domenica 22 novembre 2009

Nove settembre

La tentazione è troppo forte. Il baracchino bianco è là di fronte e alla fine la doccia ce la facciamo. Fuori è già caldo e i capelli si asciugano al sole. Quasi tutti gli altri gruppi sono partiti, fuoristrada sovietici e pullmini giapponesi sono spariti presto. Qualcuno potrebbe essersi esposto ad una sveglia al freddo, pur di non perdere un’ora. Gente che ha tenuto la sveglia sull’ora di quando lavora, che si sa, perdere il ritmo è uno dei peccati della nostra epoca.

Comunque partiamo anche noi, neanche troppo tardi, che prendersela comoda va bene, ma non serve arrivare al punto in cui vorrebbe arrivare Cass.
Un’altra giornata in sella, stavolta al fuoristrada. Ci dirigiamo verso ovest, di più non so dire. Punti di riferimento non ce ne sono. Le città sono semoventi come le tende a tortiera, un quadrato in muratura con scritto locanda può essere un ritrovo isolato e diventare un paese in un pomeriggio. Ci si sposta, ma nell’enormità non notiamo nessun movimento. Nessun carro, nessun camion carico di tende, nessuna carovana. Si muovono da soli, come animali selvatici senza il problema di marcare il territorio.

Anche la nostra è una giornata solitaria. Le uniche tracce di civiltà sono antiche, già partite da secoli verso la Cina, l’Europa, l’America. Mura misteriose che si alzano dalla prateria. Ci fermiamo, solo mura, nessun'altro indizio. L’archeologo tedesco, un ragazzo della nostra età, occhiali con la montatura spessa, capelli lunghi e ricci raccolti in una coda, barbetta d’ordinanza, finge di non vederci. Forse ce l’ha con i turisti. Ma forse no, ce ne accorgiamo quando ci prende lo stesso impulso. Il silenzio è contagioso e nel fuoristrada si sentono solo i rumori della pista. Non automobili in direzione contraria, ma il rattolìo degli assali nelle buche, gomma che arranca su pietra e terriccio secco, il tuffo nei rivi stretti, l’uscita slittando sulla terra bagnata per scivolare poi su quella secca. Fanno silenzio gli animali, le aquile, i cavalli, le capre, i cammelli e gli yak. Forse ci ricordiamo di essere animali anche noi. Non una parola, mentre la bestia che ci custodisce nel suo utero socialista arranca nei prati. Solo una volta ci superano due uomini al galoppo, tabarri grigi con un panno giallo alla vita.

È una giornata verde scuro e blu. Immobile come l’aria. C’è un piccolo monastero che sembra un convento. Moderno, bianco del recinto che lo circonda. Dall‘esterno dei muri bassi non si vede nessuno. Fuori una ger isolata e un gazebo dipinto dei colori del lamaismo, arancione e azzurro, rosso e verde. Colori vivi intonati col cielo. Attorno il vuoto. Mangiamo sotto il gazebo, evitando l’ombra, perché fuori dalla mano calda del sole, alzata su di noi in segno di benedizione, fa quasi fresco.
E dalla ger esce un bambino di tre anni, a cavallo di una macchina di plastica rossa, blu e gialla. L’unica persona fra la tenda e il conventucolo. È felice di trovare compagnia, cinque persone scodellate dal ventre della terra in una scatola di ferro verde scuro, temprato dagli sforzi di proletari russi, calmucchi, uzbechi o tuvani. Abbandoniamo l’arte zen della digestione di salame, cetrioli, biscotti e buche mattutine per calciare Garbömbög verso l’infinito. Il bambino è dotato di una buona potenza nel tiro, ma soffre nelle fasi più tecniche del gioco. Ma ride e negli occhi leggi che la solitudine per lui è una circostanza imprescindibile, lo stato naturale dell’essere, ma senza essere una sensazione da perseguire volontariamente. Gioca, dà fondo alla sua necessità di socialità, ma quando partiamo non si scompone. Sa che partire è necessario e non si è mai aspettato che non lo facessimo.

Il fuoristrada si arrampica su colline pelate e dietro ad una di loro si apre un mare, anzi un lago, perché nell’infinito le distanze ingannano. Un lago tempestoso di acque neroblù. Il sole è quasi coperto ora, il vento ci colpisce a folate. Il fuoristrada si ferma appena raggiunta la riva. L'idea è quella di montare le tende, tende tradizionali, triangolari, per l’ultima notte. Ma non ho voglia di accamparmi, propongo una camminata. L’idea è accolta senza entusiasmo. Indico un punto dietro una collina, lungo la riva, dico che là sembra riparato dal vento. Parto senza attendere una risposta e l’unico a seguirmi è Tomas, che nella sua vocazione di intermediario ha preferito evitare di esporre il suo parere, ma è a favore della camminata. Per la prima volta parliamo di Cass e della sua pigrizia. È solo qui che Tomas mi confessa che la cosa dispiace anche a lui.

