domenica 7 febbraio 2010

Dal tredici al diciannove settembre, per le vie di Pechino

Pechino è un dato di fatto. Arrivarci in treno, con una preparazione di settimane, cancella completamente l’effetto shock. Anche il treno ormai è un dato di fatto. Ti scarica in un posto completamente diverso da quello dove sei salito. E forse è perché non ci credi, che da là non ripartirai, che non senti nulla di strano.
Meglio così, nessun sentimento eroico, messuna aria di impresa. Si scende e basta. La stazione è come quelle europee, con cartelli in cinese, ma quelli ci sono anche a Zeedijk.
Abituati alle basse densità abitative, quando il treno ci snocciola come piselli pronti per il minestrone, ci si perde immediatamente cercandosi, come al ritorno dalla gita scolastica, tutti stanchi e diretti a casa senza pazienza per i convenevoli. Oghi cerca di scappare, io riesco a fermarla e dirle ciao, gli altri neanche quello. È la folla cinese la più grande differenza rispetto alla Mongolia. Porta via gente, al punto che devi scegliere solo un paio di persone da salutare. Gli altri ciccia.

A Pechino ci togliamo le giacchette, appena usciti dalla stazione. I palazzi sono moderni, impersonali, grigi. Fraintendendo l’alfabeto, uno direbbe di essere in Giappone. La strada di fronte a noi è così lunga da terminare dove comincia l’orizzonte. Per arrivare all’ostello camminiamo fra due pareti di palazzi, come Mosè alla traversata del Mar Rosso. Ci abitueremo a farlo. La geometria stradale di Pechino è regolare. Cardo e decumano, termini latini che oggi descrivono Pechino e New York. Le strade in senso longitudinale sono ampie, sbocciano di banche, ristoranti decorati, negozi di oggetti, farmacie, minimercati. Quelle in senso latitudinale, come quella del nostro ostello, sono il retrobottega della città, disordine, miscela eterogenea di cemento e draghi impietriti, pezzi di materiale refrattario impilati. È qui che la geometria lascia il posto al caos. Ognuno vive in un capanno per attrezzi. Mattoni a grappoli, frammisti a lamiera, cemento, compensato, carta, anticaglie riconvertite a scopi funzionali e non decorativi. Ovunque si sente il piscio, più umano che animale. Nessuna casa ha un bagno e quelli pubblici sono frequenti, ma mai quanto basta.

A Pechino c’è molto da girare. In taxi, perché costano nulla e la città è enorme. I taxi tutti con la pubblicità dietro al sedile dell’autista, con scritto “enjoy the luxury experience of breast augmentation”. Il bello è che in tre ce ne accorgiamo solo all’ultimo giorno. Altre volte si gira in metropolitana, nuova, pulita, bianca, grigia e rosa, con treni frequenti e barre antisuicidio. Vuota. A piedi si fa poco e ci si perde, ma è bene camminare. Incredibile come in un posto così noioso e fatiscente si trovino così tanti spunti visuali. È girando per la città, a sud-est del centro, che ci si accorge della differenza fra povertà e miseria. Se sei povero puoi comunque essere felice, come in Mongolia, le tende vuote ma belle, i pochi elementi costitutivi decorati accuratamente a mano. La povertà ammette il tempo libero per curare l’esteriorità, la qualità della vita, oltre alla sopravvivenza. La miseria è quella dei cinesi, ai quali Mao ha levato la cultura a nome del progresso, costretti a vivere in capanne che sembrano serre bucate perché non conoscono standard di vita migliori. La povertà colpisce le tasche, la miseria raggiunge il cuore e lo stomaco.

Sei giorni inverosimili. Sento di aver raggiunto quello dal quale volevo scappare. Nella Città proibita, nel Palazzo d’estate, architettura bellissima, colori, gusto decorativo, ma un'impressione di falso, di made in China nel senso in cui lo si immagina in Europa. Una storia dimenticata. Ricostruirla è l’unico modo per provare che sia realmente esistita. Anche se a volte è necessario tappare le falle con fatti di cartapesta. La Grande muraglia, di pietre squadrate perfettamente, tenute insieme col cemento. Una scarpinata fino in cima e poi per scendere c’è lo scivolo.
Anche Mao, nel suo mausoleo, sembra finto. A vederlo lo scambieresti per Berlusconi, o per una di quelle maschere da carnevale con la faccia di Berlusconi.

Il mausoleo coi suoi fiori gialli in vendita a cinesi in fila ordinata, orgogliosi dell’uomo che li ha portati di colpo nella modernità, che ha trasformato Pechino in una città industriale, moltiplicando la popolazione, senza aumentarne le dimensioni. Per essere moderni serve austerità, adattamento, resistenza.

Poi, una volta raggiunta la modernità, puoi andare al Banana Club.

