giovedì 12 novembre 2009

Otto settembre

Il segreto dell’estate mongola è non alzarsi troppo presto. Noi ci alziamo alle 8 e il termometro ha già passato i 20. Un’ora prima avrebbe fluttuato attorno allo zero.

Sto bene, ho dormito quanto basta, so di campeggio. Davanti a me la prateria, terra con ciuffi d’erba, a distanza regolare, come uno che si è fatto trapiantare i capelli. Lo stagno a distanza, più in là ciò che resta di montagne antiche, le estremità isolate, smangiate e rarefatte degli Altai, che escono dal terreno come le teiere del deserto del Nevada. Fuori dalla ger hanno parcheggiato una moto. Una composizione da poster per adolescenti, manca solo il coiote che urla di profilo e il sogno americano non è mai stato così vicino. Ce lo dice anche Ciuca, a colazione, che gli indiani d’America hanno origini mongole. Dice che la sua lingua è molto simile ad alcuni dialetti di chi ha scoperto l’America prima di Colombo. Ascoltando bene, la cosa non sembra certo impossibile.

Dopo colazione, accettiamo una gita a cavallo fra le dune. Uno spettacolo, le dune. Il deserto è solo un quadrato di un paio di chilometri, un box con la sabbia per un bambino di famiglia troppo ricca. Non riesco a immaginare come possa essersi generato, solo, isolato nella prateria. Dune e cespugli, tutta corteccia, poche foglie. Ci guida il membro più anziano della famiglia che ci ospita. Non il capofamiglia, traduce Ciuca, quello deve essere giovane. Il nonno non è più in grado di governare le capre. Meglio lasciarlo col suo gregge di turisti mansueti.

Ma il nonno ci sa fare con i turisti. Baffo rado da adolescente, elegante nella sua tunica scura, con un cappello fra il buttero e il gaucho, orgoglioso della sua spilla con la bandiera tedesca. Certi turisti girano con borse di spilline idiote da regalare alle tribù che incontrano sulla via. Anche la Lonely Planet consiglia di farlo. I nordeuropei hanno spesso un fare paternalistico con chi è nettamente inferiore a loro sul piano della civiltà (ma non si dice). Spesso vale anche per gli italiani.

La Mongolia è uno dei paesi più poveri al mondo, dicono. Forse anche perché qui in pochi hanno una casa, mentre gli altri vivono in una ger di feltro da montare e smontare in mezz’ora. Forse perché nessuno possiede terra. La terra è gratuita, ce n'è per tutti e nessuno viene espropriato. In un paese dove non ci si preoccupa di razionalizzare, rendere efficiente, ottimizzare, il termine “estensivo” non trova applicazione. Vale per l’agricoltura e l’allevamento, animale e umano.
A dire la verità non è più così: da tre anni è stata approvata una legge che istituisce la proprietà privata, ma non sono molti ad aver cambiato stile di vita, pare. Almeno a vedere le ger piantate ovunque, anche in città, in mezzo ai cantieri.

Il nonno invece è quanto di più vicino al concetto di imprenditore si possa trovare nella prateria. Dimostra anni di gestione del turismo in stile buon selvaggio. Sa fare fotografie con macchine digitali e telefonini, ci invita ad arrampicarci su una duna di corsa per fotografarci nell’atto. Rabbrividisco quando si mette a disegnare per noi, cavalli e ger con un bastone nella sabbia. E immagino il sorriso quasi commosso sulle labbra del turista euramericano mentre segue l’esibizione del buon selvaggio. Conosce alla perfezione i luoghi più fotogenici e in mezzo al suo deserto da diorama, si ferma e finge di guardare lontano con il monocolo che gli ha regalato qualche nostro predecessore. Ci fa capire in qualche modo che i turisti gli fanno sempre dei regali. Mentre Tomas e Oleg si chiedono cosa dargli, io mi sento imbrazzato, come un diavolo solo e nudo in mezzo al paradiso. Ma anche il diavolo si commuove in paradiso e il sole, le dune, l’altezza dal terreno sul dorso del cavallo e la gioia di non essere più single, mi fanno sentire libero almeno quanto il bovaro delle celebri sigarette.

L’anziano cavallaro ripete i nostri nomi, Tomas, io, poi “cass” indicando il cavallo. Oleg è come sempre a distanza di sicurezza, spaventato dal suo animale pericoloso.Più tardi scopriamo che Cass non è il cavallo, ma la sua interpretazione di Olof. Tomas, Marco, Olof: Tama, Maca, Cass.

Smontiamo dai cavalli fisici e saliamo su quelli ad idrocarburi della nostra jeep sovietica. Incontriamo decine di aquile dalla testa bianca, spesso posate ai bordi della strada, sugli övöö, cumuli di sassi coperti di leggeri panni azzurri. Dicono che per ingraziarsi il genius loci alcuni autisti si fermino ogni volta per costringere l’equipaggio a girargli attorno tre volte. Per fortuna Agghi non è così pio e si accontenta di un colpo di clacson.

A metà strada ci fermiamo per il solito pranzo con gli stessi ingredienti della colazione e della cena. Con la sola differenza che a mezzogiorno subentra il salame e a cena fa il suo ingresso la capra. Cetrioli, pomodori, surrogato di Nutella e biscotti ci fanno intravvedere la mano del signore olandese dietro l’organizzazione. Agghi è carnetariano e si rifiuta di mangiare qualsiasi cosa non abbia respirato o ruminato prima della macellazione, o che non provenga da una creatura che lo abbia fatto. In Mongolia, di orti, se ne vedono pochissimi. Dimostrarsi un vero uomo ha un alto valore sociale.

