficiale”, quella che prendono i turisti che fanno le cose come si conviene. Tomas e io scendiamo di nuovo a fare due passi e vedere cosa offre il mercato semovente delle babushke. Una ragazza sente che fra di noi parliamo tedesco e ci chiede le ragioni di cotanta eccentricità. Noi le spieghiamo la storia dell’Erasmus a Colonia, sette anni fa, e lei ci racconta di essere in viaggio con altre tre studentesse del nord della Germania per studiare un semestre ad Irkutsk. Lei è U, ha i capelli lunghi, lisci, color rame ed è la portavoce ufficiale del gruppo, perché le amiche hanno quel misto di diffidenza e timidezza che scoraggia l’uso della parola. Dormono nel vagone che precede il nostro e si sono conosciute là, sul vagone, o poco prima.

Torniamo sul treno e appena parte riusciamo a leggere il nome della stazione: Kirov, che ovunque tranne sulla scritta della stazione è stata ridenominata Vyatka.

In giornata scopriamo la vita da treno. Anzi, io la scopro, perché Oleg e Tomas dormono, ancora prede del corpo sciolto. A casa ho deciso di proposito di non portare libri e roba elettrica, ad eccezione della macchina fotografica e del telefonino, che come già detto, poco dopo Mosca è stato evirato al ruolo di orologio da taschino. Il tempo lo trascorro guardando il paesaggio dalla finestra. Purtroppo quella dello scompartimento è completamente oscurata dai detriti, mentre quella sul corridoio è solo poco più limpida. L’unico finestrino che può essere abbassato è appena fuori dal vagone, all’esterno della cucina della carrozza ristorante, dove tutti vanno a fumare. Il primo giorno provo ad imbastire due chiacchiere con il cuoco, un tizio zingareggiante col capello nero, liscio e unto e una dentatura a metà fra marcio e oro. Mi insegna i nomi degli alberi, berezina vuol dire betulla e provo a spiegargli quanto mi affascinino le betulle, col loro tronco bianco puro, ché sulle alpi ci sono solo tutte ste aghifoglie noiosissime e giusto un paio di faggi, che noia sempre sti faggi. Dice che viene da Irkutsk. Nonostante l’aspetto è un buon cuoco, il cibo che ci danno si lascia mangiare piuttosto decentemente.

Poi si deve essere dimenticato di me, perché nei giorni successivi, quando ci vede a fare fotografie, ci manda via di malo modo. Non che ci sia un motivo, ma i russi, quando hanno il potere di farti fare qualcosa, te lo fanno fare. Altrimenti sarebbe uno spreco.

Un po’ come la signora provodnica, che a noi stranieri inermi, quando scendiamo per sgranchirci le gambe, l’ordine di tornare in carrozza ce lo dà dieci minuti prima del necessario. Dare ordini è potere e il potere è il giusto riconoscimento per anni di servizio in condizioni precarie. È perfettamente giusto che il giovane occidentale, che sicuramente a casa vive una vita comoda e sicura, anche perché altrimenti, perché mai vorrebbe venire da noi a vivere scomodo e meno sicuro, è perfettamente giusto che esso venga sottomesso da parte mia, che volgo verso l’anziano, e vi volgo per giunta spaccandomi le ossa su sto dondolo fuori asse. Che se li dessero a me, soldi e ferie, lo saprei io dove andare. In Crimea andrei, a prendere il sole, che idea è mai, andare a Irkutsk per gioco? Certa gente dei soldi non sa proprio che farsene.

La sera, dopo aver selezionato per giorni accuratamente solo i cibi più adatti per la loro situazione intestinale, i miei compagni decidono di cedere alla birra. Dicono che una faccia bene. Io sono d’accordo, io, che il problema non ce l’ho. E dopo essere stati soli tutto il giorno, con i russi che rimangono tutto il tempo tappati nelle cuccette, andiamo a trovare le tedesche.

La situazione è perigliosa. Le ragazze si sono conosciute sul treno e vanno a passare un intero inverno insieme, ad Irkutsk, Siberia. Sanno che sarà freddo, che le distrazioni non saranno molte e che la loro forza è l’unità, ma già in questa specie di provino si intuisce che non sarà facile.

U è la prima della classe. Un paio di anni più vecchia delle altre, parla russo già molto meglio di loro e ci tiene a farlo sapere. È una che spara subito le sue cartucce. Fa le cose senza pensarci, studia magari la prossima mossa, ma dimentica quelle successive.

Ci tiene anche a mostrarci subito le pregevoli forme del suo didietro. Si appoggia con un piede su ognuno dei due letti inferiori e con le braccia sul tavolino, che rimane abbassato. Tomas ha un’espressione di sgomento. I miei connotati assumerebbero lo stesso assetto, se Tomas non mi avesse anticipato e non fosse più forte il divertimento per la sua faccia da fumetto. Lo guardo e rido, mentre le tre compagne di viaggio nascondono lo sbigottimento per tale comportamento dissoluto per studiare le espressioni delle nostre facce, uno stordito e uno che se la ride. Mi rendo conto che con questo singolo atto, la candida U si è giocata la considerazione delle amiche per tutti i gradi sotto zero dell’inverno siberiano.

Ma nonostante U sia già chiaramente tagliata fuori, le altre non sono messe molto meglio. Una ci racconta di provenire da una famiglia hippy. Si vede. Il suo desiderio di stare al centro dell’attenzione grida “infanzia difficile” fin dalle prime battute. L’autoproclamata leader del gruppo tiene le redini con la sua esuberanza. Ma durerà? La ragazza silenziosa sembra già stanca di tutte quelle parole sparate quando ci stava meglio il silenzio. A lei parlare non serve, ha lo sguardo di una modella e gira voce che sia una delle migliori ginnaste artistiche della Germania. Di solito sono gli altri a preoccuparsi di parlare a lei. Poi c’è la psicologa del gruppo, che sembra aver capito la situazione e cerca di mediare. Per Tomas è "la ragazza dagli occhi enormi", ma evidentemente sono le lenti spesse degli occhiali a fare l’effetto ingrandimento.

Il treno si ferma e scendono tutti, tranne me, a comprare altra birra. Quando tornano la serata può cominciare.

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