martedì 22 settembre 2009

Sette settembre


Улаанбаатар-Ulaanbaatar, è scritto sull’edificio principale della stazione e segna il ritorno, per quanto parziale, dei caratteri latini.
Siamo arrivati e vogliamo subito sparire. Nulla contro la capitale della Mongolia, i portatori di bagagli freelance o i reclutatori degli alberghi, ma abbiamo solo cinque giorni prima di partire per la Cina e abbiamo deciso di uscire dalla città immediatamente, riservandole l’ultimo giorno, in modo da stare tranquilli in caso di contrattempi sulla via del ritorno dall’entroterra.

Ci arriviamo con un’ora di ritardo, a Ulaanbaatar, un’ora preziosissima, non solo rubata alle poche ore di sonno dopo le cerimonie ai confini, ma un’ora di gelo che avremmo potuto trascorrere avvolti fra il lenzuolo troppo corto e la coperta di lana delle ferrovie russe e altri mezzi di riscaldamento spontaneo come asciugamani, magliette tappabuchi e giacche della tuta. La sveglia alle 7 è fredda più dell’acqua nei bagni dei vagoni, più della visione di colline senza alberi e pianure senza acqua, più di quei ciuffi radi che un paio di settimane prima avrebbero potuto essere più convincenti nel loro verde. Soprattutto quando poi ti accorgi di non essere in ritardo di un’ora, ma di aver semplicemente ignorato il fatto che in Mongolia non venga applicata l’ora legale. E poi spiegare alla tua guida il concetto stesso di ora legale e comprendere in fondo le sue occhiate scettiche sulle ragioni e sull'utilità di spostare l'orologio ogni sei mesi.

La guida è Ciuca, ha vent’anni, pantaloni aderenti neri con strisce incrociate bianche e marroni e la massima naturalezza in qualsiasi cosa faccia. Parla inglese come gli americani dei film ("Iulan Beidor” e anche “Iuu Bii”), avendo visto l’America solo nei film. Come me, peraltro.

Ma Ciuca viene dopo, molto dopo i portatori di bagagli freelance e i reclutatori degli alberghi, che non ci credono proprio che non passeremo la notte in capitale e vorrebbero perlomeno aggiudicarsici per quella del ritorno. Guardo i miei compagni negli occhi e vedo che stanno per cedere. Così fingo di sapere la via e li trascino fuori dalla stazione, dove sono i tassisti ad assalirci. Ma il peggio deve ancora arrivare, perché almeno i taxi stanno fermi ad aspettare. Il traffico invece, che è il terzo ostacolo da superare, si muove a fiotti irregolari come il sangue di un pazzo e attraversare la strada che segna l’inizio della città vera e propria è un rapido calcolo di manovre e scarti degno di quei videogiochi semplici che andavano a 200 lire a partita.

Più tardi impareremo le regole del traffico e scopriremo che l’anarchia è meno peggio di quanto ci si possa immaginare: non esistendo alcuna regola, l’automobilista si aspetta che quel pedone là di fronte possa attraversare da un momento all’altro e ne tiene conto, rendendo non solo l’operazione più sicura di quanto possa sembrare, ma eliminando per gli appiedati le noie dell’attesa che i semafori diventino verdi tipiche di chi abita nelle città a traffico regolato. Ad Ulaanbaatar tre o quattro semafori ci sono, ma nessuno si ferma. Al massimo qualcuno rallenta, per vedere meglio quella strana luce con la forma dell’omino che sta sulle porte dei cessi dei maschi.

La Mongolia è per tutti noi la parte più attesa del viaggio. L’unica idea è quella di affittare un fuoristrada sovietico e perdersi nell’entroterra. Nessun europeo, americano, russo o cinese è in grado di guidarne uno senza perdersi, ma è possibile assoldare un autista autodotato.
Avevamo iniziato solo tre giorni prima, appena arrivati ad Irkutsk, a preoccuparci di come trovare tale autista autodotato. Avevamo dato un’occhiata ai siti dei numerosi operatori turistici specializzati, per rimanere subito raggelati dai prezzi delle escursioni. Presi dalla disperazione, avevamo inviato un'e-mail identica a tutti gli operatori elencati nella Lonely Planet, spiegando le nostre intenzioni e necessità e sperando in un’offerta. Il giorno dopo, verso mezzanotte, ultima data possibile prima della partenza, torniamo all’internet cafè per trovare una singola risposta, lunga, piena di informazioni, ma incredibilmente confusa sulle offerte disponibili e sui prezzi. Mentre stiamo per chiudere la connessione, arriva un altro messaggio, dice “vi offro autista e guida per 60$ al giorno, tutto incluso, venitemi a trovare appena arrivate e due ore dopo siete pronti per partire”.