È una camminata che ci rende liberi, a piedi, l’unico modo per rendersi conto delle dimensioni della terra, misurare cubito per cubito usando le scarpe da ginnastica come calibro.
Il terreno è forato da roditori invisibili, ogni foro collegato da una minuscola pista in linea retta. Una rete viaria più capillare di quella umana, in questo paese.
Dietro la collina c’è una mandria di cavalli al pascolo. Vederci li spaventa e li spinge verso l’acqua. Le nostre fotografie dei cavalli nell’acqua potrebbero essere poster nella camerettaa di qualsiasi adolescente europea.
Sulla riva spicca una bottiglia verde di Sprite, di un verde intenso perché il liquido che fa da base al verde non è gazosa trasparente, ma un altro liquido bianco, che ormai conosciamo. Scatto altre fotografie di Tomas con la bottiglia, nel caso qualcuno volesse fare una campagna pubblicitaria in favore del latte di cavalla fermentato.
Troviamo uno spiazzo che sembra prottetto dal vento, un rientro del lago con uno svallamento dolce, con ciuffi d’erba gialli e rari cespugli. Decidiamo che potrebbe essere il punto adatto per piazzare le tende. Torniamo indietro e troviamo tutto come alla nostra partenza. Addirittura lo sportello sul lato destro, riparato dal vento, è ancora aperto, come lo avevo lasciato io. Tutti e tre i passeggeri dormono e provo un senso di tristezza. Amarezza per Olof, che non proverà mai quel senso di libertà che gli sarebbe costato così poco. Dopo tutti questi chilometri, questo tempo e questi soldi spesi, fermarsi cinque metri dal traguardo per riprendere il fiato sembra un peccato.
Chissà se conosce la storia di Dorando Petri.

L’equipaggio della jeep accetta la nostra proposta e ci portiamo nello svallamento per fare campo per la notte. La nostra valutazione però era errata. Probabilmente la camminata ci aveva riscaldati, facendoci sentire un calore inesistente. Ora invece pare che il vento tiri forte come nel punto da cui siamo partiti. Pazienza. Montiamo le tende, con la scatoletta verde parcheggiata fra noi e il vento, come un ombrello da borsetta in una tormenta.
Con il passare del tempo il vento raschia via il calore dall’aria. Ripeto il nostro rituale animista, entro nel lago a piedi nudi e pratico la sacra minzione, ma appena vedo una limaccia supersonica sfrecciare fra i miei piedi salto a piedi pari sui sassi scomodi della riva, prima che la sanguisuga mi si attacchi.

E poi sono tutti stanchi. Vorrei fare un’altra camminata, ma il massimo che cavo è una partitella di calcio. Chissà perché non mi viene in mente di andare da solo, forse sono pigro anch’io. Ormai fa freddo e dobbiamo tenere la giacca a vento abbottonata bene perché il vento gelato non ci sorprenda nel basso ventre. Anche Agghi si unisce alla partita su questo campo enorme e irregolare, a forma di curva parabolica. Garbömbög è un pallone da pallavolo regolamentare e non ha il peso di un SuperTele, ma il vento riesce comunque a portarcelo via, noi lo recuperiamo e il gioco diventa lanciare bordate controvento, con il pallone che ci viene restituito regolarmente. Da una baracca di legno in cima alla collina, uno dei pochi edifici concepiti per poggiare in un unoco posto per tutto il loro ciclo vitale, esce un ragazzo con una barbetta di stampo occidentale e una maglietta da metallaro moderato. Fa due tiri anche lui, ma è bravo quanto Agghi e dopo pochi minuti smette. Strano, perché il nostro stereotipo suggerirebbe che per sopravvivere nella prateria serve parecchio ingegno nelle operazioni pratiche. La verità è che Ulan Bator è una città come le altre e non serve puntare a sopravvivere. Si può vivere comodi, anche senza ingegno.

Con la sera arriva il freddo vero e un po’ ci sentiamo in trappola, senza edifici caldi dove rinchiuderci. Rimane solo il fuoristrada. Ceniamo sui sedili, gli stessi che più tardi Agghi chiamerà letto.
Il metallaro autoctono si unisce a noi e accendiamo un falò. All’inizio porta alcune stecche di legno, ma poi proseguiamo a cespugli secchi e sterco di diversa provenienza zoologica. Lo sterco brucia bene, è profumato. Meglio del legno. I mongoli cominciano a parlare la loro lingua, solo Ciuca sa l’inglese e tendono ad isolarsi da noi, affascinati dalle storie che racconta il Dersu Uzala from Hell. Quando insistiamo Ciuca traduce, la storia del primo carro armato nelle tre baracche che qualora integrate da un paio di tende fungono da villaggio. Un carro armato inviato da Stalin, pare che il volgo l’avesse scambiato per un animale da catturare con corde. Constatato che le corde non bastavano, i villici lo avevano cosparso di grasso per dargli fuoco. La forza del socialismo deve essere apparsa piuttosto convincente da queste parti.

Bruciato tutto lo sterco disponibile alla vista e al tatto entriamo nelle nostre tende. Io dormo con Cass, che nonostante la dose pomeritdiana appoggia la testa e parte. Io invece devo disfare la valigia e stuzzicare la mente con mille soluzioni per coprire me e i due sacchi a pelo che da soli non bastano. Alla fine Cass e io dormiamo bene e ci perdiamo i rumori di cui ci parlerà Tomas.

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