giovedì 3 dicembre 2009

Dieci e undici settembre

Stamattina, dopo l’idillio, è tutto un po’ più opaco. Il sole, il lago, l’atmosfera e la faccia di Agghi, con i suoi baffi adolescenti e i capelli quasi biondeggianti a spazzola unta. Ha una faccia molto cinematografica, Agghi, zigomo rialzato da cowboy, di quelli da pronunciare con la a lunga, aperta e molto accentata. Gli manca solo la sigaretta per essere Clint Eastwood, perché i turisti paganti gli hanno proibito di fumare nella sua macchina. Che poi, per fare una battuta che non piace neanche a me, ma la dico lo stesso perché fa ridere perché non fa ridere, east sì, ma wood mica tanto, qui in giro.
Invece Ciuca è sempre più tenera. Non si capisce se è davvero una bambina o lo sembra solo, con i dentoni e gli occhi a spiraglio, per l’occasione ancora più chiusi e ombreggiati del nero di chi non te la racconta giusta. Ciuca non riesco ad immaginarmela senza le braghe a righe incrociate e la giacca a vento marrone nocciola, che ha sempre avuto addosso nei tre giorni in cui l’ho conosciuta. Elegante, Ciuca, come tutti i mongoli di città. A venire dalla Russia, ci pare che abbiano preso gli abitanti di Milano o Parigi per trasferirli sulle strade di Beirut.
Ciuca non ce la racconta giusta no, ma Tomas sì, che nonostante la bufera, stanotte l’ha sentita in un duetto notturno, dove la sua voce alta faceva da contrappunto ideale ai muggiti viscerali del metallaro delle grandi praterie. Le folate del vento erano un’orchestra di violini in questo melodramma d’amor rustico.

Ciuca rimane in effetti fuori uso per tutta la giornata, il suo inglese diventa la lingua dei mangiatori di semolino secco. Agghi non ci sta e guida come un turbine su strade che inventa o disegna da solo. Ho già sperimentato che la prateria suscita sentimenti di eroismo sfigato in chi soffre le pene del cuore.
Noi siamo stanchi e abbiamo freddo. E fame, perché ormai tutte le nostre vivande hanno aspirato capra e anche i biscotti cantano le gesta di un animale che un tempo, a forza di incornate, era riuscito a diventare capobranco. Prima di essere ucciso, nell’uso mongolo, con un’incisione in una parte non vitale del basso collo e un braccio che entra nella laringe e strappa la gola. Oggi la Mongolia sembra la cima dello Stelvio, solo spianata.

È la giornata del ritorno. Ci fermiamo un paio di volte per rendere omaggio a vecchie mura. La spiegazione di Ciuca è incomprensibile, ma nessuno ci fa più caso.

Verso il tardo pomeriggio incontriamo l’asfalto. Entriamo ad Ulan Bator come Kristian Ghedina entrava sulla Trettrè. Gli autisti locali non seguono regole, se non quelle imposte nel proprio interesse dall’ostacolo fisico. Non si può dire che siano spericolati, perché non corrono più di tanto e, anche se non si fermano ai semafori, quando un pedone gli si piazza davanti, inchiodano e lo lasciano passare, senza colpo di clacson ferire. Agghi invece no. Trasporta tre turisti occidentali, ha un adesivo sul retro che dice “Tourism – Typicm” e non c’è modo di fermarlo. In più, come ormai noto, è imbranato. Trattengo il rimbrotto, ricordando la faccia da agnellino che ha fatto quando gli ho chiesto di non fumare nella ger, ma quando vedo l’anima di un anziano quasi andarsene per mano sua, trattenuta solo dalle punte delle setole della sua lunga barba bianca, caccio il grugnito dello yak. Stavolta però Agghi tira dritto, con la disperazione di chi per tre giorni ha avuto un’ottima potenziale moglie seduta di fianco, per lasciarsela sfuggire per mano di un metallaro con una barba che sembra un pube.

Una volta messo piede sulla terraferma, sfuggiamo all’ostello dove ci voleva portare Oleg, stilosetto e zeppo di cartelli a computer in lingua americana. Ci fermiamo in una casa accogliente, una casa con scritto "Hostel" all'esterno. Una camerata da sei tutta per noi, di fianco ad un'altra tutta per due ragazze inglesi. La padrona, un’anziana signora mongola, che come molti qui parla la lingua di Shakespeare e di Jay-Z, ci detta le regole della casa e ritira la nostra sbiancheria per andare a lavarcela. Il letto è il più comodo al mondo, la doccia è calda, il riscaldamento è il primo che sento da marzo. Le ragazze ci invitano ad una quiz night organizzata da loro, dove non arriveremo mai perché qui tutto chiude a mezzanotte e noi mangiamo fino alle 11.30. Carne di ogni sorta, tranne la capra, ottima Chinggis Beer, una delle cene più gustose di sempre, in un ristorante ispirato alla Via della Seta, con noi che di pulito abbiamo solo la tuta da ginnastica in mezzo a mongoli in giacca e cravatta.