È là che ci dirigiamo, doppiando buche rivestite d’asfalto e condomini avvizziti, distogliendo lo sguardo dalla prima, gialla, manifestazione di quello che dovrebbe essere il famoso airag. L’operatore è Rick, un olandese che ha sposato una donna mongola e si è trasferito in questo paese tutt’altro che basso. Ci mette davanti una carta della Mongolia che occupa tutta la scrivania di laminato, ci chiede cosa vogliamo fare e ci aiuta a trovare un senso alla nostra confusione.
Come il solito il buon Oleg naviga nella sua ingenuità di animale metropolitano. Lui vorrebbe vedere i parchi nazionali, “perché là c’è più natura e più animali”. Rick gli conferma quello che Tomas e io abbiamo cercato di spiegargli da un paio di giorni: “La Mongolia è un paese enorme, con 3 milioni di abitanti, uno dei quali concentrato nella capitale, peraltro non perfettamente organizzato. Capirai che la definizione di parco nazionale è piuttosto formale e anzi, potrebbe indicare un luogo ad alta densità turistica”. Con la parola di un esperto certificato si convince anche lui e alla fine siamo tutti d’accordo sul fatto che vogliamo un po’ di tutto: lago, monti, pianure e deserto, storia, natura, cammelli e cavalli. Rick si commiata fiducioso, dandoci appuntamento due ore dopo.

Il posto per la colazione lo sceglie Oleg, ed è un posto di quelli che piacciono a Oleg, un juice bar American style con prezzi europei, dove con vari sotterfugi, fra i quali spicca l’offerta di campione da assaggio, ci vengono portati sei prodotti, dopo che ne avevamo chiesti tre completamente diversi. Sono 16.000₮ e il Tugrik vale esattamente quanto la Vecchia Lira. Paga Tomas e il barista fa il giro dell’isolato per trovare il resto da darci, pur di non abbuonarci neanche mille lire.

Ma il momento che attendo da quando siamo sbarcati è quello di controllare l’e-mail. Mi ero riproposto di tenermi a distanza dall’elettronica, salvo per le necessarie comunicazioni con famiglia e K e intendo comunque prestare fede all’intenzione. Il problema è che il mio vecchio telefonino a scheda mi ha lasciato completamente privo di copertura di rete poco dopo Mosca. I genitori erano stati avvisati di non attendersi aggiornamenti troppo frequenti, ma K no, a lei avevo promesso copertura globale in tempo reale. Le avevo mandato un paio di messaggi dal telefono di Tomas, ai quali non era mai seguita risposta, e le avevo già scritto due e-mail da Irkutsk. A questo punto non la sento da una settimana, ma sono quantomai convinto di trovare una sua e-mail. Anche perché mi aveva anticipato che forse nel fine settimana sarebbe andata a Francoforte a trovare alcuni amici e forse non aveva avuto accesso a internet perché era in viaggio. Ora però deve essere tornata di sicuro e questa è l’ultima occasione di sentirla per i prossimi tre giorni.

Entro nel primo delle centinaia di internet cafe della Capitale, ignorando la piazza centrale, che avrò modo di vedere fra quattro giorni, mi collego e scopro che K non si è ancora fatta sentire. A questo punto comincio a preoccuparmi. Decido, per lei, di violare in via straordinaria l’ultimo dei tabù. Controllo la sua pagina su Facebook alla ricerca di possibili aggiornamenti e ne trovo uno solo, agghiacciante: “K. is no longer listed as ‘in a relationship’". Mi blocco, dritto, immobile, con la bocca aperta e gli occhi sbarrati, davanti al computer.

Ed è proprio così che mi trovano Oleg e Tomas, come un fossile del Gobi, senza il coraggio di proferir bestemmia. Entrambi manifestano solidarietà alla causa, ma mi ricordano anche che abbiamo cinque minuti per farci trovare sul luogo di partenza per l’escursione. Mi prendo giusto il tempo per scrivere una breve email dai toni decisamente diversi da quelli utilizzati in precedenza. La risposta la potrò leggere solo fra tre giorni, fino ad allora solo tortura.

Mi faccio coraggio pensando a quanto sia cinematografico essere piantati dieci minuti prima di partire per quella che potrebbe essere l’escursione di una vita, ma non funziona. Sarà che non sono mai stato uno da cinema.

4 commenti:

  1. Credo sia la prima volta che non so cosa risponderti. Sono decisamente spiazzata. Allora é vero, quello che si dice della vita.
    Un abbraccio di bentornato e...bello, il blog...l´hai pure fatto nascere sotto il segno della vergine...(non so che cavolo vuol dire,ma é vero).

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  2. siamo in attesa della seconda puntata... e spero di leggere buone notizie!
    Ossequi
    Mia

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  3. wow, cambio le impostazioni dei commenti e scopro che ne ho 3 a mia insaputa!
    Tutto vero, tutto vero.

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