Mentre mangiamo scherziamo ancora una volta sull’airag, la bevanda nazionale mongola, fatta di latte di cavalla fermentato, “Fermented mare milk”, riportano tutte le guide, usando sempre gli stessi tre termini. Già da qualche giorno l’airag è diventato oggetto di battute ricorrenti e Ciuca ci anticipa che presto potrebbe venire il momento di provarlo davvero. Un po’ ci spaventiamo, perché nessuno aveva ancora parlato di assaggiarlo, ma l’effetto dell’ilarità è molto più forte.

Nel primo pomeriggio, immersi nella canicola, scorgiamo a distanza una concentrazione di ger e un enorme recinto in muratura bianca, colore pulito, innaturale fra gli ocra e i verdi della prateria. È il monastero di Karakorum, antica capitale della Mongolia, già visitata da Marco Polo. Ora, fuori dal tempio, rimangono solo le tende.

È divertente visitare un monastero tenuto a modo mongolo, all’interno delle mura campi di erba alta, non mi stupirei di trovarci animali al pascolo. Ma gli interni degli edifici religiosi sono stupefacenti, arancio, rosso, blu, giallo tuorlo. Mi divertono le donne anziane in pellegrinaggio, che si comportano esattamente come i nostri anziani nei monasteri cattolici più in voga.

In Europa si parla del buddismo come di una religione pura, incontaminata, fatta di meditazione, sentimenti importanti e dedizione, così non posso che sentirmi sollevato a vedere i monaci in preghiera, quelli più giovani con espressioni visibilmente annoiate. È sempre una soddisfazione, riportare a terra gli uccelli che sembrano volare troppo in alto, corvi che da terra sembravano falchi.

Nel buddismo, come nel cristianesimo, quello che affascina, che converte anime, sono i simboli. Le parole che appagano di più perché non vengono dette, ma lasciate intendere. Il simbolo della bandiera mongola, ricalcato dai muri del monastero di Karakorum: il fuoco, il tao, la luna, il sole, le colonne della vita o della ragione. Pensandoci bene, tutta bellezza, forza, eleganza, meditazione in potenza, nessun significato stabile e univoco e che ognuno ci legga quello che vuole, come nella Bibbia.

Il simbolo fa da stipite anche al portone del monastero. Di fronte tre tende azzurre, tende quasi tuareg, non ger, una con un’aquila addestrata a farsi fotografare, un’altra non so cosa venda, la merce esposta male non attira la mia attenzione europea. L’ultima non sembra vendere niente, non espone messaggi o cartelli, ma Ciuca va a colpo sicuro. Là sotto, al riparo dal vento più che dal sole, proveremo l’airag.

La mia famiglia, come da tradizione locale anaune, ogni anno a giugno raccoglie ceste di fiori di sambuco per farne uno sciroppo molto dolce, tagliato con poco acido citrico, da diluire con l’acqua. Agli ospiti non piace mai, ma noi siamo abituati al suo sapore. Capita che qualche bottiglia chiusa male fermenti. Quello è il sapore dell’airag, un sapore fermentato, non nuovo, né particolarmente strano. Neanche buono, ma è tutta questione di abitudine. Come per il sambuco e più avanti per la birra, anche per l’airag. Un altro paio di tazze e ci potrebbe anche piacere.

Ciuca ci porta al mercato nero, che qui è il nome che si dà a qualsiasi mercato gestito da zingari. Per 3000 tugrik, 3000 lire, ci aggiudichiamo un pallone da pallavolo bianco, giallo, blu, con scritto ГАРБӨМБӨГ, che in mongolo significa pallavolo. Lanciamo Garbömbög nei prati di Karakorum, come sempre all’apparenza infiniti, ma contornati da montagne lontane che sembrano appartenere a un altro piano, come il cielo che fa da sfondo ai presepi. Fra il monastero e un campo di ger ad uso turistico (ridicolo, per 1500 lire ti puoi fare anche la doccia!) ci lanciamo nel più sacro degli atti liturgici, la partita di pallone. Corriamo calpenstando erbe grigie secche che spirano in un profumo leggero, misto di canfora e menta. Ci concediamo bordate che non usciranno mai dal nostro campo, schiviamo cespugli che causano una reazione tattile identica a quella dell’ortica, gridiamo per svegliare i turisti olandesi, svizzeri, francesi, spariti dalla vista, forse chiusi nella tenda spoglia (che tristezza, un interruttore per corrente!) a meditare come bambini che imitano il papà per sentirsi adulti. Li vedo alzarsi alle 5 nelle loro sicure case europee, per meditare, senza mai risolvere i loro problemi di stress, perché non hanno capito che un'ora in più di sonno vale molto più di una di yoga.

La sera, dopo una cena con una capra che diventa sempre più arcigna da ingoiare, entra un uomo sulla cinquantina, pelle gialla squamata dall’età e dal vento, vestito con un costume tradizionale blu e rosso. Vede la bottiglia di airag che Ciuca si è comprata. Lei non c’è e lui ne chiede un sorso ad Agghi. Lui, sdraiato sul letto di tappeti a leggere un libro dall’aspetto più vecchio che antico, con cavalli in copertina, gli fa un segno di assenso. Lui si attacca e se la scola, lasciandone un decilitro perché vuotarla è maleducato.

Poi ci parla, in un inglese di circostanza. È un musicista e ci invita ad ascoltare la sua musica altrettanto tradizionale nella tenda di una coppia svizzera con una macchina fotografica che sembra un obice. Partecipiamo tutti, da tutto il campo. Tutti i maschi, una decina, hanno la barba, tranne il giapponese. Certe cose le devi fare per essere credibile. Cass, col suo pizzetto curato, è l’unico a non esserlo, in questo caso forse il più onesto di tutti.

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