La città l’abbiamo lasciata per l’ultimo giorno. Il giorno che abbiamo tenuto nel caso il fuoristrada ci avesse piantato nella prateria. Che cazzata, col senno di poi. Comunque in centro c’è questa piazza d’armi enorme, che tanto in Mongolia di spazio ce n’è. C’è in mezzo la statua di Suchbatàr, l’eroe nazionale, perché ogni nazione ha il suo eroe nazionale, di solito sconosciuto altrove. C’è un municipio di pietra rosastra con davanti un’enorme statua di un uomo grasso intronato, che si dice sia lo stesso Suchbatàr qualche chilo dopo la rivoluzione, ma alla fine si scopre essere Gengis Khan, che comunque da ste parti si chima Temujin o Chinggis, come la birra e la vodka. Ci sono diversi palazzi color pastello, tanto per imitare i cugini russi e soprattutto c'è, in fondo a cotanta piazza d'armi neoclassica, un grattacielo a vela, simile a quello di Dubai, però mignon. Il tutto sembra un'imitazione cinese o americana della Città ideale, nel senso del dipinto, con la pinna dorsale di un
enorme squalo robot che naviga sotto il pelo del cemento.

È moderno e un po’ affastellato, il centro di Ulan Bator, come ti immagini possa essere. Negozi di souvenir e quantità inverosimili di centri informatici, internet cafè e mangerie che crescono senza piano regolatore, ma con un gusto nell'accostamento leggermente migliore rispetto ad Irkutsk. C'è l'ambasciata della Corea del Nord, un'inferriata da serraglio con sopra il filo spinato, come nei film, un monumento a quando prendersi sul serio ti fa diventare ridicolo e quella della Francia, una maison coloniale massiccia, con piante esotiche e lindo soleggiato candore che ti fa sospettare che sia stata concepita per Tahiti o la Nuova Caledonia. Minacciosa, ma con stile. Un po’ come il tirannosauro del museo di scienze naturali. La Mongolia è una coltivazione estensiva di fossili e il museo di quella che i locali americaneggiano con orgoglio in Iuu Bii è grande, ma completamente focalizzato sulle due sale sulla paleontologia. Un viavai di protoceratopi, uno dei quali stecchito mentre se la fa con un velociraptor, un anchilosauro che sembra il carrarmato di Leonardo, quello da Vinci, e sto tirannosauro che regge una buchetta di vetro piena di dollari e tugrik chiedendoti se non è che per caso c’hai spicci.

C’è tutta sta gente giovane che gira per le strade di Iuu Bii, con i sacchetti della spesa del supermercato locale, che sono identici a quelli che vendono a New York, con la scritta “I Cuore NY”, che se solo ci fosse scritto “I Cuore UB” ogni turista ne comprerebbe una risma. Invece così sono i locali a comprarne a risme, tutti sti giovani si vestono come noi. Come in Europa, neanche come in America. Colori sobri e tagli raffinati. Dopo la Russia e le sue giacche di pelo finto arancio fosforescente sembra di essere tornati in un cittadone europeo.

A pranzo si mangia una doppia razione di booz, che sono ravioli al vapore ripieni di una capra squisita. Cass però dissente, citando problemi intestinali. Durante il viaggio Cass ha divorato tre quarti di confezione delle mie pillole per la dissenteria, manco fossero Ricola. Poi saliamo sul bus per dare un’occhiata al palazzo degli ultimi Khan. I biglietti non esistono, ma c’è una bigliettaia sui sedici anni che si infila fra la calca per assisterci per tutto il tragitto, salvandoci dai 300 metri della fermata sbagliata.

Al palazzo dei Khan ci si arriva dritti come un fuso dalla piazza principale, ma quando ci si arriva è già periferia, all’ombra di un casermone giallo con terrazzi di legno, che ha l’aria di essere abitato da espatriati americani. Un palazzo scrostato, quello dei Khan, a differenza di quello degli americani, ma dall’aria vissuta, vera, molto più vera di quelli identici che vedremo a Pechino. Un palazzo di Buddha che escono dalle erbe infestanti, pieno di padiglioni scrostati e sbiaditi all’esterno, ma ancora perfetti, arancio, oro, blu, nelle sale coperte dalle intemperie. Nel padiglione principale, la roba dei Khan, mappe di Ulan Bator, animali impagliati, mobili di legno prezioso e una ger di pelli tigrate. Un gusto basato su strutture diverse dalle nostre, ma mirato come il nostro allo scopo di piacere.

La sera le inglesi ci invitano in un posto che non troveremo mai, peccato per il rock alternativo mongolo. Ma forse era roba da espatriati, meglio così, perché mentre lo cerchiamo finisce che ci trascinano in una discoteca di bassissimo livello, unici occidentali, che non gli pare vero di averci trascinati là, a farci fare la figura degli ospiti speciali, o dei magnaccia. Ci liberano un tavolo, dissipando gli astanti come un banco di pesci diviso a metà da Mosè che apre le acque, mentre il meglio del diciottennume locale ci si si contende. Oleg ha il fuoco di Odino negli occhi. Io vado in bagno, un ragazzino mi provoca timidamente per fare a pugni con lo straniero. Gli sorrido e lui non se l’aspetta.
Oggi ho fatto fare buona figura all’Occidente. Anche Oleg lo ha fatto, perché all’ostello ci torniamo noi tre da soli.

1 commento:

  1. chi se lo immaginava che scrivevi così bene!!! Complimenti! Una bella scoperta questo racconto :)

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