sabato 14 agosto 2010

È proprio questo il pensiero che ci perseguita all’inizio. Perché siamo venuti qui? Più per scoprire un paese o perché il nome fa ridere? E se vince la seconda, cosa ci facciamo in un posto dove siamo andati solo per il nome?

Prendi l’arrivo. Fra controlli e carte da compilare, usciamo dall’aeroporto di Taskhent alle 5 di mattina, è già giorno quasi pieno, perché da queste parti il fuso orario è più tradizione che convenienza, verso le 6 siamo nella stanza d’albergo che abbiamo prenotato via internet, credendo di arrivare per le 3.30. Alle 6.30, appena addormentati, ci svegliano dicendoci di averci dato la stanza sbagliata. Andiamo a letto alle 7.30, perché la stanza va preparata, e la sveglia suona alle 9. Sulla via per la colazione, ci avvertono che non risulta che abbiamo pagato, telefoniamo all’agenzia on-line, dove per fortuna scopriamo che c’è stato un malinteso (o meglio, i gestori dell’hotel hanno ricevuto il pagamento sul conto in banca, mentre si sarebbero aspettati soldi veri).
Alle 10 siamo pronti per partire, sollevati dal problema risolto e nonostante la calura, ci godiamo la camminata dalla periferia alla stazione centrale, scoprendo il motivo della pianta di cotone, che trionfa su ogni muro, la gentilezza della gente, il traffico di veicoli sovietici e coreani e la luce bianca che filtra fra le nuvole. Passiamo in stazione, perché l’idea è quella di partire subito, prendere un treno e correre fino al punto più lontano, per trasformare il viaggio in un lungo ritorno.
Ma leggere gli orari non è facile. I treni non passano tutti i giorni e noi non abbiamo idea di come si dica venerdì in russo. Non ci resta che sperare che gli orari scaricati da un sito internet piuttosto informale siano validi.

A questo punto abbiamo fame e ci mettiamo alla ricerca di un bancomat per prelevare i nostri primi sum, valuta con lo stesso cambio de tugrik mongolo e della lira italiana. I bancomat non esistono, così cerchiamo una banca. Le banche esistono, ma non vogliono lasciarci prelevare. Prelevare in sum è impossibile, ci servono dollari, e si dice che in città il contante scarseggi. Trasciniamo corpo e borsone da una banca all'altra, mimando e usando parole di caratura internazionale, quali dollar e credit card, quando finalmente qualcuno ci avvisa che l'unico modo per prelevare è farlo dall’ufficio di cambio di un hotel a cinque stelle. Ormai stiamo camminando da tre ore, con lo zaino pieno in spalla. Il sudore ci percorre la schiena a gocce e anche il Grand Hotel ha finito i dollari. Sorridendo, la ragazza alla reception ci confida che siamo stati fortunati a non esserci fatti ingoiare la carta di credito. Fortuna a parte, l’ultima possibilità di raccattare di che vivere è camminare un’altra mezz’ora verso un hotel di una catena russa, dove francamente dubitiamo di poter prelevare gli ultimi dollari rimasti in città.

Siamo in Uzbekistan da dodici ore e il treno per Urgench, se passa, passa fra due. Noi invece siamo demoliti. Però stavolta ci va bene. Certo, non tutti i tipi di carta di credito sono ben accetti, ma io ho quella giusta. Anzi, il garzone dell’hotel parla inglese e ci trova tutte le informazioni sui treni. Quello per la periferia dell’Asia passa effettivamente fra 2 ore e poco più. Di più, possiamo comprare i biglietti dall’hotel e lo facciamo, perché abbiamo già provato prima a metterci in coda allo sportello della stazione e non è il caso di ritentare l’impresa. Parlare a segni si può, ma solo se l’interlocutore ha intenzione di ascoltare.
Ci rimane un’ora e mezza di libertà. Visitiamo la parte più sovietica del centro. Una piazza con la statua di Amur Timur, detto Timur lo Zoppo, Tamer-Lame, Tamerlano. Per Timur c’è anche un museo rotondo, dipinto di bianco e di quel verde pastello che si trova dappertutto nel mondo sovietico. Poi c’è una specie di casa bianca, chiaramente la sede del governo, perché America o Asia, la sede del governo deve essere una casa bianca, possibilmente in stile neoclassico. Questa è affiancata da un enorme radiatore di cemento, l'Hotel Uzbekistan, quello dove venivano tenuti gli stranieri fino a meno di vent’anni fa. E poi c’è la Broadway di Tashkent, un nome che promette Lamerica fin dall’inizio e mantiene la promessa, nonostante il gusto di un prato verde. Anche la nostra fame è degna de Lamerica e per una volta contravvengo ad una delle mie regole di viaggiatore: mai mangiare in un posto dove alla porta sta un buttadentro. Stavolta il buttadentro è una gentile signora dai fianchi larghi e i capelli sbiancati, chiaramente russa, che ci promette di cucinarci qualsiasi cosa vogliamo, ma senza rivelarci (in realtà lo sospettiamo) che deve andare a comprare gli ingredienti al negozio. E così un’ora se ne va, mangiando prima il dolce, una tortona da matrimonio di cartone, mentre si aspetta una scaloppa con contorno di riso al ketchup. E ci sentiamo come turisti che vengono dalla parte obesa de Lamerica quando andiamo, con loro che pretenderebbero di farci pagare 50 centesimi per lo zucchero del tè. Va bene, va bene, stavolta abbiamo imparato, alla prossima non ci faremo fregare.

Per tornare in stazione prendiamo la metropolitana, perché dicono che ne vale la pena, di vedere come hanno arredato ogni stazione, come un salotto profumato di oli combusti, stile arzigogolato, ma geometrico, puro modernariato. Quello che non sappiamo è che la polizia è solita fermare i turisti zainodotati per arrotondare lo stipendio. Ed è una fortuna che non lo sappiamo, perché nell’incoscienza manteniamo la calma durante la perquisizione e anche se scopriremo solo più tardi che forse è stata quella donna di passaggio a salvarci la cassa, quando ci lasciano andare non ci sentiamo particolarmente miracolati. Anche se resta comunque il pensiero di perdere il treno, legato a quanti minuti dovremo aspettare la coincidenza al momento del cambio. Per fortuna l’attesa dura solo due minuti, arriviamo in stazione, corriamo al binario e, finalmente sollevati, consegnamo il biglietto al controllore, molto meno formale dei colleghi russi, che ci fa segno di salire a bordo.

E il sollievo dura trenta secondi, perché appena saliti ci accorgiamo di essere finiti in quella che fra Mosca, Pechino e Vladivostok si chiama terza classe.

Ci sediamo sulle panche dello scompartimento aperto, senza porte e pareti, pronti per una notte stretta, rumorosa, faticosa. Ci guardiamo negli occhi, perplessi. Ne è valsa la pena? Ed è da qui che cominciamo a conoscere questo paese. Perché siamo stanchi, sudati, incerti, ma non ci permettono di buttarci giù.

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