Pechino è il punto saliente per Olof. Ci è passato l'anno prima, ma è contento di tornarci. Ha apprezzato gli alcolici a basso prezzo, i taxi a prezzi da autobus, la modernità dei negozi del centro, il cibo cinese, ordini quindici portate, mangi un terzo di quanto ti portano, ma hai pagato al massimo 100 yuan. E 100 yuan sono 100 corone. Pensandoci bene è la persona più adatta per guidarci, senza l’illusione di cercare ambienti incontaminati, cultura, diversità. A Pechino Olof si lascia andare alla mollezza, insiste per prendere un taxi per andare ovunque, Tomas perde la pazienza, io mi lascio andare. Girare la città in bicicletta o in taxi non fa molta differenza.

E la mollezza qui è a portata di qualsiasi tasca occidentale. Il nostro ostello è un hotel, con tanto di kit con spazzolino che dopo tre giorni sembra uno spazzolino normale vecchio di tre mesi e minitubo di colla da modellismo con dentro il dentifricio. È proprio a Pechino che si torna a casa: internet ogni giorno e venti minuti di Inter - Parma in tv. Per fortuna che Facebook è bloccato dalla censura.
Intanto controllare Olof diventa sempre più arduo e mi tocca concedergli la mia prima volta al Kentucky Fried Chicken. Pollo fritto del Kentucky, a Pechino.
E soprattutto gli concediamo il Banana Club. Un club superesclusivo con tutta la bella gente di Pechino, più Tomas, che i vestiti da bella gente li ha comprati il giorno stesso al mercato dei falsi e io, che mi presento in uniforme da treno.

Non è mica la discoteca di Ulan Bator, il Banana Club. A Pechino è pieno di gente bella e i pechinesi sanno riconoscere un Prada vero da un falso o un Oviesse. In bagno c’è uno che mentre pisci nei cessi a muro ti massaggia la testa e ti offre una gomma. Le ragazze deludono Olof, tanto che in seguito, ogni volta che verremo invitati da un distinto signore in un lady bar, verrà seriamente tentato a scappare dalle nostre fauci protettive per sciogliersi nella sensualità asiatica in un ambiente più consono della cuccetta di un treno.

Ci voleva poratre all’opera, Olof, e invece ci porta a vedere un musical sui monaci Shaolin. Nella sala gli unici cinesi sono sul palco e parlano l’idioma americano. A fine spettacolo si unisce a loro, previa esborso di 20 yuan, per una fotografia in posa. È proprio la città per lui. È entusiasta e ci fa in questa città, ci fa.

Una sera torniamo all’hotello proprio nel momento in cui squilla il telefono per noi. È Linda, che sapeva il nome del posto e ha chiamato per invitarci a mangiare l’anatra in un posticello non troppo lontano. Pare che sia stata Mia ad organizzare l’evento e infatti eccola là, bella con la sua pelle scura che sembra abbronzata, il suo sorriso tondo, gli occhi da korae, con l’aggiunta di capelli e vestiti puliti. Mi regala un involtino di riso dolce e mi invita a fumare un’altra sigaretta cinese, che stavolta rifiuto. Mi scopro quasi a sperarmi singolo, mentre assaggio tutto dell’anatra, soprattutto la pelle dolce, da intingere fra cristalli di zucchero. Con noi c’è il solito mondo anglosassone che si sposta di ostello in ostello guardandosi ogni tanto qualche monumento. Un tipo completamente ubriaco che si narra sia stato portato via in coma etilico solo la sera prima. Un altro con occhiali talmente sporchi che ci sis chiede come li possa guardare, quei due monumenti. Lo ritroveremo due giorni dopo al Palazzo d’Estate, con gli occhiali altrettanto sporchi.

E intanto Mia è là e Holly Day la spinge. L’intesa c’è tutta, ma lei che è hippy e psicologica, capisce che sarebbe bello sì, ma non possumus. Tanto più che poi si scopre che avrebbe il mio stesso impedimento, per quanto sia decisamente disposta ad ignorarlo. Ci sentiamo confortati da tanta moralità e finisce che facciamo anche noi i disegnini da appendere, con la bandierina del nostro paese come chi ci ha preceduti. Io mi spaccio per sanmarinese e qualche boccale di Tsingtao dopo potrei essere uno di quegli anglosassoni da ostello, se non stessi cantando Karl-Marx Strasse di Paolo Pietrangeli accompagnato alla chitarra da Tomas, estasiato dal ritornello che dice “Lenin olè”. Lui, lo scandinavo, che associare politica e cori da stadio gli fa strano.

2 commenti:

  1. Era ora, perbacco.
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    Mia (non quella di cui sopra, purtroppo per te)

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  2. È vero! Non avevo ancora collegato l'omoniMia!

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